www.ilsussidiario.net, 13 gennaio 2015
Via le cooperative sociali dalle carceri. Il governo tira dritto, e a quanto pare non è intenzionato a rinnovare l'affidamento del servizio per la fornitura di pasti ai detenuti. Con il provvedimento andrà perduta l'opportunità, per i detenuti che aderiscono al progetto, non solo di lavorare in carcere, ma anche di imparare un lavoro, in modo da essere pronti al "dopo", a quando saranno in libertà. Un duro colpo alla loro dignità, a quella riscoperta di sé come uomini che viene dal lavoro.
Redattore Sociale, 13 gennaio 2015
Il 15 gennaio le dieci cooperative che hanno in gestione le mense di nove carceri italiane dovranno restituire le chiavi. La Cassa delle Ammende non ha approvato la proroga fino al 31 gennaio dei progetti. Il Dap però incontrerà nei prossimi giorni i responsabili delle cooperative.
Ansa, 13 gennaio 2015
"Anche il carcere è luogo sensibile, da monitorare costantemente, per scongiurare pericolosi fenomeni di proselitismo del fondamentalismo islamico tra i detenuti presenti in Italia. La Polizia Penitenziaria, attraverso gruppi selezionati e all'uopo preparati, monitora costantemente la situazione, ma non dimentichiamo che oggi è ancora significativamente alta la presenza di detenuti stranieri in Italia. Rispetto agli oltre 53.600 presenti alla data del 31 dicembre scorso, ben 17.462 erano stranieri e di questi circa 8mila di Paesi del Maghreb e dell'Africa".
È la denuncia del segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece. Capece ricorda come: "indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni paesi europei tra cui Italia, Francia e Regno Unito hanno rivelato l'esistenza di allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico, che anche noi come primo Sindacato della Polizia Penitenziaria abbiamo denunciato in diverse occasioni.
Tra questi fenomeni, vi è la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali, pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell'entrata in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l'influenza di altri detenuti già radicalizzati. Un po' come accadde ai tempi del terrorismo, quando la consistente detenzione di molti terroristi - in particolare delle Brigate Rosse - portò delinquenti comuni ristretti in carcere ad abbracciare la lotta armata in carcere".
Il Sappe evidenzia infine che "nel periodo giugno-settembre 2004 l'Ufficio per l'Attività Ispettiva e del Controllo dell'Amministrazione Penitenziaria ha effettuato un primo monitoraggio, teso a verificare la possibilità e le modalità d'incontro, sia di natura casuale (rientrante nella normale vita d'Istituto) sia quelli finalizzati alla professione della fede religiosa, costituzionalmente garantita, il cui esito ha permesso di venire a conoscenza che il carcere rimarcava fedelmente la realtà geografica strutturale esterna. E le regioni con una maggiore concentrazione di ristretti musulmani sembravano essere quelle del Nord e la Campania o comunque altre località le cui realtà esterne rilevavano una forte presenza della comunità islamica rappresentata da centri islamici e Moschee.
Questo fa comprendere il gravoso compito affidato alla Polizia Penitenziaria di monitorare costantemente la situazione nelle carceri per accertare l'eventuale opera di proselitismo di fondamentalismo islamico nelle celle, anche alla luce dei tragici fatti di Parigi. Ma per fare questo, servono anche fondi per la formazione e l'aggiornamento professionale dei poliziotti penitenziari nonché per ogni utile supporto tecnologico di controllo, fondi che in questi ultimi anni sono stati invece sistematicamente ridotti e tagliati dai Governi che si sono via via succeduti alla guida politica del Paese.
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 13 gennaio 2015
La stretta repressiva invocata da Alfano esiste già. Basta essere musulmani e sospettati di terrorismo per vedere i proprio diritti negati.
Leggi speciali, ritiro del passaporto e applicazione di misure antimafia a sospetti terroristi. Questo è ciò che prospetta il ministro degli interni Angelino Alfano come reazione all'attentato jihadista al Charlie Hebdo, a Parigi. Ancora una volta lo stato di diritto vacilla e c'è un'attenzione particolare alle nostre disastrare carceri. Che l'istituzione carceraria rischi di diventare una fabbrica di nuovi terroristi è una realtà più che concreta.
