di Piero Colaprico
La Repubblica, 14 aprile 2015
Parla Katia Roberta Mantovani, l'anno scorso suo marito fu ucciso a Correggio.
"Bisogna far cambiare la legge sul porto d'armi, questa tragedia di Milano me l'ha fatto pensare ancora una volta. E per questo ho chiamato subito la famiglia dell'avvocato Lorenzo Claris Appiani, per dire che condivido la loro richiesta parola per parola".
Signora Katia Roberta Mantovani, un anno fa, d'estate, suo marito Amos Bartolino, primario di oculistica a Correggio, è stato ucciso da un uomo apparentemente sano di mente, che però girava armato, e poi s'è ammazzato anche lui...
"Io sono una casalinga, in cucina uso i coltelli, ma non riesco nemmeno a immaginarmi mentre esco di casa con una lama. Sia da quanto è accaduto a noi, sia da quanto accaduto a Milano, mi sono fatta l'idea che la concessione del porto d'armi sia molto subdola".
Subdola perché?
"Perché ad alcuni viene l'impressione che questa concessione si trasformi nel diritto di girare armato. Senza alcuna remora".
Alcune psicologie difficili si tengono però ben nascoste...
"Se lei conosce il caso dell'uomo che ha ucciso mio marito, sa che si trattava di uno grande e grosso, calvo. In quelle ore, quando mi sentivo dentro l'uragano, sono andata a vedere il profilo Facebook e sono rimasta senza fiato. C'erano le sue foto. Era con i capelli e il pizzetto, era magrissimo. Aveva accanto foto di donne bellissime, di "pupe", quando lui nella quotidianità non aveva nessuno, era divorziato e aveva finito male un'altra relazione. Cioè, si era inventato dal nulla un'altra esistenza parallela. Era rintanato nel mondo virtuale fasullo. Secondo me per rilasciare questi permessi ci vuole uno psicologo, e questo psicologo deve fare un esame vero, tenendo conto anche dei social network e della vita sociale di chi chiede di poter avere un'arma".
Per altro, l'assassino di suo marito era stato guardia giurata, ma faceva l'elettricista e l'istruttore in palestra con i bambini...
"Noi che abbiamo a fianco le vittime, e che forse possiamo parlare a loro nome, questo chiediamo a gran voce. Ma c'è davvero necessità per una persona di girare con un'arma? Che mestiere fai? Chi sei? Qual è la tua necessità pratica ad avere una pistola. Ma, ammesso che ci sia, sei in grado di gestire una situazione in cui si può fare uso delle armi o no? Questa libertà sul tema delle armi da fuoco mi preoccupa moltissimo, e temo che non dipenda nemmeno da una scelta, ma da un pressappochismo che sin qui ha dilagato. Non ho la pretesa di salvare il mondo, ma come hanno detto i familiari dell'avvocato ucciso a Milano, basterebbe salvare qualche vita, quando si può".
Anche lo sparatore a Milano si era allenato al poligono...
"Anche in questo esiste un aspetto subdolo. Se uno si abitua a sparare, se non è perfettamente a posto, può piano pensare che sparare sia una risposta, se non l'unica risposta".
Alcuni di questi killer, una volta scoperti, sembrano far parte della stessa "famiglia", se così si può dire. Persone che danno in escandescenze, petulanti, asfissianti, molesti, successo così anche suo marito, vero?
"Purtroppo è con il senno di poi che si percepiscono alcuni segnali. L'uomo che ha ucciso mio marito non rispettava le scadenze dei lavori, si presentava a ogni ora, era prepotentemente presente. Ma al momento sembrava solo un rompiscatole. Invece aveva una pistola".
di Giuseppe Di Lello
Il Manifesto, 14 aprile 2015
La recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul massacro della scuola Diaz nella notte tra il 21 e 22 luglio 2001 pone temi nuovi che si sommano ai tanti sollevati dai fatti tragici accaduti nel corso del G8 di Genova. Su questi ultimi non si volle indagare con una commissione parlamentare d'inchiesta, proposta bocciata da tutto il centrodestra con il determinante appoggio del moralizzatore Di Pietro.
Ne seguì una insignificante commissione parlamentare senza i poteri dell'autorità giudiziaria, all'interno della quale le voci preminenti dell'allora sinistra moderata (Ds-L'Ulivo e Margherita-L'Ulivo) si affettarono a correre in soccorso del partito della polizia e, con innocue domande al limite del ridicolo, aggiunsero al danno la beffa.
Con i processi sui fatti della scuola Diaz ultimati, la Corte di Strasburgo ha avuto il quadro completo di ciò che è accaduto quella notte e ha sentenziato che si era trattato di atti tortura, di trattamenti inumani e degradanti perpetrati da un corpo di polizia che, però, non hanno ricevuto che lievi sanzioni o proscioglimenti per prescrizione, per mancanza di una normativa adeguata. Gli autori materiali delle violenze, inoltre, non sono stati mai identificati e ciò, si rammarica la Corte, perché "la polizia ha potuto impunemente rifiutare di fornire alle autorità competenti la cooperazione necessaria all'identificazione degli agenti suscettibili di essere implicati negli atti di tortura". Di ciò, sempre secondo la Corte, non ne ha la responsabilità la magistratura che, anzi, data la assoluta mancanza di collaborazione degli apparati dello stato, ha fatto tutto ciò che poteva.
