di Errico Novi
Il Dubbio, 2 novembre 2019
L'articolo de "La Verità" contro giudici e avvocati dimentica le riforme incompiute. Ma perché dobbiamo leggere ancora una volta un'accusa generica, indiscriminata, raffazzonata sparata nel presunto mucchio selvaggio della giustizia? Perché un giornale attento come La Verità si lascia andare nella titolazione di un'intervista fino a rovesciarla in un'avvelenata contro i suoi colleghi, "Magistrati, avvocati e università hanno ucciso la nostra giustizia"?
Si fa fatica a capirlo. Anche perché in tutta la pure interessante conversazione con il legale fiorentino Eraldo Stefani firmata ieri da Marcello Mancini sul quotidiano di Maurizio Belpietro, aleggia una certa fascinazione esterofila. Dall'accostamento di Stefani a Perry Mason alla lamentela per le ingolfate aule dei tribunali, a quel disfattismo declinista antitaliano che ormai sceglie sempre più spesso la giurisdizione come bersaglio preferito. E poi soprattutto, l'idea secondo cui non è l'assetto ordinamentale a fare acqua da tutte le parti ma la condotta dei protagonisti, cioè appunto magistrati, avvocati e al limite accademici.
Non una parola sul fatto che sì, è vero, l'avvocato ha poteri investigativi, eppure il ruolo del pm nella fase delle indagini è così smisurato da negare spesso il valore e la praticabilità stessa dell'attività difensiva. Non una parola sulle sentenze che hanno menomato nella culla il compianto (anche dall'intervista) modello processuale accusatorio, non una parola soprattutto sulle incompiutezze del sistema a cui persino negli ultimi mesi ci si è rifiutati di rimediare.
Esempio: è vero che il codice del 1989 funziona male. Ma è vero pure che a detta di magistrati e avvocati, voluti da Bonafede al tavolo per la riforma, la soluzione era chiara: primo depenalizzare, e sul punto nessuna parte politica è davvero disponibile a esporsi; secondo, rafforzare il ruolo del giudice nell'udienza preliminare, evitare cioè che tale decisivo passaggio del procedimento si riduca a insulso passaggio di carte; terzo, cosa decisiva, rafforzare, cioè rendere più appetibili i riti alternativi, innanzitutto il patteggiamento.
Ma qui ancora una volta è la scelta politica che piccona le risorse dell'ordinamento, perché proprio al sopracitato tavolo sulla riforma un partito della vecchia maggioranza, la Lega, ha fatto pervenire il proprio insuperabile veto sull'ipotesi di allargare il patteggiamento e rafforzarne i contenuti premiali. D'altronde, lo stesso partito aveva ottenuto, con la stessa maggioranza di allora, che il ricorso a un altro prezioso rito alternativo quale l'abbreviato fosse escluso per i reati da ergastolo, con conseguente micidiale ingolfamento delle Corti d'assise. E nell'ultimo caso non si parla di propositi riformatori: si tratta di una legge in vigore dallo scorso aprile.
Ecco: ci dite per piacere come si può sostenere che, se il processo penale accusatorio non decolla mai davvero, è per colpa di magistrati e avvocati? E poi, l'attacco ormai sistematico alle toghe, a quelle della magistratura come alle toghe dei difensori, lascia sempre più chiaramente scorgere altri retro-pensieri, che c'entrano davvero poco con la capacità dell'avvocato di svolgere indagini alla Perry Mason.
Qui il punto è il fastidio per il procedimento penale in quanto tale. Che è avvertito ormai come forma di impostura rispetto al processo vero, quello mediatico. E quello sì che funziona. Le indagini difensive non le fa neppure il penalista ma direttamente la tv. Ci piace tanto. E allora rinunciamo del tutto alle aule di giustizia. Rottamiamo le toghe. E mettiamoci davanti a uno schermo per ascoltare la sentenza. Arriverà sicuramente in tempi più brevi e senza calca nei corridoi. Giusto l'attesa per il super spot.
di Paolo Comi
Il Dubbio, 2 novembre 2019
Il "Fatto Quotidiano" ha lanciato un appello nel quale chiede al governo un decreto per bloccare la decisione della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l'ergastolo ostativo (pena, feroce, che esiste solo in Italia, tra i paesi europei, e che infatti è stata già condannata due volte dalla Corte di Strasburgo, e che viola, effettivamente, oltre alla Costituzione italiana anche i principi essenziali del diritto).
di Giacomo Costa*
Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2019
Dopo la sentenza della Corte costituzionale sull'ergastolo ostativo: perché e come modificare l'articolo 4bis. 1. L'articolo 27 della Costituzione non parla delle funzioni delle pene. Quali che esse siano, dice che "devono tendere alla rieducazione del condannato". Nell'interpretazione corrente si deve trattare di una rieducazione morale che gli permetta di riprendere il suo posto in società.
