di Antonio Ciccia
Italia Oggi, 14 gennaio 2015
Via d'uscita per chi commette una truffa. Quella tenue si perdona. Lo stesso per il furto semplice, il danneggiamento, l'appropriazione indebita, la minaccia e la violenza. E così per tutte i reati puniti con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a 5 anni.
di Francesco Grignetti
La Stampa, 14 gennaio 2015
I risarcimenti sono una delle voci di spesa che sta crescendo nella Giustizia a causa degli errori negli arresti e nelle sentenze dei giudici. Il pianeta giustizia, con le sue lungaggini, gli errori e le manette facili, nasconde un lato oscuro: lo Stato si lava la coscienza con i risarcimenti per gli sfortunati che sono finiti incolpevolmente negli ingranaggi della Giustizia. E basta vedere l'entità dei risarcimenti, per capire che il fenomeno è clamoroso.
di Antonio Ciccia
Italia Oggi, 14 gennaio 2015
Lo Stato riesce a incassare solo il 6-7% delle sanzioni pecuniarie inflitte con una sentenza penale. La relazione tecnica di accompagnamento, allo schema di decreto legislativo sulla non punibilità del fatto tenue non abituale, evidenzia la percentuale molto bassa del gettito dai processi penali. Il dato è richiamato per il calcolo delle ricadute economiche del decreto legislativo citato. Dunque il bilancio dello stato (capitolo 2301 di entrata) comprende le multe, ammende, sanzioni amministrative inflitte dall'autorità giudiziaria e da quelle amministrative (escluse quelle tributarie).
Dai dati contabili emerge la percentuale risicata di recupero e un dato assoluto (riferito al 2013) di versamenti per 22,5 milioni di euro per i procedimenti penali di tribunale. Quanto alla sanzioni pecuniarie per reati di lieve entità, la stima della relazione in commento è di 474.400 euro, somma che l'erario perderà ogni anno a causa della pronuncia di non punibilità, che andrà a sostituire la condanna. Ma se il decreto sulla non punibilità deprimerà le entrate per poco meno di 500 mila euro, non ci saranno squilibri. Lo stesso provvedimento, secondo i calcoli, farà risparmiare oltre 500 mila euro per spese per gratuito patrocinio: la non punibilità si stima, infatti, che riguarderà almeno il 60% dei procedimenti per cui l'interessato chiede l'assistenza a carico dello stato. Senza contare, aggiunge, la relazione, che si realizzeranno economie per il fatto che il personale non sarà più adibito a questi processi e si potrà dedicare a procedimenti più importanti.
Askanews, 14 gennaio 2015
"La lotta la terrorismo soprattutto di matrice islamica ha assunto grande attualità ed importanza alla luce dei vili attentati che hanno colpito la Francia ma anche noi tutti. Proprio per queste ragioni ritengo che in questa battaglia si debba giungere ad una soluzione che sia il più possibile meditata e non frutto di una scelta estemporanea ed emotiva.
di Milena Gabanelli
Corriere della Sera, 14 gennaio 2015
Sconti di pena a chi lavora, così le carceri costerebbero di meno. Visiti un carcere e misuri il grado di civiltà di un Paese. Rispetto a tutto il mondo occidentale l'Italia, "a parole", ha maggior sensibilità per il disagio umano, salvo poi infilare 6 detenuti in uno spazio dove ce ne dovrebbero stare 2.
di Valeria Chianese
Avvenire, 14 gennaio 2015
Un anno, il 2015, che vedrà finalmente conclusa la riforma della giustizia. L'annuncio è del Guardasigilli Andrea Orlando che, soddisfatto dei risultati raggiunti finora e fiducioso in quelli che verranno, da Napoli, dove ha partecipato a un convegno sul tema della salute nelle carceri, ha ricordato che l'altro ieri "il presidente della Repubblica ha firmato gli ultimi due disegni di legge. Ne resta uno, quello sul processo civile, dopo di che saranno stati incardinati tutti". Il ministro si è anche detto certo che il Parlamento "licenzierà già ai primi di febbraio la riforma della responsabilità civile dei magistrati".
Il 2015, nei desiderata di Orlando, sarà anche il tempo per avviare "il ripensamento complessivo di esecuzione della pena" ossia della struttura carceraria e su questo tema saranno convocati gli Stati generali per raccogliere proposte e opinioni da vari soggetti, dall'intellettuale al volontario. E anche per dare un messaggio chiaro: "Il carcere - ha precisato - non è il luogo dove si esorcizzano le paure della società, va invece inteso come pezzo della società, per questo occorre costruire un fronte comune per cominciare una battaglia culturale nella società".