Il giudizio è arrivato su ricorso di Arnaldo Cestaro che all'epoca dei fatti aveva 62 anni e che, venuto da Roma a dimostrare pacificamente, era poi andato a dormire alla Diaz, dove era stato pestato a sangue riportando fratture e lesioni permanenti. Tra qualche tempo arriverà anche il responso della Corte sui fatti di Bolzaneto, dove le torture furono più "scientifiche" perché lontane da occhi indiscreti e su soggetti che, formalmente, erano affidati alla custodia degli agenti di polizia penitenziaria.
Non credo però che si debba aspettare anche questa seconda sentenza perché quello che è rimasto della sinistra debba riproporre una commissione parlamentare d'inchiesta su quei fatti. Non vi sono pericoli di interferenze con l'attività della magistratura dato che, come detto, i processi sono stati definiti, i poliziotti violenti l'hanno fatta franca e molti funzionari coinvolti hanno pure fatto carriera. Non è di ostacolo l'assoluzione di De Gennaro perché riguarda un caso del tutto scollegato con i fatti oggetto del giudizio di Strasburgo. Non vi sono problemi di reperimento dei "testimoni" dato che la classe politica del tempo è viva e vegeta, anche se un po' invecchiata.
E poi, oltre a tentare di far luce sulla catena di comando che portò da Piazza Alimonda, alla Diaz e alla Bolzaneto, c'è da rispondere anche alle nuove "domande" poste dalla Corte di Strasburgo e a una in particolare che dovrebbe intrigare anche il ministro della Giustizia interessato alla riforma del processo penale: come diamine è possibile consentire che, nel corso di una inchiesta penale, un corpo dello Stato (la polizia nel nostro caso) possa rifiutarsi di collaborare con l'autorità giudiziaria e di fornire i nomi di possibili autori di reati. Bella domanda che si pongono ancora gli onesti magistrati di Genova che indagarono sul G8: quelli sì, lasciati assolutamente soli.
C'è poi l'adeguatezza della legislazione che ora è stata integrata da una legge sulla tortura da troppi ritenuta...inadeguata: così come è, si applicherebbe ai fatti di Bolzaneto ma, magari con l'ausilio di buoni avvocati, non a quelli della Diaz. Altre risposte attendono anche le "frecciate" lanciate dal magistrato Sabella, delegato del Dap per Bolzaneto, secondo cui c'era anche chi il morto lo voleva, ma tra le forze dell'ordine per giustificare una stretta repressiva: vista l'autorevolezza della fonte, non è questione da far cadere nel dimenticatoio. Sabella poi su Bolzaneto dice che "in quei momenti non c'ero" ma, allora, dove era mentre in quella caserma ne succedevano di tutti i colori (e non per dei momenti ma per ore ed ore) e agli agenti violenti si univano anche alcuni appartenenti al personale sanitario.
Ora la vogliamo questa commissione parlamentare d'inchiesta, anche per i tanti Cestaro che andarono a Genova per dimostrare pacificamente e vennero segnati a vita dalle violenze di poliziotti "anonimi". In Parlamento Di Pietro non c'è più, la destra è sfarinata e Alfano rappresenta uno stentato 4% di elettori. Poi c'è il Pd che dice di voler cambiare verso, i 5stelle e Sel che non dovrebbero tirarsi indietro. Cercare di riscrivere quella storia servirebbe anche a capire se c'è interesse in questo Paese per i diritti umani o se lo rispolveriamo solo quando quei diritti sono violati fuori dai nostri confini.
di Piero Sansonetti
Il Garantista, 14 aprile 2015
Assolti 194 dei 202 cittadini arrestati e sbattuti in cella dal campione dei pm anti-ndrangheta. Si è concluso la settimana scorsa, con una valanga di assoluzioni, il processo contro 202 abitanti di Platì (Locride, provincia di Reggio Calabria), 202 arrestati su 4.000 abitanti, circa uno ogni cinque famiglie. Erano stati tutti catturati, in una notte del novembre di 12 anni fa, sotto l'accusa di essere mafiosi.
L'operazione, ordinata dal dottor Nicola Gratteri, era stata eseguita da oltre mille carabinieri in assetto di guerra, che avevano circondato il paese e lo avevano messo a soqquadro, avevano trascinato via in manette uomini, donne, persone anziane, qualche ragazzo (anche un ragazzo handicappato) e avevano persino cercato di arrestare un assessore che era morto da un anno e mezzo.
Piatì, da quel giorno, in tutto il mondo è diventata famosa come la capitale della mafia. Beh, era una bufala. I lettori calabresi del Garantista conoscono bene questa vicenda della quale ci siamo molto occupati. 1 cittadini del resto d'Italia la ignorano, perché nessun giornale e nessuna Tv ne hanno parlato. È curioso che nessuno parli di un fiasco giudiziario di queste proporzioni - forse senza precedenti nella storia giudiziaria della Repubblica italiana - che oltretutto ha coinvolto uno dei tre quattro nomi più noti tra i Pm dell'intera penisola, l'uomo che dirige una commissione incaricata di preparare una riforma della giustizia, il candidato a fare il ministro del governo Renzi (bloccato solo dall'intervento, provvidenziale, di quel sant'uomo di Napolitano...), l'autore di tanti libri, di tante interviste televisive (l'ultima l'altra sera alla Rai da Fabio Fazio). Eppure è così.
È così per due ragioni: prima ragione, la stampa italiana è restia ad occuparsi di cose calabresi, non considera la Calabria territorio nazionale e ritiene comunque di poterla menzionare solo quando si tratta di raccontare che i calabresi sono 'ndranghetisti. Una notizia di segno opposto non è notizia. Seconda ragione, la stampa nazionale è restia a fare le bucce ai magistrati. Se un politico fa una sciocchezza, o ha un insuccesso, è giusto crocifiggerlo e sommergerlo col fango; se un magistrato ha un infortunio (diciamo così) è meglio tacere.