Un corollario di questa interpretazione è che non vi può essere piena attuazione dell'ergastolo: sennò come avverrebbe la reintegrazione che è il fine della rieducazione? Un secondo corollario è che l'apparato giudiziario-carcerario deve istituire un sistema di monitoraggio dei comportamenti dei detenuti, per registrare i progressi compiuti. Probabilmente questa concezione è fondata sulla credenza che i delinquenti si siano formati malamente a causa delle disastrate condizioni socio-economiche di origine. Questa credenza non è generalmente vera. Inoltre, la delinquenza può essere il risultato di elaborate dottrine o di convinzioni lungamente medita.
2. La Corte costituzionale ha prodotto un'importante sentenza, della cui motivazione è stata anticipata una breve sintesi. Gli ergastolani mafiosi o terroristi non erano sinora ammessi, in base all'articolo 4bis comma 1 dell'Ordinamento penitenziario, alla concessione di benefici penitenziari (permessi premio, lavoro esterno, semilibertà, libertà condizionata) se non avessero deciso di collaborare con la magistratura. Ora, osserva la Corte, ciò che va evitato è "l'attualità della partecipazione all'associazione criminale" e "il ripristino di collegamenti" con essa. La collaborazione con la giustizia è una prova sufficiente della decisione di non rinnovare tali contatti, ma non necessaria: "Se si possono acquisire elementi tali da escludere" la ripresa dei contatti, il divieto cade. Quali sarebbero tali "elementi"? Qui la Corte si fa più vaga. Non ne fornisce un solo esempio. Quali questi "elementi" siano, che occorrano o no, spetta al magistrato di sorveglianza stabilirlo, in base alla relazione del carcere e alle informazioni e pareri di varie autorità di sorveglianza (l'apparato inquisitoriale di cui si diceva).
3. Ora finalmente "tocca ai giudici giudicare!" esulta Luigi Manconi su Repubblica del 24 ottobre. Ma di solito il giudice giudica applicando la legge, ossia, i criteri suggeritigli dalla legge: che qui mancano! Osserva Hans Kelsen ne "Il problema della giustizia" (pagine 52-53) che di solito "ci si rifiuta di vincolare gli organi che applicano il diritto con norme generali...e di affidare ogni cosa alla loro discrezionalità, affinché possano trattare ogni caso concreto conformemente alle sue peculiarità". Ma nel nostro caso non è questo il fine: la Corte delega al magistrato la ricerca di quei criteri sostitutivi della collaborazione di cui essa ha astrattamene ipotizzato l'esistenza, ma che non ha saputo individuare.
4. Gli ex magistrati Caselli, Ingroia e altri, hanno sottolineato che, per la natura non dei singoli uomini, ma dell'organizza zione mafiosa, l'appartenenza alla mafia è per sempre. Se ne esce o da morti, o da collaboratori di giustizia. La Corte costituzionale non è d'accordo, evidentemente, e si può simpatizzare con il suo sussulto in difesa della revocabilità della propria carriera criminale. Ma non indica alcun modo alternativo di compiere il troncamento. Resta, io temo, al magistrato solo la lettura dell'animo dell'ergastolano mafioso: affidata a un soggetto che nulla qualifica per questo difficile, forse impossibile incarico. Il ruolo del magistrato non è affatto "valorizzato" da questa micidiale delega che meglio si potrebbe affidare a una chiromante.
5. Tuttavia la sentenza è irrevocabile. Giovedì sul Fatto Quotidiano è uscito un appello per limitarne i danni potenziali: come? A mio avviso conviene restare aderenti all'impianto ipotetico adottato dalla sentenza, conservandone pienamente lo spirito. Il comma 1 dell'articolo 4bis andrebbe così integrato: "I detenuti finora esclusi dai benefici carcerari a causa della loro mancata dissociazione dalle bande criminali di appartenenza possono farne richiesta allegando la documentazione degli atti da loro compiuti dai quali si possa inferire la cessazione definitiva dei loro rapporti con esse". Le domande dovrebbero essere esaminate da una commissione di almeno 5 persone, che non comprendano il magistrato di sorveglianza.
