di Beppe Severgnini
Corriere della Sera, 10 novembre 2019
La ricetta sembra essere: accarezzare la frustrazione degli elettori, convincerli di aver subito molti torti, e offrirsi di ripararli. Il gioco riesce meglio all'opposizione, ma c'è chi continua anche dopo essere arrivato al governo. "Pensare che alcune persone siano state generose con noi è meglio che figurarsi circondati da nemici pronti a farci uno sgarbo. In tanti passano le giornate avvolti in un misto di rabbia e voglia di rivalsa, in uno stato perenne di frustrazione e rancore. (...) Viaggiare su questi binari mentali non fa bene al cervello, che a furia di incistarsi su luoghi comuni si irrigidisce e invecchia peggio".
Apro il libro a caso e mi cade sotto gli occhi questa frase. Mi piace la serendipità letteraria: trovare, tra le pagine, ciò che non si sta cercando. Il passo è tratto da "Prove di felicità - 25 idee riconosciute dalla scienza per vivere con gioia" (La nave di Teseo). Il capitolo s'intitola "Dire grazie / Il risentimento rabbuia". L'autrice è Eliana Liotta, giornalista e divulgatrice scientifica. Lo sto leggendo, in un sabato di sole autunnale, perché oggi, domenica, con l'autrice ed Edoardo Vigna, terremo un incontro nella prima edizione di Il Tempo della Salute, un'iniziativa del Corriere della Sera (Museo della Scienza e della Tecnologia, Milano, ore 14.30). Titolo: "Gli italiani sono felici?".
La risposta la tengo per il pomeriggio. Per ora dico: Eliana, senza volerlo, ha descritto la ricetta della nuova politica. Accarezzare la frustrazione degli elettori, convincerli di aver subito molti torti, e offrirsi di ripararli - senza entrare nei dettagli. Il gioco riesce meglio all'opposizione; ma c'è chi continua anche dopo essere arrivato al governo. Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ad esempio (il primo con più successo, bisogna dire).
A proposito di Salvini. Leggo, nel racconto di Stefania Chiale, il suo slalom milanese per evitare d'essere associato con gli odiatori di Liliana Segre. A un certo punto si finisce a parlare del sindaco di Milano: "Sala? Si preoccupi di alcune periferie che sono fuori controllo e della qualità della vita in città". In politica, come in amore, conta la narrazione. Ma perché un milanese come Salvini deve negare che Milano funziona e ha ritrovato fiducia in se stessa? Non è vietato. Eppure, non accade: in Italia, la destra fomenta l'astio contro la sinistra, e viceversa. Stop. "Continuare a dire e a credere che si vive in una società a pezzi non giova neppure all'umore", prosegue Eliana Liotta. Matteo Salvini risponderebbe: "Al vostro umore, forse no. Ai miei sondaggi, certamente sì".
di Stefania Saltalamacchia
Vanity Fair, 10 novembre 2019
Drammaturga e regista, a capo della Compagnia Cetec che da quasi 30 anni lavora a San Vittore. Ai detenuti, soprattutto donne, insegna a guardare dentro se stessi attraverso il teatro. Nelle scuole, invece, ricorda i femminicidi. E pensa che deve tutto a una comunità arbëreshë.
Il suo non è un "lavoro" è una "missione". E per portarla a termine ci vuole "una buona dose di follia". Mentre lo dice, Donatella Massimilla, sorride con la certezza di non aver mai voluto fare altro. Regista teatrale, drammaturga, romana di nascita ma talmente milanese d'adozione da avere ricevuto lo scorso anno l'Ambrogino d'Oro. Da trent'anni scrive e mette in scena testi e spettacoli teatrali che hanno al centro i "luoghi reclusi", come li chiama lei, o i "luoghi altri".
La sua compagnia, fondata nel 1999, è il Cetec, Centro Europeo Teatro e Carcere per il reinserimento degli attori e delle attrici detenute. Da quasi mezzo secolo lavora dietro le sbarre di San Vittore, soprattutto con le donne. Nonostante le difficoltà nell'organizzare le prove, i fondi che dovrebbero arrivare ma spesso non arrivano. Ha lavorato anche nelle carceri del Messico, in quelle di Berlino, nell'ospedale psichiatrico di Cambridge. E il suo orgoglio di oggi è nel tornare in scena con Il Decameron delle donne (il 10 e l'11 novembre, al Piccolo Teatro Grassi di Milano), lo spettacolo con cui ha iniziato trent'anni fa dopo l'incontro con la scrittrice russa Julia Voznesenskaja, autrice dell'omonimo romanzo sulla vita di alcune donne, rinchiuse in un reparto maternità e allontanate dai loro bambini per un'infezione della pelle, che raccontano, ispirandosi a Boccaccio, storie di vita e di amore. "Dopo il debutto al Teatro Verdi di Milano, io e l'attrice catalana Olga Vinyals Martori chiedemmo all'allora direttore del carcere di San Vittore, Luigi Pagano, di lavorare su quello spettacolo con le donne detenute, di condividere con loro un percorso di sperimentazione teatrale. Poi mettemmo in scena un'altra cosa, ma allora non sapevo ancora che il nostro viaggio recluso sarebbe durato bene o male trent'anni".
Che cosa significa "teatro" per lei?
"Mi accompagna da tutta la vita. Grazie a un papà che aveva fatto teatro da giovane, fin da bambina ho imparato a visitare con lui i teatri di Roma. Ho debuttato a 15 anni come attrice con Franco Molè, ho studiato alla Sapienza con Jerzy Grotowsky. Successivamente ho seguito il maestro polacco a Santarcangelo di Romagna, dove ho lavorato per diversi anni al Festival Internazionale di teatro di strada. Mi sono laureata in drammaturgia al Dams di Bologna, per poi arrivare a Milano come tutor della Civica Scuola d'Arte Drammatica Paolo Grassi. A Milano ho deciso di lasciare il palcoscenico e diventare regista, con la consapevolezza di prediligere non solo i luoghi reclusi, ma anche quelli di frontiera. L'amore per un teatro che intreccia trame teatrali ai propri vissuti e aiuta a condividere e ricordare, in modo comunitario e al femminile. Storie che donano emozioni, rinforzano dentro di noi la voglia di farcela e di ricominciare davvero".
Ricorda la prima volta che è entrata a San Vittore?