Da questo punto di vista l'intervista condotta l'altra da Fabio Fazio è un esempio clamoroso di giornalismo subalterno. Possibile che devi intervistare un Pm che quarantotto ore prima ha subito lo smacco clamoroso di una inchiesta famosissima, finita in una bolla dì sapone, e non gli fai neppure una domanda su quell'inchiesta e quella sconfitta? Niente, silenzio, velo complice? Sono rimasto senza parole vedendo quell'intervista.
Ero convinto che prima o poi almeno un accenno di domandina, Fazio, gliela avrebbe fatta. Macché! Andrebbe proiettata nelle scuole di giornalismo questa puntata di Che Tempo che fa sotto il titolo: "come non si fa un'intervista". Chissà se stavolta interverrà il consiglio di amministrazione della Rai, o la commissione di vigilanza. Dal punto di vista professionale l'infortunio di Fazio è spettacolare.
Ma torniamo a Gratteri. Tenendo conto del fatto che l'operazione Piatì, nel 2003, ebbe un'eco gigantesco sulla stampa nazionale e internazionale. È stata un delle poche volte nelle quali i media si sono occupati di Calabria, e lo hanno fatto per spiegare come un intero paese dell'Aspromonte fosse abitato da mafiosi, e poi per lodare il Pm sceriffo, Gratteri, appunto, che era stato capace di sgominare le cosche e far vincere lo Stato. Ora si scopre che i casi sono due. O davvero Piatì è tutta mafiosa, e allora Gratteri è stato un incapace a condurre un'inchiesta che ha portato all'assoluzione di tutti. Oppure (come è largamente probabile)
non è vero che Piatì è tutta mafiosa, e allora Gratteri ha fatto sbattere in galera duecento anime innocenti.
Naturalmente in questa "Capo-retto" di Gratteri non esiste alcun "profilo penale", come si dice sempre quando ì giornali prendono di punta un politico. Per esempio l'ex ministro Lupi. Poi i giornali dicono: però c'è un profilo di opportunità, e Lupi deve dimettersi. E si è dimesso. Perché suo figlio ingegnere aveva avuto un posto di lavoro da ingegnere precario a 1.200 euro al mese. Ora io dico: ma non c'è un motivo di opportunità grande come una casa perché Gratteri, quanto meno, la smetta di presiedere commissioni che dovrebbero stabilire come riformare la giustizia? Un insuccesso professionale di queste proporzioni, che in qualunque altra professione porterebbe ad una vera e propria rovina nella propria carriera, per un Pm non ha alcuna conseguenza? Va bene, prendiamo atto che i Pm sono al di sopra di ogni sospetto. Prendiamo atto che la stampa è pronta a perdonare loro ogni cosa. Però almeno che si sappia che le cose sono andare così, e si sappia che, insomma, forse, Gratteri, che è stato dipinto a tutti come un genio, come il numero uno, come il più bravo di tutti, insomma... diciamo la verità... No?
P.S. Nell'intervista a Fazio, Gratteri si è mostrato nella vesti del magistrato inflessibile, reazionario, nostalgico dei regimi forti. Un uomo di estrema destra, ordine, disciplina, pene esemplari. E questo è del tutto legittimo. Sono assolutamente convinto che Gratteri sia un magistrato in buonafede al 100 per cento.
Il problema è che lui è convinto di essere stato investito da Dio di una missione epocale: quella di ripulire il paese dai corrotti, dai sospettabili di corruzione, dai cattivi, dai disonesti, dagli anarchici, e naturalmente dai garantisti.
Ecco, bisognerebbe spiegargli che non è così. Lui deve occuparsi di fare le inchieste giudiziarie, di cercare i delitti, i colpevoli e le prove. Deve applicarsi di più a queste cose, in modo da evitare bufale come quelle di Piatì, fare meno interviste, pontificare di meno, e soprattutto rinunciare all'idea che tocchi a lui riformare la giustizia, perché penso che a nessuno possa venire in mente di affidare la riforma della giustizia al Pm che ha preso la toppa di Platì.
di Ilario Ammendolia
Il Garantista, 14 aprile 2015
Fu un'operazione di guerra, si inventarono anche una città sotterranea, ma era un errore di stampa. Mamme strappate al bambini, un ragazzo handicappato trascinato via.
Le sentenze di assoluzione pronunciate dalla Corte di appello di Reggio Calabria l'altro ieri fanno definitivamente scoppiare come una bolla di sapone la "brillante" operazione "Marine". Una Caporetto per il pm Nicola Gratteri. Ricordiamo i fatti: era l'alba del 12 novembre del 2003, quando scatta l'operazione "Marine" dedicata ai morti di Nassirya. Le truppe si muovono circondando un piccolo paese della Calabria: Platì! Sono un vero esercito. Si parla di mille uomini che avanzano protetti dalle tenebre verso l'Aspromonte. All'alba, l'assalto.
Abitazioni forzate, pianto di bimbi, urla di donne. Sembra un territorio controllato dall'Isis ma l'operazione si svolge in Calabria, nel cuore della notte. Quando il sole sorge, i notiziari nazionali riportano come prima notizia i risultati della operazione di polizia: circa 150 gli arrestati. Più di duecento le persone denunciate. Un numero enorme per un paese così piccolo.