*Ex professore di Economia Politica all'Università di Pisa
di Giacomo Urbano*
Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2019
In questi giorni, è in discussione alla Camera dei deputati il ddl costituzionale denominato "Norme per l'attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura". Se fosse approvata questa netta distinzione degli ambiti ordinamentali, organizzativi e disciplinari, determinerebbe la fine della magistratura costituzionale così come la conosciamo, esempio di equilibrio e garantismo unico nel mondo occidentale.
Il senso di questo decalogo, se si vuole generalista, sentimentale, nostalgico, è quello di dare voce alle ragioni del No, con la convinzione che di certo questa riforma non porterebbe a un migliore assetto della giustizia penale né a una maggiore qualità della giurisdizione. Ecco quindi alcuni buoni motivi per opporsi alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Il pm non è l'avvocato dell'accusa, la sua azione tende unicamente a raggiungere la verità processuale nell'interesse della collettività, perciò è una parte imparziale, senza essere un ossimoro. Pm, giudice e avvocato sono tre uomini in barca, quella di Jerome K. Jerome.
La separazione delle carriere è il primo passo verso un'altra magistratura, non sappiamo quale. O forse sì. Pensare che il giudice sia appiattito sul pm significa non conoscere gli uffici giudiziari e le statistiche di definizione dei procedimenti e dei processi, che invece dicono tutt'altro.
Esiste già una netta separazione delle funzioni che rende poco praticabile il passaggio dall'una all'altra, con limiti territoriali e temporali significativi di cui nessuno parla mai. Se la separazione serve a rendere il Giudice più distante dal pubblico ministero e ancora più terzo, ciò vuol dire che quel giudice è semplicemente non autorevole e non professionale. E continuerà a esserlo, anche da separato.
È passato il tempo delle battute degli anni 90: "studia figliolo, studia, sennò da grande farai il pm", ma è passato pure il tempo in cui i pm andavano in tv a fare proclami. E non si regolano, oggi, i conti del passato. La separazione non determinerebbe un processo più giusto ma al contrario solo un pm più forte e fuori controllo perché affrancato dal limite della giurisdizionalità del suo agire. Se ancora, nonostante tutto, ci sono avvocati che chiamano giudici i pm ci sarà un motivo. E non per un lapsus.
Non si può essere separati in casa. E pm e giudici abitano sotto lo stesso tetto, quello del dubbio e della giurisdizione. Il pm, quando il Giudice entra in aula, si alza e quando parla al Giudice lo fa in piedi. Con la separazione non ci sarà più un sostituto procuratore che, come Rosario Livatino, dopo aver chiesto la condanna di un imputato, ascoltando l'arringa del difensore cambierà idea e replicando ne chiederà l'assoluzione. E poi alla fine in fondo, a ben pensarci pm e giudici sono separati già, perché ognuno di loro nel silenzio della camera, di consiglio o non, sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.
*Sostituto procuratore Santa Maria Capua Vetere
di Riccardo Noury
Corriere della Sera, 2 novembre 2019
In Turchia circola questa barzelletta: "Come vanno le cose?", "Non possiamo lamentarci". "Ah, bene allora". "No, non ha capito. Non possiamo lamentarci". "Non possiamo lamentarci" è anche il titolo del rapporto diffuso ieri da Amnesty International, in cui l'organizzazione per i diritti umani rende noto che centinaia di persone sono state arrestate e rischiano processi e condanne per aver fatto commenti o denunce sull'offensiva militare in Siria. Chiunque si sia distanziato dalla linea ufficiale - giornalisti, utenti dei social media, manifestanti, attivisti e oppositori politici - viene accusato di "terrorismo" e sottoposto a indagini, detenzioni arbitrarie e divieti di viaggio all'estero.