"All'epoca eravamo un po' pioniere, l'effetto è stato forte. Poi ho conosciuto tante altre carceri. Di recente, sono tornata in quello di Città del Messico, una città nella città. Quando entri ti offrono i tacos, la corruzione è ovunque. A San Vittore lavoro soprattutto con le donne, ma ho lavorato anche con la sezione maschile".
Che differenze ha riscontrato?
"Il lavoro con le donne devo dire è molto più difficile perché le donne in carcere, soprattutto le straniere che arrivano dopo un lungo viaggio e sono lontane dai figli, dalle famiglie, si sentono molto disorientate. Il senso di negazione e di abbandono è molto forte. Un uomo in carcere se ha una mamma, una sorella, una moglie, avrà sempre il suo pacco di vestiti, di viveri. Una donna no".
Che cosa le hanno lasciato le donne che ha incontrato in questi anni?
"Sono ancora in contatto con quasi con tutte, anche con quelle che sono uscite. Si è creata una grande comunità allargata. E queste donne ci hanno regalato tantissimi testi. Noi non vogliamo mai sapere le loro storie, non diciamo mai i loro cognomi, chi si racconta lo fa spontaneamente, tutto passa attraverso l'arte del teatro".
In base alla sua esperienza, quanto può aiutare il teatro in carcere?
"Il teatro è lo strumento principale per riappropriarsi di se stessi. Lo dico senza problemi: non ci sono casi di recidiva in persone che hanno fatto con noi un percorso. Io alla rinascita credo totalmente, non sarei qui se non ci credessi. Trent'anni non sono un'infatuazione".
Si è mai chiesta perché ha scelto di lavorare nei luoghi difficili?
"Se devo essere sincera, credo sia anche una questione genetica. Mia madre è originaria di una comunità greco-albanese arbëreshë radicata in Calabria. Mio nonno era il sindaco comunista di un paesino arroccato, San Benedetto Ullano. Sono cresciuta trascorrendo lì le mie vacanze. Ho imparato l'amore per la comunità guardando le donne che si riunivano, d'estate intorno ai falò, per fare l'olio, il vino, la salsa di pomodoro, e nel frattempo raccontavano storie. Credo che stia tutto qui, nella forza di resistere di una piccola comunità, tramandando le proprie storie".
Che cosa le piace di più del suo lavoro?
"Avendo un figlio ormai grande - lui fa l'architetto ma ogni tanto mi fa anche le scene - adesso amo il grande senso di grande libertà che questo lavoro mi concede. Siamo solo io e la mia bigol, così ho molto tempo per lavorare, spesso in orari notturni. Sono del segno dell'Acquario, libera e indipendente, amo essere padrona di me stessa. La mia indipendenza la avvertono anche le detenute, la rispettano".
Quali sono stati gli incontri più importanti nel corso della sua carriera?
"Ogni incontro ti lascia tanto. Sono gli sguardi che contano. In questi giorni mi sono ricordata di Julia Voznesenskaj, i suoi occhi erano lucidi, intensi. Ricordo anche lo sguardo di Dario Fo, quando venne a recitare San Francesco a San Vittore e ci lasciò un disegno. E poi Giorgio Strehler, Eugenio Barba".
Si definirebbe femminista?
"No, assolutamente. Anche se da ragazzina sono andata all'occupazione della Casa delle donne con Dacia Maraini. Credo che il femminismo ogni c'entri poco. Donne e uomini dovrebbero concentrarsi sulla prevenzione, sul cambiare una certa mentalità. Invece, i femminicidi aumentano. Col nostro progetto, Le sedie, ogni anno raccontiamo le storie delle donne uccise, ma anche di quelle che si sono salvate. Portiamo gli spettacoli nelle scuole".
Quale sarebbe stato il suo piano B?
"Mi piace anche il lavoro filmico, e ho la passione della pittura. Di certo sarebbe stato sempre qualcosa di artistico, non potrei essere mai ingegnere".
A un ragazzo che vorrebbe seguire le sue orme, che consiglio darebbe?
"Avere la pazienza di trovare un maestro o di avere la fortuna di incontrarlo. E di pensare che anche qui ci sono delle regole che vanno seguite".
di Antonio Bozzo
Il Giornale, 10 novembre 2019
Viaggio teatrale al femminile con la compagnia di Donatella Massimilla. Milano è la città dell'illuminista Cesare Beccaria; bisognerebbe sempre ricordarsene quando, con colpevole approssimazione, si parla dei delitti e delle pene. O si parla di carcere, dove uomini e donne che hanno sbagliato dovrebbero "correggersi", non soltanto essere esclusi dalla società, perché pericolosi e irrecuperabili.
E appunto nella città di Beccaria che opera il Cetec (Centro europeo teatro e carcere), di cui è direttrice artistica la regista e drammaturga Donatella Massimilla. Con la compagnia Dentro/Fuori San Vittore, Massimilla fa un utile lavoro, volto al reinserimento dei detenuti - una volta pagato il conto con la giustizia - nella società dei liberi.
Trent'anni fa, Massimilla debuttava con Il Decameron delle donne che vediamo, in nuova veste ma con alcune storiche protagoniste, al Teatro Grassi domenica 10 (alle ore 16) e lunedì 11 (alle 20.30). È liberamente ispirato al romanzo della russa Julia Voznesenskaja (1940-2015), cristiana e femminista, finita in un gulag dell'infernale sistema sovietico di annientamento della dissidenza, poi costretta a vivere in esilio in Germania.
Il suo Decameron è popolato da donne, rinchiuse in un reparto maternità e tenute lontano dai loro bambini in quante affette da una malattia della pelle. Come ai tempi del Boccaccio, e della peste nera che costrinse alla reclusione bucolica i narratori delle novelle contenute nel capolavoro trecentesco, le donne della Voznesenskaja si raccontano storie di vita e amore, con tutte le sfumature. Attrici detenute ed ex detenute danno forma e senso a vicende che rispecchiano le loro stesse vite. Il "dentro" è San Vittore; il "fuori" è il Piccolo, che da oltre vent'anni collabora con Massimilla.
"I giorni delle prove nel perimetro del carcere trovano naturale destinazione nello spazio scenico del Piccolo, offrendo alle detenute la possibilità di uscire, in una dimensione emotivamente straordinaria com'è mostrarsi da attrici al pubblico", ha detto Sergio Escobar, direttore del teatro fondato da Strehler, Grassi e Nina Vinchi.