E come se a Roma, in una sola notte, ci fossero centomila arresti! Si sarebbe gridato al colpo di Stato, ma qui siamo in Calabria ed è tutta un'altra storia. Poi i cellulari carichi di prigionieri scendono verso valle e man mano che si allontanano da paese, il cuore della gente di Piatì diventa sempre più piccolo. Non possono far altro che suonare le campane e rifugiarsi in Chiesa. Si rivolgono alla Giustizia di Dio, avendo constatato la fallacia di quella umana. Quei corpi in catene rappresentano la mortificazione estrema della persona umana. Sono l'altra faccia dei morti ammazzati sulle nostre strade.
Quanti sono gli innocenti? Secondo i giudici quasi tutti. Per giorni l'operazione Marine tiene le prime pagine dei giornali, perfino i titoli principali del NY Times e della Bbc. Nel frattempo l'operazione fornirà altri mattoni per costruire l'immagine della "Calabria criminale" su cui scrivere libri seriali, produrre fiction e film che rasentano il razzismo e la diffamazione sistematica verso i calabresi. Già nelle prime ore dell'operazione, l'opinione pubblica verrà messa a conoscenza della protervia dei pubblici amministratori di Platì, così spavaldi da realizzare una città sotterranea chiamandola "zona latitanti". Una colossale e cinica bugia. Infatti, una correzione automatica del computer trasforma la parola "latistanti" (distanza da due lati) in latitanti. Però l'inesistente città sotterranea entra nella leggenda.
Per anni all'opinione pubblica viene raccontata un'altra storia. Si continua a parlare di una "brillante operazione" e nessun rappresentante delle istituzioni, in questi lunghi anni, troverà il coraggio di dire che s'è scritta una pessima pagina di (ingiustizia sommaria che dissanguerà le casse dello Stato e rafforzerà enormemente la ndrangheta, saldando in un fronte unico 'ndranghetisti e cittadini perbene. Si eviterà di dire che in quella operazione è stato arrestato anche un povero portatore di handicap che non sapeva pronunciare il proprio nome e che per farlo salire sul cellulare i suoi compaesani gli hanno raccontato la pietosa bugia che lo avrebbero portato a Lourdes.
Ho riproposto questa storia solo perché l'Italia sappia che alle varie operazioni "Marine" abbiamo il dovere di contrapporre "l'operazione verità". Verità sulla Calabria! Dobbiamo raccontare a noi stessi, all'Italia e al mondo una verità cinicamente oscurata, ferita, stravolta dall'informazione di regime e dai poteri forti.
Rifletta la "commissione" presieduta dal dottor Gratteri, insediata al ministero della Giustizia, su quanto è successo a Piatì. Prenda atto che "Marine" non è stata una operazione contro la 'ndrangheta ma contro la Calabria, un oggettivo favoreggiamento alle organizzazioni criminali. Si acquisisca la consapevolezza che la 'ndrangheta s'è legittimata grazie ad operazioni insensate come quella di Platì.
L'attuale classe dirigente che sa di pecorume continuerà a nascondere la testa nell'erba, parlando d'altro! Ciò ha reso possibile che in nome della falsa legalità venisse imposto un pesante basto e una stringente bardatura al popolo calabrese ed italiano. In nome della legalità si stanno colpendo al cuore i diritti dei cittadini soprattutto dei più deboli.
Noi ci collochiamo in un altro emisfero e non abbasseremo la testa. Alla legalità formale contrapponiamo l'antindrangheta dei diritti. Diritto di fare impresa, diritto al lavoro, diritto alla vita ed alla sicurezza. Diritto di dormire tranquilli quando non si commettono reati né prepotenze di sorta, senza la paura che qualcuno ti metta una bomba estorsiva o, peggio ancora, che, nell'ombra qualcuno trami "legalmente" contro la tua libertà solo perché non intendi chinare la testa, né trovarti un "protettore".
Il Foglio, 14 aprile 2015
Gli imprenditori, attraverso Confindustria, da tempo denunciano che il disegno di legge sui reati ambientali, in discussione alla Camera per la lettura definitiva - salvo modifiche impalatabili per le associazioni ambientaliste - introdurrebbe la fattispecie del disastro ambientale nel codice penale con effetti nefasti per l'economia. "Non distingue tra dolo e colpa, tra chi ha un incidente e si attiva per riparare e chi inquina per scelta criminale", dice Confindustria.
E l'imprenditore, già soggetto a una regolamentazione rigida, oltre ad assumersi il rischio aziendale (calcolato) si troverebbe ad affrontare anche quello (imponderabile) di subire indagini e sequestri. Preoccupazioni che trovano fondamento nella relazione del sostituto procuratore di Udine, Viviana Del Tedesco, contenuta nel Rapporto 2015 dell'associazione Italia Decide.
"Semplificare è possibile: come le pubbliche amministrazioni potrebbero fare pace con le imprese" - presentato ieri alla Camera. Del Tedesco è il pm che ha perseguito le società che avevano inventato un'emergenza ambientale inesistente al fine di ottenere sovvenzioni pubbliche per bonificare la laguna di Grado e Marano, in Friuli. Del Tedesco scrive che in fatto di norme ambientali sono gli imprenditori onesti a pagare lo scotto più alto a causa di una "produzione normativa ipertrofica".
"La confusione regna sovrana e il rinvio ad allegati dove si fa riferimento a soglie di contaminazione astrattamente considerati costringe ad avviare attività costose (es. analisi del rischio sui prodotti agricoli, ndr) per ottenere risultati privi di utilità, se non dannosi, sotto il profilo della tutela sostanziale dell'ambiente e scientificamente errati".