Il rapporto di Amnesty International segnala in particolare la repressione che si è abbattuta contro i giornalisti dopo che il 10 ottobre, 24 ore dopo l'inizio dell'offensiva militare, l'autorità regolatrice delle comunicazioni aveva avvisato gli organi d'informazione che vi sarebbe stata tolleranza-zero su "ogni trasmissione che potrebbe avere un impatto negativo sul morale e sulle motivazioni dei soldati o che potrebbe ingannare i cittadini attraverso informazioni incomplete, false o parziali funzionali agli obiettivi del terrorismo".
Una denuncia ha raggiunto persino il direttore e l'editore del settimanale francese "Le Point", rei di "offesa al presidente" per questo titolo di copertina: "Pulizia etnica: il metodo Erdogan". Per quanto riguarda i social media, solo nella prima settimana dell'offensiva militare, 839 account sono stati posti sotto indagine per "diffusione di contenuti di rilevanza penale"; 186 persone sono state messe in custodia di polizia e 24 di loro sono state rinviate in detenzione preventiva.
L'operazione "Sorgente di pace" è anche il pretesto per intensificare la repressione contro gli attivisti e gli oppositori politici. Parecchi parlamentari sono sotto inchiesta e decine di attivisti del Partito democratico del popolo (Hdp), di sinistra e filo-curdo sono stati arrestati. La sindaca della città di Nusaybin è stata deposta e subito sostituita da un governatore distrettuale. Il 12 ottobre le "Madri del sabato", un gruppo di parenti di vittime di sparizioni forzate che organizzano veglie pacifiche ogni sabato dal 2009 per ricordare i loro cari, sono state avvisate che, se fosse stata pronunciata la parola "guerra", la manifestazione sarebbe stata sgomberata. Cosa puntualmente e violentemente avvenuta non appena è iniziata la lettura di una dichiarazione che criticava l'operazione militare in Siria. Dunque, è vero: in Turchia non ci si può lamentare.
di Tiziana Maiolo
Il Riformista, 2 novembre 2019
Medaglia alla coerenza al dottor Armando Spataro, che ha svolto per tutta la sua vita di magistrato il ruolo di Pubblico ministero, sfuggendo così alle due tentazioni cui non sanno resistere tanti (troppi) suoi colleghi: quella di scambiare il ruolo di accusatore con quello di giudice e quello di entrare in politica mettendo a frutto la popolarità acquisita con le inchieste giudiziarie. Siamo certi non gli siano mancate le occasioni né per diventare giudice né per diventare politico. Ma ha rinunciato.
Il primo ruolo non è proprio nelle sue corde, per quel che riguarda il secondo, non ne ha mai avuto bisogno, avendo lui sempre interpretato il ruolo del pubblico accusatore nel modo più "politico" possibile. Nei lunghi anni in cui è stato pubblico ministero a Milano, Armando Spataro ha svolto un vero ruolo da "sceriffo" all'americana, pur non essendo lui né eletto né nominato da un ministro, ma teoricamente solo un burocrate planato in magistratura per concorso. Certo, anche lui come tutti i suoi colleghi, ha nuotato nell'acqua della grande anomalia italiana, quella di un ordinamento giudiziario in cui il pm gode di un regime di ampia indipendenza a scapito della responsabilità.
Ha goduto del vantaggio di appartenere allo stesso ordine dei giudici e lo rivendica ancora oggi, attraverso la finzione retorica (Il Riformista, 29-10-19) di una querelle tra garantisti e forcaioli, in cui ricorda quel che è ovvio, cioè il dovere di tutti i soggetti processuali di rispettare i diritti individuali di ciascuno. Ma il problema non è quello, e non è neanche un'altra sua finzione retorica, quella di ricordarci di esser stato lui stesso vittima di volta in volta di coloro (che lui cataloga in: colleghi magistrati, politici, pseudo-intellettuali) che lo criticavano attribuendogli patente di uomo di destra se indagava sul terrorismo "rosso" e di esponente di sinistra se troppo blando nel perseguire la violenza islamica.
Il punto vero è un altro, è una questione di regole. Principi che ancora dovrebbero sussistere, nonostante i nostri codici siano da tempo infarciti di legislazione di emergenza emanata da un Parlamento sempre più convinto che sia i pubblici ministeri che i giudici, più che indagare e deliberare debbano "lottare". Non inquisire e giudicare il cittadino, ma sgominare i fenomeni devianti, si chiamino terrorismo o mafia. Dimenticando che la lotta, se non addirittura la guerra contro le piaghe della società spetta invece proprio a quel potere esecutivo che spesso demanda agli altri poteri dello Stato quel che non sa o non può e non vuole fare. Proprio come fece l'ultimo governo Andreotti nel 1993 dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino, quando affidò (con la legge Scotti-Martelli) al Parlamento e alla magistratura il compito della lotta alla mafia. Diverso sarebbe il ruolo del Pubblico ministero se, come è nei sistemi di common law, rispondesse delle sue azioni all'elettorato o in sede politica.