Il laboratorio teatrale condotto da Massimilla con i detenuti ha affrontato, nel tempo, diversi autori e realizzato lavori originali. "Tutte storie - ha ricordato la regista - che donano emozioni, rinforzano la voglia di farcela e ricominciare davvero. Come una ninna nanna russa, ci siamo fatte cullare in questi anni di tempo sospeso dalla voglia di mettere al mondo nuove persone per un mondo migliore". Il testo originario della scrittrice russa è arricchito da scritti e canzoni di attrici detenute, anche di quelle che ancora non possono uscire in permesso.
"E a far rivivere i trent'anni dello spettacolo - conclude Massimilla - le fotografie realizzate al debutto del 1989 da Maurizio Buscarino e quelle di adesso, fatte da suo figlio Federico". In scena Gilberta Crispino, Paola D'Alessandro, Jaksom Do Liete, Mariangela Ginetti, Olga Vinyals Martori, Dalia Nieves, Betsy Subirana, Irene Arpe (con Antonella, Claudia, Daniela, Elena, Jacqueline, Kristal, Marta, Martina, Solange, Sonia). Le musiche, dal vivo, sono di Gianpietro Marazza.
Corriere di Bergamo, 10 novembre 2019
Il racconto delle proprie esperienze, iniziato nel 2002 grazie ad Adriana Lorenzi, continua a crescere: 240 ore di laboratorio e tre numeri ogni anno. Più che una rivista, un diario dal carcere: "Spazio" raccoglie i testi dei detenuti della casa circondariale di Bergamo. Il nome della testava evoca l'opportunità, su carta, per ciascun detenuto di elaborare il proprio vissuto e trasformarlo; all'interno, accanto all'autoironia, le riflessioni più profonde.
L'iniziativa è nata nel 2002 grazie a Adriana Lorenzi: "Dietro le sbarre sorgono spontanee domande che annichiliscono, ci si chiede perché si è fatto del male, è necessario snodarle in narrazioni per elaborarle", spiega la responsabile del progetto in occasione dell'incontro organizzato da Mutuo Soccorso.
240 ore di laboratorio concentrate in tre numeri ogni anno: "Si potrebbe pubblicare di più ma mancano i fondi - continua Lorenzi -. Resta la necessità di puntare al reinserimento lavorativo". In Italia, stando ai dati 2019 del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, 7 detenuti su 10 tornano a delinquere. Il tasso di recidiva è il più alto di sempre, ma prevedendo il coinvolgimento dei carcerati in cicli produttivi, viene abbattuto al solo 1%.
Valentina Lanfranchi, presidente dell'associazione Carcere e territorio Bergamo, aggiunge: "La nostra cultura ci spinge a vedere la pena come punitiva, ma dovrebbe essere riabilitativa e educativa. Ogni detenuto costa allo Stato 125 euro al giorno, c'è un interesse anche economico nell'offrire alternative al crimine". Fra le sbarre della struttura di via Gleno è attivo dal 2011 un progetto di panificazione, con una linea di biscotti e dolci in vendita nei negozi e in una caffetteria, "Dolci sogni" di Nembro, che dà lavoro a detenuti e disabili.
Rosa Lucia Tramontano è la responsabile: "Utilizziamo ingredienti equo solidali importati dai Paesi più poveri del mondo. Per i detenuti è fondamentale lavorare o imparare un mestiere". I panini dei detenuti arrivano ogni lunedì nelle scuole elementari della città: "I bambini hanno ringraziato i carcerati con biglietti e disegni, li immaginano con la palla al piede e la tuta a righe, ma è importante creare dialogo fra il territorio e il carcere" conclude.
di Tommaso Di Giannantonio
Corriere del Trentino, 10 novembre 2019
Il riscatto di un detenuto di Spini. Pusher e analfabeta, oggi è diventato scrittore. Quando è entrato in carcere per la prima volta per scontare una pena di otto anni per spaccio e sequestro di persona, Abdelaaziz Aamri, cittadino marocchino, era un analfabeta che non sapeva parlare l'italiano.
Oggi, a distanza di quattro anni dal suo primo giorno in cella, Aziz ha conseguito il diploma di scuola media e ha pubblicato una raccolta di racconti. Una storia di riscatto sociale che lunedì mattina sarà al centro di un convegno multidisciplinare al Teatro San Marco di Trento: "Mai più qui. La forza di ricominciare". Insieme a giornalisti, giuristi, diplomatici e spirituali, sarà presente anche Aziz, che ha ricevuto per l'occasione un permesso speciale dalla casa circondariale di Spini di Gardolo.
Prima di arrivare in Trentino, il detenuto marocchino, quarantatreenne, si era già messo in gioco nel carcere di Venezia-Santa Maria Maggiore con l'associazione di volontariato "Pesce di pace". Ogni giorno, per sei mesi, aveva incontrato la volontaria, nonché giornalista, Nadia De Lazzari per tradurre in varie lingue - dall'arabo all'italiano, dal francese allo spagnolo - messaggi di fraternità scritti da bambini della scuola elementare.
Dopo il trasferimento a Trento, Aziz ha poi conseguito il diploma e ha avuto un altro incontro importante con il padre Fabrizio Forti, anima della "mensa della Provvidenza" dei Cappuccini e cappellano nel carcere di Spini, scomparso tre anni fa a causa di un malore. A lui, al frate di Gardolo che ha riempito di speranza il detenuto marocchino, credente musulmano, è stato dedicato il progetto "Mai più qui. La forza di ricominciare", ideato da Nadia De Lazzari.
La stessa che ha spinto Aziz a scrivere una raccolta di racconti sulla sua vita: dall'infanzia al carcere. Il libro - che si può trovare nel convento di Santa Croce alla Spalliera dei padri Cappuccini - è stato stampato in mille copie, tutte autofinanziate dal detenuto con i risparmi della sua paga dell'amministrazione penitenziaria.
Nel corso del seminario di lunedì, tra l'altro, saranno insieme per la prima volta - a testimonianza del dialogo interreligioso come prospettiva di coesione sociale - l'arcivescovo di Trento Lauro Tisi, il rabbino capo della comunità ebraica di Verona e Vicenza Yosef Labi e l'imam della comunità religiosa islamica italiana Abd Allah Mikail Mocci.
La Nuova Sardegna, 10 novembre 2019
A Massama c'è un elevato numero di detenuti in regime di alta sicurezza ma non c'è all'interno del carcere, una struttura ospedaliera idonea. Di questa e di altre carenze nelle strutture detentive si è parlato ieri con il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma.