Un ragazzo musulmano che entra in carcere per un furtarello, corre il pericolo di subire un lavaggio del cervello dai fanatici religiosi e magari essere reclutato per entrare a far parte di una cellula terroristica. Ma il reclutamento viene facilitato proprio dalla repressione che avviene all'interno delle carceri e che Alfano vorrebbe accentuare ancora di più in nome della lotta al terrorismo.
La Guantánamo italiana
Fino a qualche tempo fa l'Italia aveva una piccola Guantánamo, ovvero il carcere "speciale" sardo di Macomer che provocò numerose proteste da parte dei detenuti islamici - la maggior parte di loro in attesa di giudizio - per presunte persecuzioni religiose e civili nel regime di massima sicurezza. L'associazione Antigone denunciò i maltrattamenti a cui sarebbero stati sottoposti i presunti terroristi fin dal loro arrivo nel carcere, Presunte violenze confermate anche all'avvocato Rainer Burani, legale di numerosi imputati di 270bis.
"I detenuti mi hanno riferito di non poter comprare le medicine, che costano molto, perché non hanno le possibilità economiche e il carcere non le passa. Inoltre non hanno la possibilità di lavorare in prigione", raccontò il legale. "Bisogna tener conto che molti di loro non ricevono soldi né pacchi dalle famiglie, anche perché spesso si trovano in Italia da soli". Particolarmente dure le condizioni di carcerazione: "Mi hanno detto che vivono in isolamento continuo, con il passeggio attaccato alla cella di sette metri quadrati e la porta sempre chiusa - proseguiva Burani -. Inoltre non possono avere vestiti personali né possono contattare i volontari, anche per motivi religiosi". "Questi detenuti sono sottoposti in modo quasi burocratico all'isolamento", spiegò un altro avvocato specializzato della difesa dei presunti terroristi, Luca Bauccio.
"Il dramma è che si è passati da una politica emergenziale a una normalizzazione dell'emergenza. I 270bis sono trattati con un automatismo burocratico - che prevede l'isolamento e altre misure - senza che alla base ci sia una valutazione reale dei rischi e della loro pericolosità". Nel 2009 i detenuti musulmani sottoposti al regime duro al carcere di Macomer inviarono una lettera descrivendo la loro condizione, esordendo con queste parole di denuncia. "Vogliamo raccontare alla associazione gli abusi di potere contro i prigionieri islamici che si verificano al carcere di Macomer (Nuoro). Una piccola Guantánamo nell'isola di Sardegna. Però adesso i prigionieri di Guantánamo stanno meglio di noi che siamo chiusi in questo lager". Oggi il carcere in questione è stato chiuso, e i detenuti sono stati trasferiti in altre carceri speciali.
Livello di sicurezza AS2
Per i detenuti musulmani accusati di terrorismo, nel 2009, è stato creato appositamente un nuovo livello sicurezza, denominato Alta sicurezza secondo livello (As2), con particolari caratteristiche: isolamento dagli altri reclusi, colloqui e telefonate in numero ridotto (quattro al mese invece di sei), ora d'aria da svolgersi in aree particolari, porta della cella blindata sempre chiusa. E inoltre niente radio né televisione, divieto di leggere giornali arabi, libri e vestiti centellinati, posta controllata e fornelli del gas consegnati giusto il tempo necessario per cucinare e subito ritirati.
Ma soprattutto nessuna possibilità di entrare in contatto con gli altri detenuti, anche per evitare il rischio di proselitismo tra gli islamici imputati di reati comuni. In pratica un circuito speciale all'interno del circuito speciale ad alta sicurezza e ovviamente i detenuti considerano questo modo di procedere una ghettizzazione e un'etichettatura ingiusta, subita per di più prima ancora di essere stati condannati. Quanti di essi poi, per reazione, rischiano davvero di diventare terroristi veri? Attualmente sono circa una quarantina, tutti maschi, i detenuti islamici rinchiusi nelle prigioni italiane e accusati di terrorismo internazionale, il reato previsto dall'articolo 270 bis del codice penale. E questo reato - utilizzato recentemente anche per accusare i tre ragazzi No Tav, recentemente assolti - è un regalo di Al Qaeda.