È sotto gli occhi di tutti il fatto che certi comportamenti di rappresentanti della pubblica accusa, quelli che chiamiamo "sceriffi", in un sistema come quello italiano in cui esiste l'obbligatorietà dell'azione penale e un unico corpo, la magistratura, che contiene coloro che accusano e coloro che giudicano, diventano di per sé potere privo di controllo. Potere politico. Vogliamo citarli uno a uno questi comportamenti? Possiamo parlare degli stratagemmi usati per prolungare le indagini, la violazione della competenza territoriale, l'uso distorto della carcerazione preventiva per estorcere confessioni e chiamate in correità, l'uso dei "pentiti".
E molto altro. Sono argomenti che il dottor Spataro conosce molto bene, questi ultimi, visto il suo ruolo nelle indagini e nel processo per l'assassinio del giornalista Walter Tobagi. Negli Stati Uniti i responsabili del delitto poi diventati collaboratori di giustizia Marco Barbone e Marco Morandini forse non avrebbero scontato nemmeno i tre anni di carcere che hanno trascorso in Italia dopo la trattativa, più o meno segreta, stipulata con il pubblico ministero, però i cittadini americani sarebbero stati tranquilli del fatto che il rappresentante della pubblica accusa sarebbe stato responsabile in sede politica e pubblica delle proprie azioni e dell'osservanza delle regole.
Ci domandiamo che cosa sarebbe successo in Usa (ma anche negli altri Paesi europei) se alcuni pm e gip avessero trascinato per sedici anni con una gogna infinita una vicenda giudiziaria come quella subita dall'avvocato Melzi senza risponderne davanti ai cittadini. Con i pm trasformati in incontrollati poliziotti non smentiti quasi mai dal compiacente avallo dei gip se non anche dai collegi giudicanti. Come se ogni arbitraria scelta del pm fosse atto dovuto e insindacabile. E che arroganza! Viene in mente un episodio raccontato nel libro di Agostino Viviani, La degenerazione del processo penale in Italia. Un tribunale del riesame aveva rimesso in libertà un indagato in custodia cautelare, e subito dopo pare che il pm avesse fatto aspre critiche con "aggressione verbale" nei confronti del presidente del collegio giudicante che non aveva obbedito alle sue richieste e in seguito si sia anche rivolto per protestare al presidente del tribunale. Il quale, invece di denunciare la grave intromissione del pm nei confronti dell'organo giudicante, aveva convocato il presidente del Tribunale del riesame per avere spiegazioni.
Così, tra "colleghi". Come è finita? Che quest'ultimo, a disagio perché si sarebbe presto trovato nella stessa situazione in altra indagine e con lo stesso pm, finì per astenersi dal giudicare. Nel libro ci sono i nomi e cognomi. Due volte il Csm fu investito della questione: la prima dallo stesso Viviani, la seconda dal consigliere Di Federico. Invano. Sarebbe questa la "cultura della giurisdizione" di cui sarebbe fornito il pm e di cui parla il dottor Spataro?
di Ignazio Cutrò
antimafiaduemila.com, 2 novembre 2019
"Grave la mancata assegnazione della delega per la Presidenza della Commissione Centrale". Con riferimento alla audizione del Ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, ieri in Commissione Parlamentare Antimafia, registriamo il suo silenzio in merito alla mancata assegnazione della delega per la Presidenza della Commissione Centrale. Il ritardo con il quale il Ministro dell'interno non abbia ancora deciso a quale dei due viceministri assegnare la Presidenza di un così importante organo politico-amministrativo non è dato di sapere.
Ciò che invece sappiamo è che la signora Ministro si è limitata a ribadire l'ennesimo copione sul numero dei testimoni e dei collaboratori protetti e di come il sistema di protezione italiano sia punto di riferimento in altri Paesi. Dicevamo un copione già visto e rivisto che volutamente ignora quanto emerso dalle inchieste della Commissione Parlamentare Antimafia.