Un primo tassello pare già pronto con il progetto lavorativo destinato ai detenuti, e non solo, che sarà presentato in occasione della prossima visita di Papa Francesco a Napoli, il 21 marzo.
L'iniziativa in preparazione al ministero della Giustizia, cui ha fatto cenno il ministro Orlando durante l'incontro in Curia con l'arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe, subito dopo aver lasciato il convegno, sarà finanziata con i fondi ministeriali della Cassa ammende e fa parte del nuovo corso che il governo intende dare al sistema carcerario, tra cui rientrano il reinserimento sociale a pena conclusa e soprattutto, punto focale, le pene alternative alla detenzione.
Anche se finora il rovescio della medaglia è la chiusura da domani degli appalti alle mense a 10 coop sociali in altrettanti penitenziari. Segnale di ritrovata attenzione è stato proprio il convegno di ieri nel carcere di Poggioreale, promosso dalla Comunità di Sant'Egidio e dal Provveditorato dell'Amministrazione penitenziaria della Campania sulla riforma carceraria avviata dal decreto del 1° aprile 2008, che segna il passaggio di competenza dalla sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale.
Ne è risultato un quadro tra luci e ombre: alla riforma si sono allineate tutte le regioni italiane, tranne la Sicilia, ma ancora molti sono i problemi irrisolti, dai figli in carcere alla mancanza dei dati sulle tossicodipendenze in riferimento anche alle possibilità d'ingresso in comunità, alla scarsa percezione del problema sulle condizioni sanitarie in carcere, alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari il 31 marzo e alle ancora incerte alternative.
Il processo sanitario dietro le sbarre va messo a sistema: ritardi, risorse carenti, locali inidonei, tecnologia obsoleta rallentano il percorso. I detenuti presenti nei 202 istituti di pena italiani sono 53.623 contro gli oltre 64mila di un anno fa, ma la diminuzione del numero - sebbene siano cresciuti i servizi sanitari, in particolare quelli di prevenzione, e siano stati aperti nuovi reparti dedicati - non ha risolto il problema primario. Il carcere resta un luogo che produce depressione e disagio psichico. Anche per questo è in corso il procedimento per violazione dei diritti umani contro l'Italia presso la Corte europea di Strasburgo.
di Pietro Vernizzi
www.ilsussidiario.net, 14 gennaio 2015
"Quando ho visitato il carcere di Padova, sono rimasta colpita dalla dignità e dall'entusiasmo con cui i detenuti parlavano del loro lavoro. E soprattutto ho scoperto che l'incontro con Dio che ho fatto 42 anni fa, quando mi hanno detto della morte di mio marito, era lo stesso che hanno fatto queste persone in carcere".
Sono le parole di Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso da esponenti di Lotta Continua il 17 maggio 1972. Abbiamo sentito Gemma Calabresi a proposito del fatto che domani rischia di essere l'ultimo giorno di lavoro per i detenuti di dieci penitenziari coinvolti in un progetto realizzato da cooperative sociali e durato dieci anni. Un'opportunità importante per rieducare e riscattare chi in passato si era macchiato di crimini anche gravi. L'affidamento del servizio è scaduto a fine 2014, e per ora il ministero della Giustizia ha deciso di prorogarlo solo fino al 15 gennaio 2015.
Che cosa ne pensa della decisione di sospendere questo progetto?
Sono molto dispiaciuta e penso che sia veramente una decisione sbagliata. Vorrei invitare queste persone, che avranno certamente delle buone motivazioni, a farsi un giro in una di queste dieci carceri. Quando sono stata a Padova e ho parlato con i detenuti, mi hanno parlato del loro lavoro con una dignità e un entusiasmo tali che ho capito quanto il lavoro sia importante per l'uomo. Papa Francesco del resto parlando al Parlamento di Strasburgo lo ha detto chiaramente: "Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, il lavoro che lo unge di dignità?".
Qual è stata la sua esperienza incontrando i carcerati di Padova?
I detenuti che ho incontrato mi hanno detto: "Al mattino ci alziamo contenti perché andiamo a lavorare". Questo poi vuol dire che fanno 50 metri di corridoio, perché tutto si svolge in carcere, ma ciò che conta è il fatto di essere utili, occupati, di fare qualcosa per la società e di avere un po' di indipendenza economica.
Vada avanti a raccontare, signora.