Nella sua versione attuale venne infatti istituito dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 alle Torri gemelle, quando la situazione politica internazionale, con le guerre in Iraq e Afghanistan, radicalizzò ulteriormente l'attività dei gruppi islamici. La conseguenza fu quella di estendere un reato che puniva gli atti di violenza compiuti contro lo Stato italiano anche a quelli mossi in atto contro altri paesi. Per molti avvocati penalisti, si tratterebbe di una mostruosità giuridica. "È chiaro che lo Stato deve difendersi, ma ho forti dubbi che gli episodi che ci troviamo a trattare in Italia possano essere inquadrati come terrorismo internazionale", spiegò ad esempio Carlo Corbucci, legale di molti imputati per il 270bis e autore del libro "Il terrorismo islamico in Italia: realtà e finzione". Ma a preoccupare Corbucci sono soprattutto le successive modifiche apportate all'articolo 270: "L'ultima versione, il 270 quinqes, arriva a colpire anche chi scarica materiali, o semplicemente li visiona, dai siti internet considerati vicini ad Al Qaeda".
Il ruolo dei magistrati
Il ministro Alfano ha posto una particolare attenzione alle carceri, nelle quali sono recluse decine di migliaia di stranieri, molti dei quali provenienti dal mondo arabo. E viene rispolverato un dossier redatto nel 2010 dall'allora capo del Dap Franco Ionta, che parlò di circa 40mila detenuti sensibili al richiamo integralista islamico.
Si rischia così nuovamente - al livello istituzionale - di equiparare la fede religiosa islamica al terrorismo. Il dossier in questione è composto da 136 pagine e spiega in maniera dettagliata il rischio potenziale del reclutamento jhadista. Per arrivare a compilare la lista dei possibili reclutatori la polizia penitenziaria ha monitorato "i normali aspetti di vita quotidiana" di centinaia di carcerati: "flussi di corrispondenza epistolare, colloqui visivi e telefonici, somme di denaro in entrata e in uscita, pacchi, rapporti disciplinari, ubicazione nelle stanze detentive, frequentazioni e relazioni comportamentali".
Informazioni che confermano quanto avevano segnalato i servizi segreti con un rapporto nel quale indicavano "un'insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da "veterani", condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori". In realtà i dati non sono attendibili perché si rifanno agli atti giudiziari che hanno portato in carcere i presunti terroristi. Ciò significa che l'analisi si è fatta in base alle accuse ancora non confermate dalla Cassazione. Dagli atti sono state identificate varie sigle che ipoteticamente ricercano nuovi affiliati: si tratterebbero del Gruppo Salafita per la predicazione ed il combattimento (Algeria); Gruppo islamico combattente marocchino; Ansar ai-Islam (Medio Oriente); Hamas ) e naturalmente al Qaeda.
"L'elemento psicologico ed emozionale di cui l'individuo è vittima entrando nel sistema carcerario - segnala il rapporto del Dap - è divenuto col tempo un fertile terreno per i reclutatori delle organizzazioni estremistiche islamiche, che nell'ambito del sistema carcerario hanno saputo col tempo costruire una poderosa rete di controlla e manipolazione". Ma il rapporto dimentica di citare le condizioni dure cui l'istituzione carceraria sottopone i detenuti in attesa di giudizio di fede musulmana e accusati di terrorismo. È elemento psicologico "perfetto", supportato dallo Stato.
Italpress, 13 gennaio 2015
"Sulla questione delle cucine nelle carceri chiederò al ministro Andrea Orlando di valutare approfonditamente l'opportunità di procedere al rifinanziamento di una sperimentazione che ha avuto risultati positivi in tutta Italia. I numeri parlano chiaro: chi tra i detenuti ha avuto la possibilità di imparare un mestiere durante la detenzione, una volta libero, commette nuovi reati solo nel 2 dei casi".
Lo afferma il senatore e vicesegretario vicario Udc Antonio De Poli, che presenterà un'interrogazione parlamentare indirizzata al Guardasigilli con cui si chiederà di affrontare il problema delle cooperative sociali che gestiscono il lavoro in 10 strutture penitenziarie.
"Il lavoro in carcere non può essere considerato un optional. I detenuti assunti dalle cooperativa, stando ai risultati diffusi dal Ministero stesso, hanno avuto modo di acquisire professionalità decisive per il loro reinserimento sociale".