La difficoltà ad adempiere a tutti gli obblighi è amplificata dalla produzione normativa che aumenta la possibilità di sbagliare col rischio di essere responsabili non per colpa specifica (con intenzione) ma anche per colpa generica (per non avere fatto qualcosa): "Si riduce sempre più la possibilità concreta di evitare il rischio di essere perseguiti a titolo di colpa e l'esercizio di qualsivoglia attività umana comporta assunzioni di responsabilità non controllabili con la conseguente mortificazione dell'iniziativa di ciascun soggetto (imprenditore), aumento dei costi di gestione e riduzione delle volontà virtuose. Più che fare le cose bene e in modo che funzionino in concreto, la preoccupazione principale di ciascuno è quella di 'essere a normà. Ma è in colpa colui che non sa nemmeno bene cosa deve fare per essere a norma? - si chiede Del Tedesco. La moltiplicazione delle norme tecniche mortifica il principio di certezza del diritto e il concetto di colpa viene dunque stravolto".
Se nessuno sa esattamente cosa deve fare, chi vuole operare correttamente avrà difficoltà crescenti a farlo mentre chi si comporta in modo superficiale per trarne vantaggio è giustificato dal caos normativo. Le conseguenze per l'esercizio della giustizia sono altrettanto perverse. Del Tedesco aggiunge un concetto tipicamente rimosso dalla magistratura d'assalto: "L'ipertrofia delle norme penali previste nelle materie tecniche che sfuggono alle conoscenze del magistrato e affidate inevitabilmente ai consulenti, non esalta ma svilisce la magistratura che a sua volta, non potendo avere il controllo delle innumerevoli indagini nei più disparati settori, si burocratizza e non garantisce qualità.
Devolvere alla magistratura la valutazione di questioni tecniche significa aumentare i tempi delle indagini. Se invece di avere tante norme confuse ve ne fossero poche con obiettivi precisi, le indagini della magistratura sarebbero meno numerose, più mirate, meno costose e si risolverebbero in tempi ragionevoli garantendo alla collettività un servizio sostanziale".
di Umberto Fantigrossi (Presidente Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti)
Milano Finanza, 14 aprile 2015
Come spesso accade, all'individuazione di un obiettivo di interesse pubblico lo Stato fa seguire la creazione di un nuovo apparato. È accaduto così anche nel caso della lotta alla corruzione, con la creazione di un'apposita Autorità nazionale an ti corruzione, cui spetta, secondo l'art. 1 della legge istitutiva (la 190 del 2012), di assicurare azione coordinata, attività di controllo, prevenzione e contrasto della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione.
Per quanto in questo primo periodo di funzionamento l'Autorità abbia sicuramente fatto sentire la sua voce e svolto con incisività il suo ruolo, per esempio nel caso dell'Expo di Milano, vedo difficile che questo approccio, per così dire dall'alto, abbia l'effettiva possibilità di combattere il fenomeno in tutte le sue dimensioni. Anzi, rischia di diventare l'ennesimo soggetto produttore di regolamenti e indirizzi, quando è proprio l'eccesso dì leggi e di norme secondarie che fa crescere il pericolo dell'abuso nell'applicazione del precetto e pone il cittadino in una condizione di sudditanza, predisponendolo alla corruzione.
Bisogna quindi pensare a un approccio diverso, che parta dal basso e precisamente da coinvolgimento diretto del cittadino, come parte attiva di un processo di lotta alla corruzione. Qualche autorevole esponente del governo ha recentemente affermato che la corruzione si avvantaggia perché quello italiano è uno Stato debole, troppo spesso facile preda delle organizzazioni che fanno corruzione. Ma questa vale per la grande corruzione, mentre esiste ed è altrettanto pericolosa quella diffusa.
A volte il cittadino o l'imprenditore paga anche per avere ciò che gli spetta secondo norma: la piccola concessione edilizia o la piccola autorizzazione commerciale e questo perché non si fida degli strumenti di cui potrebbe disporre per ottenere legalmente quello che gli spetta in tempi rapidi. E allora urge una strategia che punti a dare più poteri al cittadino e possa incidere sui fattori che producono o quanto meno favoriscono la corruzione.
Il primo fattore sul quale intervenire è proprio quello della patologia di una normativa così vasta da impedire di sapere con certezza quale sia la disciplina di una certa fattispecie: la recente edizione della Gazzetta Ufficiale con la legge di Stabilità contiene più di 700 commi distribuiti su più di 500 pagine. È in arrivo la nuova legge di riforma della pubblica amministrazione e si preannuncia che conterrà i principi direttivi da attuare con circa 10 decreti legislativi di attuazione. Questo fenomeno non è un fattore legato alla corruzione?
Il secondo fattore riguarda una manutenzione straordinaria di leggi fondamentali per il rapporto tra cittadini, imprese e pubbliche autorità, come, in primo luogo, la cosiddetta legge sulla Trasparenza (n. 241/90), che in 25 anni ha subito un eccesso di interventi di modifica estemporanei e una incessante azione di erosione del suo ambito di efficacia, per l'azione di discipline speciali e derogatorie. Occorre tornare alla sua logica originaria di norma generale del procedimento amministrativo: il cittadino va messo nelle condizioni di colloquiare in modo paritario e su basi di correttezza e trasparenza il proprio interlocutore istituzionale.