L'occasione è stato il corso (iniziato il 4 ottobre per concludersi il 6 marzo) che la Camera penale oristanese ha organizzato sul diritto penitenziario e sulla esecuzione penale rivolto a tutti gli operatori del diritto agli operatori sociali "ed a quanti vogliano approfondire la materia e siano interessati ad acquisire, sulla stessa, competenza e specifica professionalità".
Secondo la presidente della Camera penale, Rosaria Manconi "ancora oggi il carcere è un mondo parallelo rispetto quello in cui siamo abituati a vivere, fisicamente isolato dal resto del consorzio civile e che per questo necessita di riflessioni aperte e schiette in grado di incidere, al di là di ogni utile riforma, nel sentire collettivo".
di Ian Bremmer
Corriere della Sera, 10 novembre 2019
Tensioni in Egitto, Libano, Iraq come in Cile, Ecuador, Spagna. E a Hong Kong. La democrazia resta ancora il sistema migliore per guardare al futuro? Non c'è giustizia in questo mondo, e nulla di nuovo in questa affermazione. La novità invece sta nell'indignazione popolare davanti all'ingiustizia, che è esplosa ovunque con tale rapidità e intensità da creare sollevamenti che non accennano a placarsi. Negli ultimi mesi, le contestazioni hanno attraversato un gran numero di Paesi, sia ricchi che poveri, e di ogni cifra politica, dalle democrazie consolidate fino ai regimi più repressivi. Motivo della rabbia è la diffusa percezione che la politica continui ad agire sempre e comunque per gli interessi delle élite, scavalcando quelli del popolo. Nei Paesi in via di sviluppo si svolgono regolarmente manifestazioni di protesta, e per buoni motivi. Le popolazioni sono costrette a sopportare i disagi causati dall'incapacità dei governi a fornire i servizi più basilari, e la mancanza di istituzioni politiche avanzate significa che attori non tradizionali - in maggior parte gli stessi contestatori - tendono a far vacillare l'ago della bilancia.
Nelle ultime settimane, l'Egitto ha visto sfilare per le strade le manifestazioni più imponenti dai giorni della Primavera araba, motivate dalle accuse di corruzione mosse contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi e i militari, e per di più esacerbate dalle riforme economiche che hanno da un lato ridotto i sussidi e dall'altro alzato le tasse per i più poveri del Paese. In Libano, una "tassa whatsapp" sulle comunicazioni online ha fatto scattare le proteste, che ben presto sono state scavalcate da ben più vaste rivendicazioni economiche e politiche, costringendo alla fine il primo ministro Saad Hariri a rassegnare le dimissioni. In Iraq, il presidente del Consiglio Adel Abdul Mahdi non se la passa molto meglio rispetto al premier libanese: il Paese è stato messo a ferro e fuoco per mano di cittadini esasperati per l'alto tasso di disoccupazione e per la pessima qualità delle infrastrutture e dei servizi.
In Ecuador, la decisione del presidente Lenin Moreno di azzerare i tradizionali sussidi per i carburanti ha segnato l'inizio di settimane di proteste su tutta una gamma di istanze sociali, che da ultimo l'hanno costretto a fare marcia indietro, un evento che è stato accolto come una vittoria dai manifestanti, ma che rappresenta in realtà una vera sconfitta per la disciplina fiscale del Paese. Storicamente, le proteste si rivelano meno efficaci nei Paesi più ricchi, vuoi perché già in pugno alle lobby, vuoi perché le fasce di popolazione più influenti possono permettersi il lusso di aspettare la successiva tornata elettorale per affidare il proprio disappunto politico alle urne. Sempre di più spesso, tuttavia, le cabine elettorali non sembrano più in grado di fungere da valvola di sfogo alle aspettative disattese dalla politica.
In Cile, l'innesco che ha dato fuoco ai disordini in uno dei Paesi più ricchi e stabili di tutta l'America Latina è stato l'aumento del 3 per cento del prezzo dei biglietti della metropolitana, varato da Sebastián Piñera. A quel punto la gente è affluita nelle piazze per manifestare anche contro le pensioni insufficienti e l'alto costo dei servizi di base, come la sanità e le utenze. I manifestanti hanno persino acceso fuochi in alcune strade. L'esasperazione degli animi ha toccato il culmine quando il governo ha fatto ricorso ai soldati in assetto antisommossa, in un Paese con una lunga storia di dittatura militare alle spalle come il Cile.
Un anno fa, i movimenti dei gilet gialli in Francia sono riusciti a paralizzare quasi completamente Parigi, e benché l'ondata di proteste si sia già in larga misura esaurita, l'imminente riforma delle pensioni e il prossimo anniversario della rivolta rischiano di far nuovamente divampare il malcontento. In Spagna, la recente decisione della Corte suprema di comminare lunghe pene detentive ai leader catalani che avevano lanciato il referendum per l'indipendenza nel 2017 e avanzato la richiesta di secessione ha fatto scattare proteste massicce, che vanno a complicare le elezioni di questo fine settimana in quanto già si teme che dalle urne non emergerà un chiaro vincitore.
Nel frattempo, all'altro capo del mondo, le proteste proseguono senza tregua a Hong Kong per la ventiduesima settimana consecutiva, seminando lo scompiglio e lo sconcerto nei centri di potere di una delle principali economie globali. Di tutte le proteste oggi in atto, proprio quelle di Hong Kong sembrano rappresentare la minaccia minore al proprio governo e - indirettamente - a Pechino, il quale si concede il lusso di aspettare tranquillamente la fine delle contestazioni.
Di qui la domanda fondamentale: in questi giorni di diffuso malcontento e di frustrazione politica, la democrazia resta ancora la migliore forma di governo per guardare al futuro? Se la democrazia è fiorita in questi ultimi decenni, ciò è stato possibile grazie al progressivo contributo dei cittadini alla produttività economica (uno dei principali effetti secondari della globalizzazione), che ha agevolato e allargato la loro partecipazione ai processi politici. Ma oggi la globalizzazione è in ritirata e la tecnologia ha cominciato a sostituirsi alla manodopera e continuerà a farlo per molti anni a venire.