De Poli cita tra tutti il caso di Padova dove "si trova un'eccellenza con i panettoni (donati anche a Papa Francesco) prodotti da un laboratorio pasticceria che si trova all'interno del carcere Due Palazzi".
"Il 15 gennaio scade la convenzione nelle 10 strutture penitenziarie - sottolinea. La notizia informale di venerdì è che non è stata concessa un'ulteriore proroga per 16 giorni, fino al 31 gennaio, come avrebbe comunicato il ministro Orlando in un incontro avvenuto il 30 dicembre a Roma. Da qui la decisione dei direttori delle 10 cooperative sociali coinvolte di inviare un'altra richiesta di incontro urgente con il ministro, il capo di Gabinetto Giovanni Mellilo e con il capo del Dap Santi Consolo. Ora il caso sbarca in Parlamento".
di Antonio Mattone*
Il Mattino, 13 gennaio 2015
È opportuno parlare oggi di sanità all'interno delle carceri? Vale la pena di soffermarsi sulla domanda salute dei detenuti? Se ne discuterà nella giornata di oggi nella casa circondariale Giuseppe Salvia - Poggioreale, alla presenza del ministro della giustizia Andrea Orlando e del presidente della regione Stefano Caldoro.
Un dibattito a più voci all'interno di quello che fino a pochi mesi fa era definito "l'inferno Poggioreale" e che dopo la riduzione di mille detenuti e l'avvio di un nuovo corso trattamentale sta tornando ad essere un carcere a misura d'uomo.
C'è un laborioso fermento e un grande entusiasmo per preparare questo evento ma anche in vista della venuta di papa Francesco che il prossimo 21 marzo visiterà questa periferia esistenziale nel cuore della città e si fermerà a pranzo con i carcerati.
Nell'aprile 2008 fu emanata una importante riforma che trasferiva le competenze della medicina penitenziaria dal ministero della giustizia al servizio sanitario nazionale. Questo decreto legislativo prevedeva un principio fondamentale sancito dalla Costituzione: i detenuti e gli internati hanno gli stessi diritti nel campo della prevenzione, diagnosi e cura del cittadino libero. Tuttavia, a sette anni dalla sua approvazione, permangono ancora criticità
e molti problemi restano aperti, e c'è chi parla di "riforma incompiuta". Mancano modelli organizzativi omogenei per la medicina penitenziaria tra i diversi territori, andrebbe assicurata la stabilizzazione del personale medico e infermieristico laddove ci sono continui turnover, permangono lunghe liste di attesa per ricoveri, visite ed esami specialistici, i posti nei reparti detentivi degli ospedali sono insufficienti.
Indietro, però, non si può tornare. Il vecchio sistema era caratterizzato da un servizio sanitario anacronistico, autoreferenziale, emergenziale, dotato di strumentazioni obsolete, subordinalo all'esigenza di ordine e sicurezza, in contrasto con il dettato costituzionale che garantisce ai cittadini privati della libertà pari diritti a salute e cura. La riforma ha espresso il bisogno di una cultura nuova davanti a pregiudizi e rassegnazione. Nessuno può essere escluso dall'assistenza sanitaria perché ha commesso un reato.
A chi vive una difficoltà, un disagio, psichico o fisico, deve essere data la possibilità di essere curato. La società civile deve sentire questa responsabilità. Si dice che i detenuti hanno le stesse difficoltà che hanno le persone libere nel curarsi. Ma questo non è vero. I cittadini liberi possono scegliere da chi e dove farsi curare, per i carcerati questo none possibile. Inoltre in carcere è più facile ammalarsi. La privazione della libertà, la promiscuità, la sedentarietà, la pressione psicologica, causano molteplici patologie.
I centri clinici somigliano a dei veri e propri cronicari. Basti pensare che solo negli istituti campani ci sono 60 ultrasettantenni. Altro aspetto è quello dei tossicodipendenti, che necessitano di interventi socio-sanitari esterni per il loro recupero, ma scontano la pena tra le mura del carcere fino all'ultimo.
Un carcere sano vuol dire un territorio sano. Far uscire persone sane dal carcere, significa restituire persone sane alla società. E questo sarà possibile solo se ci sarà una collaborazione e una sinergia tra tutte le istituzioni per far emergere la potenzialità che la riforma può e deve ancora esprimere.