Il terzo fronte di intervento dal basso è quello della giustizia amministrativa. Il ricorso al Tar è infatti uno degli strumenti più forti di cui cittadini e imprese dispongono per combattere la corruzione. Quindi la giustizia amministrativa va potenziata anche come strumento di prevenzione della corruzione, rendendola più accessibile dal punto di vista della presenza sul territorio e dei costi di accesso. Su questo aspetto, non si può tacere che l'attuale livello delle tasse sui ricorsi al giudice amministrativo rischia di garantire l'impunità per le violazioni nelle gare fino a 2-300 mila euro, soglia sotto la quale il costo degli atti supera il margine di guadagno dell'impresa. A livello aggregato, vuol dire circa 100 milioni di euro di spesa pubblica su cui non c'è controllo.
di Loris Cereda
Il Garantista, 14 aprile 2015
Una delle prime cose che saltano all'occhio come prova dell'assoluta disparità di diritti tra accusa e difesa nel processo penale italiano è la capacità di orientare l'opinione pubblica, per lo meno nei processi che non hanno una forza mediatica sufficiente ad entrare nei programmi televisivi. Alcune Procure adoperano in modo sistematico ormai una precisa strategia: fanno pervenire le veline ai giornalisti, i quali, ossequiosi al comandamento secondo cui il mostro va sempre sbattuto in prima pagina, sfruttano le "verità" scritte negli "atti" per confezionare l'immagine del presunto colpevole.
Tale rappresentazione pubblica, oltre a non aver niente a che fare con la Verità, spesso non ha nemmeno niente a che fare con quella verità che la Procura sta cercando di dimostrare. Se esistesse un ufficio stampa a disposizione degli arrestati che, con la stessa forza delle Procure, fosse in grado di ristabilire un principio di equità, anche l'opinione pubblica sarebbe in grado di farsi un giudizio equo su ciò che ad un uomo sta succedendo. E, magari, anche i procuratori della Repubblica userebbero maggior buon senso nel svolgere le loro mansioni.
Fatta questa premessa, vorrei portare a conoscenza del maggior numero di persone possibili il caso che mi è stato esposto da un semplice detenuto. "Egregio Signor Loris", mi scrive, "mi chiamo Pietro Noci, sono detenuto nel carcere di Opera. L'11 giugno del 2009 venivo arrestato per una serie di rapine nel Nord Italia, in seguito a un'indagine condotta dai carabinieri di Genova; il pubblico ministero di Genova trasmetteva gli atti alle varie Procure competenti.
Nel procedimento penale svolto nel capoluogo ligure venivo condannato sulla base di deduzioni investigative; dopo di che ben altri 6 Tribunali in sede dibattimentale mi hanno assolto dallo stesso faldone d'indagine. La conclusione del Ris è stata la seguente: 'Non compatibilità tra il volto del rapinatore con quello di Noci Pietrò. Ora il mio avvocato presenterà istanza di revisione del primo processo".
Ho sintetizzato la lunga lettera; nei fatti un uomo è in carcere per una vicenda finita in due processi diversi, che lo vedono innocente e colpevole. Sua moglie è costretta a sobbarcarsi un carico esistenziale ed economico tremendo, i magistrati che si sono interessati al caso magari fanno carriera. E noi, facciamo qualcosa? Siamo in grado di assicurare all'incredibile storia di quest'uomo la stessa indignazione suscitata in genere dal fatto di cronaca nera amplificato dai media? O la sventura di un innocente merita di essere oscurata?
di Sergio Romano
Il Corriere della Sera, 14 aprile 2015
E così la Corte europea dei Diritti umani ha sentenziato contro l'Italia etichettando ciò che avvenne nell'irruzione alla scuola Diaz di Genova del 21 luglio 2001 come tortura. Deplorando poi il fatto che il nostro Paese non ne contempli il reato.
Ma perché chiamare tortura quella che è stata una palese rappresaglia? Perché è di questo che si dovrebbe parlare e condannare. Lo Stato non si doveva abbassare ad un atto del genere sebbene in un contesto di un giorno di follia collettiva. Ma la tortura non è un'altra cosa?
Mario Taliani
Caro Taliani, Salvo errore, una delle prime apparizioni della parola "tortura" nella legislazione internazionale del secondo dopoguerra appartiene alla Convenzione internazionale sui Diritti umani e civili promossa dall'Onu e aperta alla firma degli Stati nel 1966.
Secondo l'art. 7, "Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico". Il testo è apparentemente chiaro, ma non contiene una definizione della tortura.
Da allora, mi sembra capire, il compito di definire la tortura con maggiore precisione è stato lasciato ai tribunali internazionali e in particolare, tra gli altri, a quello del Consiglio d'Europa che si è recentemente pronunciato sulle vicende della Scuola Diaz. Ma non è escluso che altri tribunali giungano a conclusioni diverse e possano dare della tortura altre definizioni. Credo che il problema sia politico e sociale piuttosto che giuridico.
Gli orrori e i genocidi della Seconda guerra mondiale hanno avuto l'effetto di creare un maggiore sensibilità per i diritti umani e la speranza che un sistema giuridico internazionale, sotto il cappello delle Nazioni Unite, avrebbe costretto gli Stati a comportamenti civili. Quando hanno cominciato a scrivere i testi di quello che sarebbe potuto diventare un codice penale mondiale, i governi, i diplomatici e gli esperti giuridici hanno fatto ciò che accade spesso in molti parlamenti nazionali. Hanno deciso che i vecchi reati, con le loro denominazioni tradizionali, non bastavano a definire i nuovi orrori e hanno deciso di alzare il volume sonoro della indignazione usando parole, come tortura o genocidio, che, in passato, erano state usate in modo più preciso e circoscritto.
Usata nel caso della scuola Diaz, la parola "tortura" corre il rischio di perdere il suo significato originale e di banalizzarsi. Alcuni lettori, caro Taliani, mi hanno chiesto di aiutarli a distinguere le competenze del Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo da quelle della Corte europea del Lussemburgo. La prima è stata creata dal Consiglio d'Europa nel 1959 e si pronuncia su cause promosse sia dai governi, sia dai singoli cittadini (come nel caso di Genova).