C'è chi assembla biciclette, chi valigie, chi fa il catering, chi lavora nella mensa interna. Quando ho visto, ho pensato che a fare questo non dovrebbe essere solo un gruppo di carceri sperimentali, ma tutti i penitenziari. Sono convinta con decisione che la persona che è in carcere debba lavorare, avere una sua dignità e fare delle cose utili per la società. Ritengo che si debba arrivare proprio a un'autogestione della pulizia interna e del servizio mensa in tutti i penitenziari.
Lei com'è venuta a contatto con il progetto di Padova?
Ero stata invitata nel carcere perché quel giorno tre persone avevano fatto la scelta di aderire alla fede cattolica, e quindi si festeggiava. Uno riceveva il sacramento del battesimo, uno della comunione e uno della cresima. Quello che ho scoperto in quell'occasione mi ha veramente cambiato la vita.
Perché?
Ho capito che l'incontro che io ho fatto con Dio, lo stavano facendo anche i detenuti. Nel 1972, dopo che mi diedero la notizia che mio marito era stato ucciso, sentii la forte presenza di Qualcuno che veniva in mio aiuto. Per assurdo in quel momento avvertii un'enorme pace interiore, una forza enorme dentro di me e sentii che non ero sola. Ed è così che ho ricevuto il dono della fede da parte di Dio stesso.
Che cosa è cambiato in lei da quel momento?
Da allora ho sempre pensato che Dio aiuta le vittime, le persone che hanno subito un'ingiustizia e che vivono una grande sofferenza. Ma non mi era mai venuto in mente che Dio aiuta anche coloro che questa l'hanno provocata. Visitando il carcere di Padova mi si è aperto un mondo.
In che senso?
Queste due persone con cui ho parlato a lungo, e che erano lì perché giudicate colpevoli di omicidio, mi hanno raccontato il loro incontro con Dio descrivendo esattamente le stesse sensazioni provate da me il 17 maggio 1972 quando mi hanno detto della morte di mio marito. È stata un'impressione incredibile. Ecco perché oggi mi sento molto in sintonia con Papa Francesco, quando invita a pregare per i terroristi francesi. La gente è rimasta un po' stupita, mentre bisogna pregare lo Spirito Santo perché illumini anche chi ha ucciso e faccia capire loro l'errore enorme di uccidere delle persone.
Ansa, 14 gennaio 2015
"Le cooperative che lavorano in carcere rischiano di dover licenziare il 30% del loro personale. Una vera iattura per tanti progetti di recupero, che così verrebbero vanificati, con relativo spreco delle risorse economiche già impegnate". Lo afferma il deputato del Pd Edoardo Patriarca, componente della Commissione Affari Sociali.
"Le coop - spiega l'esponente del Pd - hanno comunicato agli istituti penitenziari i fabbisogni per il 2015, basati sui detenuti già in forza e su quelli di prossima assunzione in base alle commesse acquisite. Il Dap si è così accorto che l'ammontare complessivo richiesto, circa 9 milioni di euro, era superiore del 34% a quanto previsto nel fondo a disposizione: poco più di sei milioni di euro le risorse destinate al credito d'imposta per l'anno 2015, poi ridotte a quasi 5.900.000 euro - continua Patriarca. Dopo la chiusura delle cucine in dieci istituti, ora sembra che ci sia la volontà di abolire il lavoro nei penitenziari. Si è intrapresa una strada pericolosa, che non garantisce né i detenuti né i cittadini. Più lavoro, infatti, significa meno recidive".
Padova: Cooperativa Giotto invita Renzi per stop pasticceria
"Domani invitiamo formalmente il premier Renzi a Padova. Venga qui e dia un segnale, ci dimostri che non vuole far tornare l'Italia indietro a prima di Cesare Beccaria". Nicola Boscoletto, responsabile della Cooperativa Giotto, lancia da Padova l'appello del tavolo di lavoro "Emergenza lavoro carceri".
Il coordinamento è composto da tutte le cooperative che operano a livello nazionale nelle carceri ed è nato per contrastare la decisione del governo di concludere le esperienze di gestione da parte delle stesse cooperative delle cucine sorte all'interno degli istituti di reclusione e che impegnano i detenuti. Una decisione, che dovrebbe avere come data di entrata in vigore il 16 gennaio, che per Padova si tradurrebbe in un addio alla famosa pasticceria gestita dalla cooperativa, quella che per anni ha sfornato dolci e panettoni finiti tra i regali di papi e capi di Stato. Domani al carcere di Padova la cooperativa ha organizzato il "penultimo pranzo" (già oltre 150 le adesioni).