*Responsabile per le carceri in Campania della Comunità di Sant'Egidio
La Repubblica, 13 gennaio 2015
Depositate le carte dei giudici dopo l'assoluzione nell'ottobre scorso di tutti gli imputati per la morte del geometra romano. Gli atti del processo alla procura: "Accertare eventuali responsabilità di persone diverse".
"Stefano Cucchi "è stato picchiato". Ma resta ancora da indagare su chi furono gli autori del pestaggio. A ripetere questo concetto sono i giudici della corte d'assise d'appello nelle motivazioni della sentenza con la quale il 31 ottobre scorso hanno assolto da tutte le accuse i tre agenti penitenziari, i sei medici e i tre infermieri imputati nel processo per la morte del geometra romano, arrestato il 15 ottobre del 2009 per droga e deceduto una settimana dopo nell'ospedale Sandro Pertini, ribaltando la sentenza di primo grado che condannava i camici bianchi per omicidio colposo.
Gli atti vanno dunque trasmessi al procura affinché "valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse" dai poliziotti della penitenziaria già giudicati. Nelle 67 pagine della Corte d'Assise d'Appello di Roma i giudici riportano lo svolgimento del processo e ribadiscono che, se da una parte non sono chiare le cause della morte, dall'altra va chiarito il ruolo di chi, a cominciare dai carabinieri, ha avuto in custodia Cucchi nella fase successiva alla perquisizione domiciliare.
Per il collegio, presieduto da Mario Lucio D'Andria, "le lesioni subite dal Cucchi debbono essere necessariamente collegate a un'azione di percosse; e comunque da un'azione volontaria, che può essere consistita anche in una semplice spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento". E "non può essere definita una astratta congettura l'ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l'azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare". L'ipotesi si fonda su testimonianze secondo cui "già prima di arrivare in tribunale Cucchi aveva segni e disturbi che facevano pensare a un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte". L'attività di medici e infermieri su Stefano Cucchi "non è stata di apparente cura del paziente ma di concreta attenzione nei suoi riguardi" aggiungo i giudici. E rispetto alla causa stessa del decesso - si sottolinea - che "non c'è alcuna certezza" e, conseguentemente, "non è possibile individuare le condotte corrette che gli imputati avrebbero dovuto adottare".
Inoltre "le quattro diverse ipotesi avanzate al riguardo, da parte dei periti d'ufficio (morte per sindrome da inanizione), dai consulenti del pubblico ministero (insufficienza cardio-circolatoria acuta per brachicardia), delle parti civili (esiti di vescica neurologica) e degli imputati (morte cardiaca improvvisa), tutti esperti di chiara fama - si spiega - non hanno fornito una spiegazione esaustiva e convincente del decesso. Dalla mancanza di certezze, non può che derivare il dubbio sulla sussistenza di un nesso di causalità tra le condotte degli imputati e l'evento". La riapertura delle indagini era stata già chiesta dalla famiglia. Nell'ottobre scorso, alla lettura della sentenza, la sorella Ilaria era scoppiata in lacrime: "La giustizia malata ha ucciso Stefano. Attenderemo le motivazioni e andremo avanti. Chi ha commesso un errore deve pagare, ma non con la vita come mio fratello" aveva detto.
"È un verdetto assurdo - aveva ripetuto Rita, mamma di Stefano. Mio figlio è morto dentro quattro mura dello Stato che doveva proteggerlo". "Vogliamo la verità. Possono assolvere tutti ma io continuerò a chiedere allo Stato chi ha ucciso mio figlio", aveva aggiunto papà Giovanni. E la famiglia Cucchi non si era arresa, annunciando il ricorso in Cassazione dopo la lettura delle motivazioni e presentando un esposto in Procura contro il perito Arbarello.
Dall'altro lato c'era stata la soddisfazione degli imputati: il primario del reparto detenuti del 'Pertinì, Aldo Fierro, i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo e Rosita Caponetti; gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe; gli agenti della Penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici.