Può ordinare ai governi di correggere la propria legislazione e può fissare l'indennizzo che dovrà essere corrisposto al cittadino che è stato privato dei suoi diritti. La Corte di Giustizia europea, invece, è l'organo che vigila sull'osservanza degli impegni e degli obblighi comunitari assunti dai membri dell'Unione europea e dalle loro aziende. È stata creata nel 1957, l'anno in cui furono firmati in Campidoglio i trattati per la creazione del Mercato comune.
www.gonews.it, 14 aprile 2015
La Regione Toscana ha presentato un programma di superamento dell'Opg di Montelupo Fiorentino che prevede, tra le altre cose, il trasferimento degli internati psichiatrici al carcere a custodia attenuata "Gozzini" di Firenze, più conosciuto come "Solliccianino". Il trasferimento è previsto non prima di un anno, non prima cioè dei lavori di adeguamento strutturale del carcere fiorentino, l'indizione della relativa gara di appalto, e l'assunzione di personale specializzato.
Da qui la decisione di spostare i detenuti del Gozzini e chiudere di conseguenza la positiva esperienza dell'istituto a custodia attenuata che ha funzionato bene nel suo difficile compito di reinserimento sociale e riabilitazione del detenuto. Senza contare che la decisione presa dalla Regione Toscana è avvenuta, consapevolmente, in piena violazione della Legge 81/2014 che ha sancito la chiusura degli Opg il 31 marzo, senza nessuna proroga. Nell'interrogazione, presentata dal vicepresidente della Camera Roberto Giachetti (PD), si chiede proprio perché, con questi presupposti di merito, la Regione Toscana non sia stata ancora commissariata da parte del Governo.
Dichiarazione di Rita Bernardini, segretaria di Radicali Italiani: "Ogni giorno aumentano le ragioni a fondamento dell'iniziativa nonviolenta che ho intrapreso con Marco Pannella e tanti altri compagni sui temi della giustizia e contro la continua macelleria di diritto che avviene nel nostro Paese. Abbiamo saputo, per esempio, che la Regione Toscana ha deciso di fare un "mini Opg", smantellando l'unico carcere (a custodia attenuata) che funzioni in termini di reinserimento futuro dei detenuti: via, dunque, i detenuti di Solliccianino (Firenze), questa la scelta irresponsabile della Regione per contrastare la quale sono al lavoro i compagni dell'Associazione per l'iniziativa radicale Andrea Tamburi di Firenze. Grazie, ancora una volta, al vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti (Pd), che su questa vergogna ha depositato un'interrogazione parlamentare".
Testo dell'interrogazione di Roberto Giachetti (Pd)
Al Ministro della Giustizia, al Ministro della Salute, per sapere, premesso che il sito internet fionline.it, riporta la notizia della delibera approvata dalla giunta regionale in data 30 marzo 2015 in merito alla chiusura dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, fissata al 31 marzo 2015 dalla legge 81/2014 per tutti e sei gli Opg esistenti in Italia;
fra le soluzioni - tutte provvisorie in dispregio di quanto richiesto dalla legge 81/2014 - la delibera individua quella dell'Istituto penitenziario Mario Gozzini - Località Sollicciano Firenze, che fino ad oggi ha ospitato una trentina di "semiliberi" e circa sessanta detenuti a custodia attenuata con problemi di tossicodipendenza;
Il quotidiano La Repubblica, nella sua edizione fiorentina di martedì 31 marzo 2015, a pagina VIII pubblica un articolo dal titolo "Ventidue ricoverati all'Opg di Montelupo verso Solliccianino" con sottotitolo "Tramonta l'ipotesi Rems nella casa di cura Villanova, la giunta regionale punta sulla struttura carceraria";
nel sopracitato articolo di Repubblica-Firenze si legge: "Si parla di "superamento dell'Opg", l'ospedale psichiatrico giudiziario. Ma di fatto almeno 22 degli attuali ricoverati a Montelupo andranno a finire a Solliccianino, la struttura a custodia attenuata vicino al carcere vero e proprio che accrescerà la sua popolazione. Sparisce dall'orizzonte delle possibilità il ricorso all'ex casa di cura Villanova, a cui in un primo tempo la Regione aveva pensato per accogliere una parte dei pazienti dell'Opg. Ieri pomeriggio la giunta ha approvato altre cinque destinazioni, oltre a Solliccianino. I luoghi individuati per essere trasformati in Rems (Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza) sono la struttura psichiatrica residenziale "Le Querce" di Firenze, la comunità terapeutica "Tiziano" di Aulla, in provincia di Massa, la struttura residenziale "Morel" dell'ospedale di Volterra, "I Parti" di Abbadia San Salvatore nel senese, la residenza terapeutico riabilitativa di Arezzo. Il trasferimento verrà effettuato nei prossimi mesi e sarà una soluzione definitiva. Per Solliccianino la delibera stabilisce di far eseguire opere di adeguamento per realizzare un'area ad hoc e di attivare un tavolo tra tutte le autorità coinvolte nel processo di superamento dell'Opg, coordinato dalla direzione generale Diritti di cittadinanza e coesione sociale, con la partecipazione del Provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria per la Toscana, del presidente del tribunale di Sorveglianza, del direttore generale dell'azienda sanitaria 10. Saranno poi organizzati corsi di formazione per gli operatori che dovranno seguire i "nuovi" percorsi terapeutici.
Una riforma del settore che nei piani della Regione dovrebbe accompagnare le vite di persone che finora erano relegate fuori dal mondo e che hanno storie difficilissime alle spalle. I dipartimenti di salute mentale devono attrezzarsi ad accoglierli. Dal 2011 ad oggi sono stati promossi e sostenuti a livello regionale 65 programmi di dimissione dall'Opg, per favorire il rientro degli internati toscani nel territorio di provenienza.