"Si tratta della sconfitta della società civile - ha continuato Boscoletto - domani si scrive una pagina buia della storia italiana, un pagina che assume risvolti inquietanti. A noi non resta che sperare che qualcuno alla fine non voglia firmare questa decisione. Si tratterebbe di una firma che non è una condanna per i detenuti ma una condanna per l'intera società, una condanna a pagare senza avere nulla in cambio se non vedere restituite delle persone peggiori di quelle entrate negli istituti carcerari".
di Valeria Di Corrado
Il Tempo, 14 gennaio 2015
Un esercito di auto blu costate un milione e mezzo di euro. Per la procura Corte dei conti del Lazio l'acquisto da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di una quarantina di Bmw blindate per il trasporto in sicurezza dei suoi dirigenti ha comportato un danno erariale.
Con questa accusa sono stati citati in giudizio davanti ai giudici contabili il generale Enrico Ragosa, all'epoca dei fatti dg delle Risorse materiali, dei beni e dei servizi del Dap, il generale Alfonso Mattiello, ex presidente della commissione giudicatrice della fornitura di veicoli per il trasporto dei detenuti, e Claudia Greco, per oltre trent'anni direttrice del centro "Giuseppe Altavista", il polo che si occupa della gestione amministrativa del personale di polizia penitenziaria in servizio a Roma, della fornitura di beni e servizi e della manutenzione degli immobili del Dipartimento. Oggi i tre dirigenti si ritroveranno nella veste di imputati davanti alla sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti, nella prima udienza del processo.
"L'acquisto delle Bmw è stato deciso da due uffici che non dipendono funzionalmente dalla struttura diretta a suo tempo da Ragosa - spiega l'avvocato Gianfranco Passalacqua, legale del generale in pensione - Si tratta di atti imputabili ad altri dirigenti dell'amministrazione.
Il generale si era limitato a istituire una commissione per valutare la congruità del prezzo: stabilito in circa 40-50 mila euro a macchina. In nessun provvedimento compare la firma di Ragosa. Anzi, dopo che la Corte dei conti aveva rifiutato il visto, aveva chiesto l'annullamento dell'acquisto". Secondo l'accusa, nelle commesse per il noleggio delle auto blindate e nel loro acquisto successivo, i dirigenti dell'amministrazione penitenziaria avrebbero commesso degli illeciti che hanno comportato un inutile esborso di soldi pubblici.
"La contestazione del danno in un milione e mezzo di euro - conclude l'avvocato Passalacqua - è generica, perché basata solo sul valore delle Bmw, ma non implica che l'acquisto abbia comportato un danno all'erario". "L'amministrazione non solo non ha subito danni, ma ha conseguito consistenti vantaggi da quell'operazione - fa eco l'avvocato Maria Immacolata Amoroso, legale del generale Mattiello - Il mio assistito non ha comunque alcuna responsabilità. L'unico legittimato a eseguire quel genere di provvedimenti era Ragosa".
Non è la prima volta che al generale Ragosa, noto per aver affiancato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nelle indagini contro Cosa nostra e per aver fondato il Gruppo operativo mobile del Sismi, viene contestato dalla Corte dei conti un nocumento per l'erario.
La Procura contabile lo scorso ottobre l'aveva citato in giudizio per aver utilizzato indebitamente, dal 2009 al settembre 2011, le auto blu per il trasporto di mobili e bagagli e i suoi uomini di scorta per trasportare suoi familiari. L'accusa è di aver causato un danno di 390.214 euro al ministero della Giustizia, dato dalla somma di stipendi e indennità di missione per gli autisti e il costo del carburante e delle riparazione per le vetture del Dap.
Per gli stessi fatti, sul fronte penale, deve rispondere dell'accusa di truffa, peculato, abuso d'ufficio e falsi. In particolare, gli viene contestato di aver fruito delle prestazioni lavorative di 12 agenti del Dap nelle missioni da Roma a Genova "per ragioni falsamente attinenti alla sua tutela", dal momento in cui spesso il generale restava nella Capitale. Quando poi effettivamente si metteva in viaggio verso il capoluogo ligure, usava due auto: una per sé e l'altra "per il trasporto di bagagli, effetti personali e masserizie". La Corte dei conti, con ordinanza del 25 settembre 2014, ha sospeso questo giudizio in attesa della sentenza di primo grado del Tribunale di Roma e ha ordinato alla Procura un supplemento istruttorio sulla quantificazione del danno.