"Sono veramente felice di questa sentenza - aveva commentato Giuseppe Flauto, uno degli infermieri assolti anche in secondo grado - non solo per me, ma anche per i medici del Pertini perché più volte in primo grado hanno detto che non erano degni di vestire il loro camice. Oggi c'è stata una giustizia vera". La sentenza aveva provocato anche un'ondata di solidarietà nei confronti della famiglia del 31enne e la richiesta, proveniente anche da alti esponenti della politica nazionale come il presidente del Senato Pietro Grasso e il premier Matteo Renzi, di chiarire i punti oscuri della vicenda della morte del giovane.
Garante detenuti Lazio: amara conferma a mie denunce
"Le motivazioni della Corte d'Appello sono, purtroppo, l'amara conferma di quello che ho denunciato fin dalle prime ore seguenti la morte di Stefano Cucchi e cioè che la verità andasse cercata anche nelle fasi precedenti la sua presa in carico da parte della Polizia Penitenziaria. Paradossalmente, però, una sentenza di assoluzione può oggi aiutarci a trovare la verità".
Lo dichiara in una nota il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando la sentenza con cui i giudici dell'Appello hanno assolto gli agenti della polizia penitenziaria, i medici e i paramedici dell'ospedale Sandro Pertini accusati della morte di Stefano Cucchi avvenuta il 22 ottobre 2009.
Nelle ore immediatamente successive alla morte del giovane, il garante inviò un esposto alla Procura della Repubblica della Capitale nella quale si chiedeva, prima ancora che fossero noti tutti i dettagli della vicenda, di "verificare se effettivamente la mattina del 16 ottobre 2009 vi fosse stato un intervento del 118 presso la camera di sicurezza dei carabinieri che ospitava il Cucchi e di verificare chi fosse materialmente intervenuto in quella occasione e quali fossero le condizioni cliniche del detenuto al momento dell'intervento".
"Un convincimento, quello che la verità andasse cercata altrove rispetto alla direzione presa dalle indagini", che il Garante ha espresso "chiaramente in più occasioni, compresa una audizione davanti alla Commissione Parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e un intervento all'interno del docufilm 148 Stefano, presentato al Festival del Cinema di Roma. Denunce rimaste tutte senza esito".
"L'invio della sentenza alla Procura della Repubblica perché valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità dimostra", secondo Marroni "la carenza delle attività investigative svolte concentrate esclusivamente sul periodo di permanenza di Cucchi in carcere e in ospedale. Indagini che hanno tralasciato colpevolmente le vicende precedenti al suo arrivo al Tribunale di piazzale Clodio, l'arresto e la sua detenzione nelle mani dei carabinieri. Se si fossero svolte indagini a 360°, come la logica imponeva, forse oggi la famiglia Cucchi avrebbe quella giustizia che da cinque anni va disperatamente cercando, e si sarebbero risparmiate sofferenze ed umiliazioni non solo ai familiari del povero Stefano ma anche a tutte quelle persone che sono state accusate e poi giudicate innocenti".
di Valeria Di Corrado
Il Tempo, 13 gennaio 2015
Lo scambio di persona si era palesato sin dal principio, eppure lo Stato è stato costretto a sborsare 100 mila euro per quell'errore. Manolo Zioni, romano di 26 anni, ha trascorso in carcere un anno con l'accusa di concorso in tre rapine, nonostante un detenuto si fosse sin da subito autoaccusato di quei "colpi". Dopo la sentenza di assoluzione, la quarta sezione penale della Corte d'appello di Roma ha condannato il ministero dell'Economia a corrispondere a Zioni un indennizzo pari a 235 euro per ciascuno dei 351 giorni trascorsi in carcere.
Il 20 settembre 2010 il giovane, all'epoca aveva 22 anni, viene arrestato per aver commesso tre rapine, il 16 agosto, il 9 e il 19 settembre 2010, nello stesso supermercato di via San Cleto Papa (zona Pineta Sacchetti) e con le stesse modalità. Il fermo viene convalidato il 23 settembre e il 12 ottobre la custodia cautelare in carcere è confermata dal Riesame.
Il 29 dicembre Alessandro Rossi, già recluso per una serie di rapine consumate nella stessa zona, in un interrogatorio reso al pm, ammette di aver commesso anche le tre conteste a Zioni. Il 10 gennaio 2011, a una settimana dalla prima udienza dibattimentale, la difesa chiede di revocare la misura cautelare nei confronti del giovane, sulla base della testimonianza che lo scagiona. L'istanza viene però rigettata dal Tribunale. Nel corso del processo i dipendenti del supermercato, sentiti come teste, non riconoscono in Zioni l'autore delle rapine.