È una questione sulla quale dovremo continuare a interrogarci, benché sia ancora troppo presto per dire che i giorni migliori della democrazia sono ormai alle nostre spalle. E la globalizzazione ha fatto segnare successi troppo importanti per vederla condannata alla rottamazione senza appello. Eppure, quando si sommano tutti questi problemi strutturali a un'economia globale in fase di rallentamento, diventa ancor più difficile per i governi soddisfare le legittime richieste dei loro cittadini per i prossimi anni. Se c'è una cosa che unisce il mondo intero nel 2019, è la rabbia contro i governi: e questo dovrebbe far riflettere seriamente tanto i governi quanto i popoli, che oggi si sollevano per contestarli.
di Vittorio Malagutti e Francesca Sironi
L'Espresso, 10 novembre 2019
Questa è la vera invasione, altro che migranti. Centinaia di tonnellate di polvere bianca sbarcate nei porti della Ue, da Anversa e Rotterdam fino a Genova e Livorno. È il mercato unico della droga. Ecco le nuove rotte dei narcos. Destinazione: le nostre città. Ma la politica tace.
Belin, mi dice: guarda che arriva anche il nostro carico il primo di novembre... cinque borse da 25... 125 chili in tutto... capisci com'è?". Massimo è nervoso: va bene gestire un ordine. Ma due, e per committenti diversi poi, è troppo. Troppo lavoro illegale, troppe richieste di sbarcare cocaina. La storia di Massimo, operaio portuale di Genova, dipendente di una grande società di servizi, subissato da offerte da parte dei trafficanti di droga, racconta alla perfezione il boom del business della droga in Europa. La merce è troppa. È questa la vera, grande invasione che arriva dal mare. Mentre la politica e l'opinione pubblica si concentrano sugli sbarchi dei migranti, i carichi di cocaina bloccati nelle dogane del Vecchio Continente hanno fatto segnare un aumento senza precedenti: quest'anno il conto complessivo potrebbe sfiorare le 200 tonnellate, contro le 150 del 2018.
Nei soli porti italiani, dal primo gennaio al 31 ottobre, ne sono state sequestrate più di cinque tonnellate. Il 168 per cento in più rispetto al 2018. Sono dati della Direzione centrale antidroga che L'Espresso può anticipare nell'ambito di un'inchiesta del consorzio giornalistico Eic (European Investigative Collaborations) sulle nuove rotte della cocaina verso l'Europa. A Genova, il 14 ottobre, un'operazione coordinata dalla procura antimafia ha portato all'arresto di un gruppo di trafficanti attivo fra Liguria, Calabria, Colombia e Ecuador. Si erano rivolti a Massimo, il camallo genovese, per far uscire dai docks 125 chili di merce che arrivava dal Cile.
Il gruppo criminale vantava una struttura sperimentata e ben organizzata, buoni rapporti con le famiglie "di giù", certezza nei pagamenti. Purtroppo per loro, però, nel frattempo Massimo era già stato ingaggiato da un'altra banda di narcos, questa volta albanesi, per uno sbarco dalla stessa nave, la Carolina Star. Il cargo attracca il 2 novembre del 2017. Mentre sposta i primi 77 chili per gli emissari del boss, il portuale corrotto viene però fermato dalla Guardia di Finanza. Il secondo carico resta così nella stiva, e la banda italiana viene costretta a cambiare rotta. Punta su Gioia Tauro, ma a metà ottobre di quest'anno scattano le manette anche per loro. Questa vicenda dimostra una volta di più che ormai le organizzazioni criminali, a cominciare dalle cosche calabresi, sono in grado di giocare su più tavoli, di gestire le spedizioni di cocaina su porti diversi a seconda delle esigenze del momento.
I carichi provenienti dal Sud America vengono così suddivisi fra tutte le principali destinazioni del continente: Rotterdam, Anversa, Valencia, Livorno, oltre a Genova. Diversificare i punti di sbarco serve a ridurre i rischi. Nord o sud Europa poco importa, alla fine. Perché la capacità delle mafie di infiltrarsi negli scali marittimi conosce pochi limiti. Gerrit Groenheide era un cinquantenne, da decenni impiegato alle dogane di Rotterdam. Insieme alla sua squadra aveva un compito cruciale: vigilare sui 20mila container scaricati ogni giorno nell'enorme hub olandese, segnalando, in base a specifiche categorie di rischio, quelli sospetti. Se diceva "arancio", il carico avrebbe potuto essere ispezionato. Se segnava "bianco" passava liscio. Era la porta dell'inferno o del paradiso per ogni trafficante internazionale di droga. Fra il 2012 e il 2015, Gerrit ha guadagnato 250mila euro per aver lasciato transitare cocaina. In bianco. Il business non dorme mai. E così il numero, e il peso, dei sequestri non fa che aumentare. 15 gennaio 2019: la Guardia di Finanza di Livorno blocca 644 chili di cocaina in transito verso Madrid. 23 gennaio: a Genova vengono trovate due tonnellate di droga su un container diretto dalla Colombia a Barcellona. 26 giugno 2019: l'agenzia delle Dogane statunitense confisca a Philadelphia un carico di 20 tonnellate di cocaina stipata su un cargo. Venti tonnellate. 2 agosto 2019: le autorità tedesche estraggono 221 borsoni neri ammassati in un container spedito da Montevideo. Portano 4.200 pacchetti di droga. Valore commerciale: più di un miliardo di euro.
È un fiume in piena. Uno tsunami di polvere bianca che invade il ricco mercato europeo dello spaccio. E la marea non accenna a calare, come segnala Kevin Scully, che da Bruxelles dirige le operazioni dell'antidroga americana, la Dea, nel Vecchio Continente. "Tutto fa pensare che nel 2019 l'import di cocaina farà segnare un nuovo record", dice Scully. D'altronde, il business dello sballo va alla grande, come confermano tutte le ricerche più aggiornate. Da Roma a Berlino, da Zurigo a Parigi e Londra il consumo di droga è in continua crescita e aumentano di conseguenza anche gli affari delle organizzazioni criminali.
Su scala globale la torta vale ricavi per almeno 300 miliardi di euro l'anno per una produzione complessiva di circa 2 mila tonnellate. Questi numeri vanno presi con beneficio d'inventario, perché, ovviamente, in materia non esistono statistiche precise. Forze di polizia e analisti sono però concordi nel ritenere che mai in passato s'era vista tanta coca in circolazione. Gli schemi elaborati dalle centrali d'intelligence internazionali trovano conferma indiretta nella realtà della cronaca quotidiana, che vede moltiplicarsi i reati legati allo spaccio e al consumo. Tutto scorre sottotraccia, fino a quando un delitto da prima pagina non scuote un'opinione pubblica altrimenti indifferente o rassegnata. È successo a Roma, per ben tre volte negli ultimi mesi.