di Errico Novi
Il Garantista, 14 gennaio 2014
Dalle motivazioni della sentenza Cucchi, depositate ieri, arriva una svolta clamorosa: la Corte d'Assise che in Appello ha assolto tutti gli imputati spiega perché nessuno di loro può essere condannato per la morte di Stefano, ma chiede nello stesso tempo alla Procura di Roma di riaprire l'inchiesta e valutare le responsabilità dei carabinieri. Finora nessun militare dell'Arma è stato chiamato in giudizio per la morte di Cucchi, eppure secondo i giudici "le lesioni sono necessariamente legate a un'azione di percosse", e l'ipotesi secondo cui a compierla sarebbero stati i carabinieri che hanno avuto in custodia la vittima "non è un'astratta congettura". C'è un passaggio molto esplicito: "Non può essere definita un'astratta congettura l'ipotesi emersa in primo grado secondo cui l'azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che hanno avuto in custodia Cucchi".
Nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 31 ottobre ha assolto tutti gli imputati del processo per la morte di Stefano Cucchi, la Corte d'assise d'Appello di Roma chiede di aprire una nuova inchiesta. Nelle 67 pagine depositate ieri mattina si trovano da una parte le ragioni dell'assoluzione per le tre guardie carcerarie e per medici e paramedici dell'ospedale Sandro Pertini, dall'altra i giudici affermano che un pestaggio vi fu di sicuro, e che i responsabili andrebbero cercati tra i militari dell'Arma. Cioè tra coloro che tennero in custodia la vittima nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009.
I giudici rimettono dunque gli atti alla Procura e di fatto la obbligano a riaprire l'inchiesta. È uno sviluppo clamoroso. Che si ricongiunge con le parole pronunciate due mesi fa dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone: "Rileggeremo gli atti per capire se è possibile riaprire le indagini". Subito dopo, lo scorso 5 novembre, la famiglia di Stefano aveva presentato un esposto contro il professor Paolo Arbarello, perito chiave del processo.
Un atto che ha determinato l'apertura di uno specifico fascicolo da parte della Procura. Adesso i pm romani dovranno avviare un'ulteriore inchiesta sulla scorta delle motivazioni della Corte d'Assise. A questo punto la verità processuale affermata in Appello cambia radicalmente il quadro della vicenda. Perché appunto viene affermata come indiscutibile la circostanza del pestaggio, pur rimasto finora senza colpevoli, perché vengono avanzati pesanti sospetti sui carabinieri e anche per i passaggi con cui viene spiegata l'assoluzione di medici e infermieri.
Secondo il collegio presieduto da Mario Lucio D'Andria - composto dal giudice a latere Agatella Giuffrida e dai membri della giuria popolare - l'attività svolta dal personale dell'ospedale Pertini non è stata di apparente cura del paziente "ma di concreta attenzione nei suoi riguardi". Se il 22 ottobre del 2009 Stefano Cucchi morì fu perché era stato ricoverato in condizioni già gravissime. E "le lesioni subite da Cucchi", si legge nelle motivazioni, "sono necessariamente collegate ad un'azione di percosse e comunque a un'azione volontaria che può essere consistita anche in una semplice spinta che abbia provocato la caduta a terra con l'impatto sia del coccige, sia della testa contro una parete o contro il pavimento".
E che a colpire o spingere Stefano possano essere stati i carabinieri lo lasciano ipotizzare "concrete circostanze testimoniali" dalle quali emerge che "già prima di arrivare in Tribunale Cucchi presentava segni e disturbi che facevano pensare ad un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte". L'ipotesi di un coinvolgimento dei militari dell'Arma è stata avanzata tra gli altri anche da uno dei tre agenti di polizia penitenziaria finiti a processo, Nicola Minichini.
In alcune interviste la guardia carceraria invita a indagare proprio sull'intervento dei carabinieri di due diverse caserme di Roma. Nella sua dichiarazione al processo d'Appello, l'ultima prima della camera di consiglio, Minichini però si guardò dal sostenere queste ipotesi e disse che "i lividi sotto gli occhi di Stefano di sicuro non erano segno di percosse".
Dopo quest'ultima clamorosa svolta del caso, il senatore Pd Luigi Manconi, tra i più tenaci nella richiesta di giustizia per Cucchi, dichiara che da quelle motivazioni, tra le righe, si deduce come la Procura di Roma abbia "svolto le indagini in maniera maldestra e inadeguata". Ora, dice Manconi, c'è da augurarsi che le nuove "indagini siano condotte da pubblici ministeri coscienziosi e competenti".
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