Ma i giudici non sono convinti dell'innocenza dell'imputato e dispongono d'ufficio una perizia antropometrica sulle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza. La svolta arriva grazie a un tatuaggio. Sul corpo del vero ladro è tatuato una specie di diamante. Anche Zioni ha un segno sul collo ma il perito ha chiarito che si trattava di solo di una macchia sulla pelle. Sulla base di questo accertamento, il 6 settembre 2011 il Tribunale rimette in libertà il giovane e, a distanza di venti giorni, lo assolve "per non aver commesso il fatto".
I suoi legali presentano subito alla Corte d'appello un'istanza di riparazione per l'ingiusta detenzione subita. I giudici riconoscono le conseguenze psicologiche e morali connesse al provvedimento coercitivo, considerata "soprattutto la sua inutilità". Già dal 29 dicembre 2010, infatti, Alessandro Rossi aveva confessato la paternità delle rapine attribuite a Zioni. "Nonostante questo e nonostante le successive deposizioni dei testimoni oculari - si legge nella sentenza - sono dovuti trascorrere oltre 8 mesi per escludere la sua responsabilità. Lo scambio di persona è fuor di dubbio, unitamente all'assenza da parte di Zioni di comportamenti che possano averlo favorito". Il 26enne è stato nuovamente arrestato lo scorso giugno per aver gambizzato in zona Primavalle Gianluca Alleva, personal trainer di 35 anni, che con Zioni sembra avesse un debito in sospeso.
Ansa, 13 gennaio 2015
I detenuti potranno scegliere il medico di fiducia tra quelli operanti all'interno della struttura e uno sportello informativo sanitario consentirà ai familiari di monitorare le condizioni di salute del paziente in carcere. È quanto prevedono due progetti attivati all'interno della casa circondariale di Massa e che sono stati presentati stamani a Carrara alla presenza del sottosegretario alla giustizia Cosimo Maria Ferri.
In particolare, dal primo novembre per due giorni al mese, è possibile per i parenti dei detenuti, e con il loro consenso, avere un colloquio sulle condizioni di salute del congiunto. Ferri ha sottolineato l'importanza delle due iniziative, uniche a livello nazionale, che nascono "con l'obiettivo di assicurare standard migliori di assistenza sanitaria ai soggetti reclusi e rendere questa più omogenea alle regole esterne valide per i liberi cittadini.
La possibilità per il detenuto di avere un medico di riferimento - ha proseguito il sottosegretario - assicura una continuità terapeutica e facilita il rapporto di fiducia medico paziente, come peraltro ribadito dalle indicazioni dell'organizzazione mondiale della sanità, in un ambiente, quello carcerario, in cui tale rapporto presenta delle evidenti criticità".
Ansa, 13 gennaio 2015
"Sono passati 30 giorni, ma ancora non abbiamo avuto gli esiti degli accertamenti irripetibili eseguiti in casa Stival e degli esami del Dna". Lo afferma l'avvocato Francesco Villardita, che assiste Veronica Panarello, la 26enne accusata di avere ucciso il figlio Loris, di 8 anni, strangolandolo con delle fascette di plastica il 29 novembre del 2014 a Santa Croce Camerina, nel Ragusano. "Per noi - aggiunge il penalista - sul piano processuale e delle indagini difensive sono dati importanti. Aspettiamo di poterli avere nel più breve tempo possibile".
Il legale è ancora "in attesa anche delle motivazioni del Tribunale del riesame di Catania, che non hanno ancora depositato il provvedimento, capire come hanno superato le criticità sottolineate dalla difesa" nei confronti dell'ordinanza restrittiva che tiene la donna reclusa nella prigione di Agrigento.
Il 3 gennaio scorso i giudici hanno rigettato la richiesta di scarcerazione della mamma di Loris, confermando l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa il 12 dicembre del 2014 dal Gip di Ragusa, Claudio Maggioni, su richiesta del procuratore Carmelo Petralia e del sostituto Marco Rota. Il Giudice delle indagini preliminari, in quell'occasione, ha anche confermato il fermo per omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere eseguito tre giorni prima da polizia di Stato, squadra mobile e carabinieri di Ragusa.
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