A fine luglio l'omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega. Poi, un paio di settimane dopo, l'esecuzione dell'ex capo ultrà laziale Fabrizio Piscicelli. E quindi, il 23 ottobre, l'assassinio del giovane Luca Sacchi. Tre vicende, in buona parte dai contorni ancora oscuri, legate tra loro da un unico filo rosso: il traffico di cocaina sulla ricca piazza di spaccio della capitale. Il 18 settembre, mille chilometri più a Nord, un killer ha freddato l'avvocato Dirk Wiersum e così anche una città come Amsterdam ha scoperto all'improvviso di trovarsi in prima linea sul fronte della guerra per il controllo del business della droga.
Nella pacifica Olanda non era mai successo che un legale venisse assassinato per vicende legate a un processo. Wiersum difendeva Nabil Bakkali, origini marocchine, che aveva deciso di fare i nomi dei suoi complici in un traffico internazionale di droga. Il messaggio dei narcos è arrivato forte e chiaro. Nessuno può permettersi di rompere la regola dell'omertà. In gioco ci sono i profitti miliardari del più importante centro logistico europeo della cocaina, l'hub in cui vengono smistati i carichi in arrivo dall'America del Sud. La merce viene presa in consegna nel porto di Rotterdam o in quello di Anversa, nel vicino Belgio. A occuparsi del trasporto e della distribuzione in Europa sono organizzazioni a struttura e geometria variabile, in cui si trovano a collaborare, a volte solo per un singolo affare, mafie di diversa origine. C'è la ndrangheta calabrese, che ha propri rappresentanti anche sui luoghi di produzione con il compito di gestire il trasporto oltre Atlantico insieme ai narcos colombiani e messicani. E poi albanesi, marocchini, serbi, turchi. Non importa la nazionalità. Il mercato, e il potenziale guadagno, è così grande che c'è spazio per tutti.
"Rivalità e conflitti vengono messi da parte perché l'obiettivo comune è uno soltanto: far soldi", spiega Manolo Tersago, direttore delle squadre antidroga della polizia federale belga. Lo scenario delle alleanze tra i diversi gruppi criminali è in continuo movimento e diventa di conseguenza molto più difficile per gli investigatori ricostruire chi tira le fila dei traffici.
Secondo i calcoli di Europol, l'agenzia di coordinamento delle polizie dei paesi Ue, nel 2018 hanno preso la via dell'Europa 700 tonnellate di cocaina, la metà circa di quanto è stato piazzato negli Usa. La maggior parte della polvere bianca, circa i due terzi del totale, arriva dalla Colombia, dove la pace, cioè la fine dell'instabilità politica dovuta alla guerra civile con le Farc, ha paradossalmente dato una mano ai narcos, che ora controllano oltre 200 mila ettari di terra, cifra mai raggiunta in passato. I prezzi all'ingrosso nel Vecchio Continente sono superiori anche del doppio a quelli correnti sull'altra sponda dell'Atlantico. Questo spiega perché negli ultimi anni è aumentato il traffico verso porti come Anversa, Rotterdam e Algeciras, in Spagna.
"Qui la droga viene venduta fino a 38-40 mila euro al chilo", spiega una fonte del Citco, la divisione contro il crimine organizzato del ministero degli Interni di Madrid. Se si considera che il costo di produzione non raggiunge i mille euro al chilo e che al dettaglio le dosi vengono vendute a un prezzo di almeno 50 euro al grammo, non è difficile immaginare perché il traffico di coca sia diventato di gran lunga la principale attività di organizzazioni criminali come la 'ndrangheta, che grazie alla sua potenza di fuoco finanziaria, almeno 50 miliardi di ricavi annui, si è imposta come l'interlocutore più affidabile dei narcos sudamericani.
Nelle carte dell'Operazione Pollino, chiusa nel dicembre scorso dalla polizia italiana insieme ai colleghi di Belgio, Germania, Olanda e alla Dea statunitense, si trova un'ulteriore conferma dell'espansione globale delle cosche calabresi, capaci di creare teste di ponte stabili in America Latina e anche nei principali snodi del traffico nel cuore del Vecchio Continente. Le famiglie Pelle-Vottari, Romeo e Giorgi, tutte originarie di San Luca, erano così in grado di coordinare l'importazione di tonnellate di droga nei porti di Anversa e Rotterdam. Il baricentro degli affari delle 'ndrine si è infatti spostato verso nord. Gioia Tauro, un tempo principale approdo dei carichi di polvere bianca confezionati sull'altra sponda dell'Atlantico, ha perso peso nella mappa del narcotraffico.
"Ormai i gruppi criminali sono fluidi e ben organizzati. E l'Europa è un mercato unico, anche per la cocaina", spiega Giuseppe Cucchiara, direttore centrale dei servizi antidroga della polizia. "La 'ndrangheta", dice Cucchiara, "può quindi indifferentemente ritenere utile ricevere una partita in Belgio o a Livorno, a seconda di diversi interessi. La destinazione e l'obiettivo sono gli stessi: l'Europa". La politica delle alleanze con altre bande di trafficanti, affidata ai rappresentanti delle cosche oltreconfine, serve a gestire ogni aspetto del business, dalla consegna dei carichi al trasporto, fino alla distribuzione nelle piazze di spaccio. In un terminal delle dimensioni di quello di Anversa, dove ogni anno transitano oltre 11 milioni di container (circa 30 mila al giorno) diventa più facile aggirare i controlli e prelevare la droga nascosta tra le tonnellate di merce che arriva quotidianamente nello scalo belga. Gli interessi del business legale, che punta ad aumentare i profitti semplificando al massimo le procedure di sbarco, finiscono paradossalmente per agevolare il lavoro dei trafficanti di droga. Troppi controlli intralciano gli affari delle grandi aziende della logistica. I mercati globali vanno di fretta. Tutto va consegnato ovunque nel mondo alla massima velocità possibile. Cocaina compresa.
di Giansandro Merli
Il Manifesto, 10 novembre 2019
Tante e diverse le realtà in piazza ieri a Roma. Ma dal governo nessun segnale di discontinuità. "Aboliamo le leggi sicurezza". Il messaggio diretto al governo 5S-Pd ha aperto il corteo nazionale che è sfilato ieri a Roma, dal Colosseo a piazza della Repubblica. Dietro lo striscione di testa un mondo composito e variegato, diviso in spezzoni. La comunità curda e quella cilena. I passeggini delle famiglie occupanti di casa e gli spazi sociali romani. Le bandiere di Mediterranea e quelle di Sea-Watch. I colori di "Non una di meno" e i cori dei ragazzini dell'associazione "Kethane, Rom e sinti per l'Italia". Le comunità migranti, tante e diverse. Gli studenti e i sindacati di base, soprattutto Usb e Cobas. I centri-sociali e i progetti solidali del nord-est, uniti nel forum "Indivisibili". I simboli di Potere al popolo e Rifondazione comunista.