I 65 percorsi di dimissioni sono stati diretti per il 73% in comunità terapeutiche psichiatriche, per il 9% in comunità terapeutiche per doppia diagnosi, il 14% in residenze sociali e il 4% al domicilio proprio o dei familiari. Adesso all'Opg di Montelupo sono presenti 115 internati, di cui 49 toscani, mentre il resto viene da altre regioni. Da fuori torneranno 3 pazienti, uno da Reggio Emilia e due da Castiglione delle Stiviere.
Questa la distribuzione prevista. Per 14 pazienti ci sono percorsi di dimissione in corso, 12 andranno nel padiglione Morel appositamente realizzati a Volterra, 10 ad Aulla, 8 a "Le Querce" ad Ugnano. A Siena e ad Arezzo 4 pazienti in Rems che entreranno in funzione a Ottobre. E per 22 si apriranno le porte di Solliccianino";
la Segretaria di Radicali italiani ha ricevuto la tormentata lettera dei detenuti di Solliccianino che scrivono tra l'altro "abbiamo appreso dai giornali e dalle TV che questa struttura verrà convertita ad uso sanitario per la detenzione di soggetti con patologie psichiatriche (anche gravi) dell'Opg di Montelupo Fiorentino. Siamo sinceramente preoccupati dal momento che questo istituto è nato 25 anni fa come primo carcere a custodia attenuta in Italia allo scopo di seguire e sostenere i progetti delle persone detenute.
Si sottolinea poi che il Mario Gozzini (meglio conosciuto in città come Solliccianino) ospita anche un reparto dove confluiscono detenuti per concludere la pena in semilibertà. La nostra preoccupazione riguarda l'eventuale cambio di destinazione dell'attuale struttura ad uso totalmente psichiatrico e quindi la domanda che ci poniamo è: come finirà il nostro percorso di riabilitazione nella società se verremo abbandonati e trasferiti in altre carceri? Qualcuno tra noi mentre si trovava in altri penitenziari, era diventato depresso e non vedeva più il futuro, mentre qui ha ricominciato a sperare".
se siano a conoscenza di quanto descritto in premessa;
se corrisponde al vero quanto affermato dal quotidiano La Repubblica - edizione di Firenze in merito alla destinazione dei pazienti toscani dell'Opg di Montelupo Fiorentino;
se 14 pazienti siano stati effettivamente dimessi;
se i 12 pazienti destinati nel padiglione Morel siano stati effettivamente allocati nella struttura di Volterra e, in caso contrario, dove siano stati attualmente sistemati;
se i 10 pazienti destinati ad Aulla e gli 8 destinati a "Le Querce" ad Ugnano siano stati effettivamente allocati e, in caso contrario, dove siano stati attualmente sistemati;
dove si trovano attualmente i 4 pazienti destinati a Siena e ad Arezzo;
dove si trovano attualmente i 22 pazienti destinati alla Rems che dovrà essere predisposta presso l'Istituto Mario Gozzini di Firenze;
se ritengano conciliabile la coesistenza della Rems a Solliccianino con l'istituto a custodia attenuata in funzione da 20 anni con risultati d'eccellenza per quel che riguarda il percorso riabilitativo dei detenuti;
quali risposte intenda dare il ministro della Giustizia alle preoccupazioni manifestate dai detenuti dell'Istituto Mario Gozzini;
quali sono le ragioni per le quali la Regione Toscana, pur non avendo previsto entro il 31 marzo alcuna Residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza con le caratteristiche previste dalla legge, non sia stata commissariata".
Corriere Adriatico, 14 aprile 2015
Ieri mattina il giudice per le indagini preliminari, Giuliana Filippello ed il pubblico ministero Umberto Monti si sono recati nel carcere di Marino del Tronto per l'interrogatorio di garanzia di Mohamed Ben Alì, il tunisino che deve rispondere del presunto reato di omicidio preterintenzionale per la morte di Achille Mestichelli. Nonostante i tentativi da parte del suo legale di fiducia, Umberto Gramenzi, l'extracomunitario si è rifiutato di comparire davanti al magistrato per fornire la sua versione dei fatti, inscenando una reazione nervosa nella sua cella. Avendo rinunciato ad un suo diritto, ora tutto viene rinviato al giorno in cui sarà fissata la data della prima udienza del processo dove potrebbe anche non presentarsi
Una vicenda che ancora presenta dei punti da chiarire. Da quanto è emerso dalla prima testimonianza resa da Mohamed Ben Alì, tunisino di 25 anni, che si trovava in carcere per un reato di droga, all'interno della cella nella quale si trovava recluso unitamente ad Achille Mestichelli ed altri quattro detenuti, due extracomunitari e due italiani, fra i due scoppiò una violenta discussione. Secondo l'accusa Ben Alì dette una spinta a Mestichelli che perse l'equilibrio andando a battere violentemente il capo sul pavimento finendo in coma. Dopo tre giorni di agonia all'ospedale Torrette di Ancona il cinquantatreenne cessò di vivere.
Vennero interrogati anche i quattro compagni di cella in modo da poter ricostruire fedelmente l'accaduto. Nessuno però fornì elementi utili. Secondo un'indiscrezione dall'esame dell'autopsia sarebbe emersa l'incompatibilità fra le ferite riportate da Achille Mestichelli rispetto a quelle che avrebbe potuto provocare battendo il capo, seppur con una certa violenza, sul pavimento.
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