Un riflesso sfaccettato dei pezzi di società colpiti dai due decreti sicurezza firmati da Salvini e poi trasformati in legge dal parlamento, durante il governo gialloverde. "Non si possono rischiare sei anni di carcere per fare un picchetto o un blocco stradale che serve a difendere i propri diritti o il posto di lavoro - dice dal camion Tiziano Trobia, della rete Energie in movimento - Così come non si può rischiare di morire in mare per le sanzioni contro le navi che salvano esseri umani, o finire per strada a causa delle misure che limitano ai migranti l'accesso ai documenti e al sistema di accoglienza".
La giornata è fredda e il cielo grigio, gravido d'acqua. Nonostante ciò, strada facendo il corteo cresce. Fino a 20 mila persone, secondo i numeri diffusi dagli organizzatori. Dal camion interviene Nicoletta Dosio, attivista No Tav di settantré anni recentemente condannata in via definitiva e senza condizionale per un blocco stradale in Val di Susa del febbraio 2012. Con lei giudicate colpevoli altre 11 persone. "Essere contro i decreti sicurezza significa rifiutare una politica che il nostro territorio conosce da molti anni - dice la donna - La logica che ispira quelle misure in realtà aumenta l'insicurezza dei giovani, dell'ambiente e di tutti coloro che alzano la testa. Il movimento No Tav è stato un laboratorio di queste politiche. Io andrò in carcere perché non ho intenzione di chiedere scusa per le nostre proteste. Quello che abbiamo fatto era giusto".
Filo comune tra i diversi interventi è la proposta di un concetto di sicurezza radicalmente differente da quello agitato negli anni da tutte le principali forze politiche. Come nelle recenti mobilitazioni contro gli incendi dei locali nel quartiere romano di Centocelle, i manifestanti rifiutano di declinare quel tema a partire dal controllo poliziesco, dalla discriminazione delle persone migranti e dall'inasprimento del codice penale. "In questa piazza c'è anche la rabbia degli abitanti di Centocelle - afferma Paolo Di Vetta, dei Blocchi precari metropolitani - Le cosiddette leggi sulla sicurezza non colpiscono mai la criminalità organizzata, ma sempre gli ultimi. Chi occupa una casa, chi vive alla giornata, chi lotta per difendere i propri diritti. Sicurezza dovrebbe significare garantire a tutti un reddito, un tetto sopra la testa, l'accesso al welfare e la possibilità di lavorare".
Fulvia Conte indossa una felpa di Mediterranea e ha in mano un cartello che dice: "La solidarietà non è reato". Fa parte dell'equipaggio della nave umanitaria e ha partecipato a diverse missioni. "Anche Mediterranea è in piazza oggi per chiedere l'abolizione delle leggi di Salvini - afferma la ragazza - Quei provvedimenti bloccano nei porti le nostre navi, causando nuovi morti in mare. Avevano parlato di discontinuità con il precedente governo, invece la ministra dell'Interno Lamorgese ha annunciato un nuovo codice di condotta contro le Ong. Ma i codici di condotta ci sono già: il diritto del mare e i trattati internazionali che prevedono il dovere di salvare i naufraghi".
Il Governo è tornato in questi giorni sul tema del decreto sicurezza bis, trasformato in legge ad agosto di quest'anno. La ministra Lamorgese ha manifestato l'intenzione di accogliere i rilievi del presidente della Repubblica contro le maximulte alle Ong e l'annullamento della possibilità del giudice di valutare la "particolare tenuità del fatto" per ipotesi di reato relative a resistenza, violenza e minaccia a pubblico ufficiale. Contemporaneamente, la ministra ha annunciato l'attivazione di 300 nuovi posti nei centri di detenzione amministrativa per migranti. Dopo il rinnovo degli accordi con la Libia, invece che a elementi di discontinuità sembra assistere a una persistente subalternità nei confronti delle politiche salviniane. Brutto segnale.
di Goffredo Buccini e Federico Fubini
Corriere della Sera, 10 novembre 2019
Dopo anni di calo, il flusso di denaro attraverso i 35 mila sportelli dei Money Transfer è esploso: più 17% nel 2018. Il peso dell'economia sommersa. Mezzogiorno di metà settimana. L'incrocio tra via Gioberti e via Giolitti, di fronte alla stazione Termini, a quest'ora è strategico. Sul marciapiede invaso dal mercatino delle scarpe a cinque euro, loro aspettano il turno. "Invio danaro Ghana, invio dinero Colombia": i cartelli del Ria Money Trasfer assicurano velocità, discrezione. Come quelli della Western Union, alla bottega accanto. O di MoneyGram. I soldi partono da posti così, da casse quasi continue in fondo a empori zeppi di magneti, cd, occhiali, cellulari, in un angolo di Roma dove il kebab ha da tempo sopravanzato la pizza. E da altri 35 mila sportelli delle tre multinazionali sparsi in tutta Italia. Per usare questa rete basta un documento, non necessariamente quello giusto. "Chiamatemi Buba, Buba e basta", sorride il ragazzo con la felpa rossa e tre banconote da cinquanta in pugno. Quasi tutti, anche quelli con le carte in regola, ci danno nomi fasulli, sono timorosi. E così il grande giro di rimesse verso l'estero racconta molto di loro - gli immigrati - ma anche molto della nostra economia, della nostra politica, di noi.
Nemmeno queste rimesse potevano scampare alla Grande recessione. Gli stranieri spedivano nei Paesi d'origine 7,4 miliardi di euro nel 2011 (quando erano poco meno di quattro milioni) e ancora 6,8 miliardi l'anno dopo, con l'inizio del declino e la crisi del debito: 1.686 euro a testa in un anno; somme che, mandate alle famiglie, rendevano del tutto razionale l'idea di pagare migliaia di euro in un colpo solo a una banda di trafficanti pur arrivare qui. Da allora però le cifre calano. Alla fine del 2017, antivigilia del primo governo dichiaratamente ostile all'immigrazione, gli stranieri residenti salgono a cinque milioni, ma mandano a casa solo cinque miliardi di euro. Mille a testa l'anno, un terzo in meno rispetto ai tempi del governo Monti. In parte perché si sono integrati e spendono i loro redditi più per l'istruzione dei figli in Italia e meno per i cugini ancora al villaggio. In parte perché la crisi morde.
Poi, la sorpresa: emerge da un'analisi del Corriere su dati appena aggiornati dalla Banca d'Italia. La rotta si inverte con l'arrivo del governo Cinque Stelle-Lega, all'aprirsi della stagione dei porti asseritamente chiusi, delle quotidiane sortite contro i migranti, della xenofobia in aumento registrata anche dalle denunce nella seconda metà del 2018. È allora che le rimesse dall'Italia tornano a esplodere. Nella seconda metà del 2018, primo semestre del primo governo Conte, l'aumento è del 17% rispetto allo stesso periodo del 2017. È come se crescesse il risparmio precauzionale mandato al sicuro, all'estero. A fine 2018, un anno stagnante per l'economia, il numero degli stranieri è più o meno stabile, ma aumentano di quasi 800 milioni le loro rimesse rispetto al 2017. E la prima metà del 2019 segna un altro più 2%, malgrado la crescita zero in Italia.
In parte è tenacia. In parte paura. Non si fidano più, come Buba. Buba avrebbe di che essere orgoglioso della sua vera identità. Ventidue anni, aspirante geometra: con la paga da aiuto cuoco non solo mantiene agli studi in Gambia i quattro fratelli, ma sostiene anche gli ospiti del Villaggio Sos Bambini di Bakoteh, piccoli che, come lui, "hanno perso i genitori troppo presto". Così Buba è diventato una specie di arci-padre per i suoi fratelli e anche per i bimbi di Bakoteh: "Il mio sogno è costruire una scuola dove imparino a leggere e scrivere in inglese e in italiano". A questa doppia famiglia ha appena spedito 150 euro (ne manda fino a 200 al mese tramite Western Union, per sé tiene quasi gli spiccioli). Ma le rimesse non sono solo altruismo e trasparenza. Quelle verso la Cina per esempio crollano dagli 83 milioni a trimestre di inizio 2016 a soli 2,6 milioni a trimestre dell'inizio di quest'anno: poiché il numero dei cinesi in Italia resta più o meno stabile, circa 12 mila, la scomparsa delle rimesse lascia pensare a economia sommersa e reti clandestine. Non alla crisi. Lo stesso andamento erratico delle spedizioni di denaro in Nigeria (3,2 milioni nel primo trimestre 2017, sette volte di più nel secondo semestre 2019) fa ipotizzare riciclaggio ed economia illegale, anche sulla scorta delle indagini della Finanza.
Michael, nigeriano, 50 anni, ha in tasca un foglio di espulsione contro cui ha fatto ricorso. Ora aspetta, rannicchiato nelle pieghe dell'accoglienza cattolica (la sola che ha retto davvero). Lavora in nero, ma manda almeno 50 euro al mese al figlio di 12 anni in collegio a Lagos. "Devo farlo, in Nigeria se ti ammali paghi". Un bambino fortunato il suo Tony, si direbbe, non fosse che il padre s'è fatto cinque anni a Rebibbia per traffico di droga. Parla a fatica della galera Michael, dice di essere laureato in economia e forse per questo il giudice ha pensato che tenesse i conti della banda. "Ma io sono innocente e non ci sono bande". Nemmeno i culti della vostra mafia? "La mafia nigeriana è un'invenzione dei giornalisti" (Michael parla a tratti come i mafiosi siciliani che negavano l'esistenza di Cosa Nostra). "Dovessi cambiare una cosa della vita? Non sarei venuto in Italia. Poi penso che potrà venire qui mio figlio e allora resisto".
Resistono in tanti, abbiano o meno la legge dalla loro. Un'occhiata alle rimesse verso i sedici Paesi d'origine dei maggiori flussi di sbarchi fra il 2015 e il 2017 - tra cui la stessa Nigeria, il Pakistan, il Ghana, la Siria - apre uno squarcio su "mondo di sotto" della società italiana. Per questi immigrati, decollano le rimesse per abitante fra la prima metà del 2017 e la prima metà del 2019. Come se l'Italia fosse una tigre asiatica, non un Paese con poco lavoro e alti costi della vita.
Eppure la Banca d'Italia è chiara. In due anni le rimesse pro-capite degli afghani crescono del 34%, quelle dei bengalesi del 2%, (ma valgono 4.400 euro l'anno a testa, un record), quelle dei nigeriani salgono del 190% e dei pachistani del 42%. È probabile che il boom delle rimesse verso i Paesi di origine dei rifugiati arrivati con i barconi si spieghi perché ad esso partecipano di nascosto anche gli "invisibili": gli irregolari con richiesta d'asilo negata che però restano qui in nero, sommersi, ma a loro modo integrati. Per capirci: il numero reale degli afgani in Italia dev'essere salito circa del 20% se si contano anche gli irregolari, quello dei nigeriani del 170% e anche i pakistani sono molti di più, fuori dai dati Istat su chi ha un permesso.
Tanti di questi "clandestini" sbarcati dal 2015 sono tali per la burocrazia e per la politica: ma non per chi li mette al lavoro, spesso sfruttandoli. Non pochi pensano di rientrare in patria, domani, per cambiarla: il "piano Marshall per l'Africa", di cui spesso straparliamo, se lo stanno facendo da soli, stringendo i denti. Issa ha 23 anni, sta per diventare biologo, fa il mediatore culturale in uno Sprar a Benevento. Gambiano come Buba, ma più consapevole di un ruolo che va conquistandosi nella nostra università: "Io tornerò a casa a lavorare per la mia gente". Intanto lavora per la famiglia, quattro fratelli piccoli gli costano mille euro l'anno di rimesse. Quando è andato a trovarli dopo cinque anni da noi, il più piccolo l'aveva visto solo su Skype: "Era un uomo! Camminava! Beh, cosa dovevo fare? Mi sono messo a piangere".