Basterebbe che il Ministro trovasse il tempo di leggere le relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia, approvate all'unanimità, nel 1998, nel 2008 e nel 2014 nonché le prime risultanze sui disagi di testimoni e collaboratori nel corso della attuale inchiesta del Comitato X di Inchiesta sui testimoni di giustizia e collaboratore di giustizia.
Per quali ragioni il Ministro intenda ignorare questioni fondamentali quali sicurezza, reinserimento sociale e lavorativo, minori resta per noi un mistero. Di certo non è utile a nessuno, ai testimoni di giustizia e ai collaboratori di giustizia, ma anche alle Istituzioni che si neghi la crisi di sistema dello speciale programma di protezione ne tantomeno è utile a chicchessia che si taccia sul fatto che il decreto attuativo della legge n. 6 del 2018 attualmente in esame alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sia tutto da riscrivere per manifesta incostituzionalità in quanto contiene norme incompatibili con quella legge e tantomeno desumibili dalla volontà del Legislatore. Dal Ministro dell'interno Lamorgese ci aspettiamo più coraggio e soprattutto discontinuità rispetto a quella logica punitrice verso i testimoni di giustizia ai quali purtroppo siamo stati abituati a subire.
di Stefania Valbonesi
stamptoscana.it, 2 novembre 2019
Grande evento ieri alla Casa Circondariale Mario Gozzini, che, nata con l'intento di rendere l'evento detentivo un'occasione per riflettere e riprogettare la propria esistenza attraverso proposte trattamentali ampie, ha richiesto una riorganizzazione del sistema di gestione dei rifiuti, la sensibilizzazione degli "utenti", introducendo buone pratiche e attivando sistemi di riduzione della produzione di rifiuti.
Richiesta cui Alia Servizi Ambientali SpA, h dato risposta, e, per gestire al meglio i rifiuti prodotti in questa "città-microcosmo", ha valutato le necessità esistenti, ascoltando e coinvolgendo le 150 persone in 10 incontri formativi, svoltisi nei mesi di settembre ed ottobre. Dunque, riorganizzazione della raccolta differenziata, posizionamento di oltre 250 contenitori all'interno della struttura, mentre all'esterno sono state riviste le 2 postazioni esistenti, collocate a Nord e Sud della struttura nell'anello interno, composte adesso da 8 e 6 contenitori. Inoltre, è stato richiesto di incrementare la raccolta delle pile esauste, già presente, e sono in fase di attivazione anche raccolte.
In questo contesto di sensibilizzazione e trasformazione si è inserito anche l'intervento di Publiacqua, che torna a distribuire borracce ai detenuti, caraffe per i refettori ed a programmare un'attività didattica dedicata all'acqua del rubinetto. Inoltre, il gestore del servizio idrico si è reso disponibile a rinnovare, dopo quanto fatto negli anni scorsi, il controllo della qualità dell'acqua interna ai rubinetti interni i reparti.
L'interessante iniziativa cala tuttavia in un momento di particolare incertezza del mondo carcerario toscano. Infatti, da venerdì scorso, è scaduto il mandato del garante regionale Franco Corleone, che dunque sta consumando il periodo di prorogatio, come previsto dalla legge regionale sul garante. Un'uscita per raggiunti termini che lascerà un'eredità complicata al suo successore, eredità che costituisce il "pacchetto sciopero della fame" di Corleone: trasformare il Gozzini o Solliccianino che dir si voglia, attualmente metà per i semiliberi e metà custodia attenuata, in carcere femminile, trasferendo il reparto donne da Sollicciano: si tratta, ricorda Massimo Lensi, volto storico dei radicali di Firenze e sostenitore di storiche battaglie per l'umanizzazione delle condizioni carcerarie, di una proposta lanciata anni fa da Don Russo e proseguita da Corleone.
Inoltre, nella lista lasciata aperta dal garante uscente, permane la seconda cucina di Sollicciano, il ripensamento dei carceri di Pianosa e Gorgona, l'apertura della struttura per i semiliberi a Pistoia, lo spazio trattamentale a Lucca, il pieno funzionamento del carcere di San Gimignano, la semilibertà a Firenze, il teatro stabile a Volterra, il rafforzamento del polo universitario a Sollicciano. "E tante altre questioni del cantiere aperto delle carceri in Toscana" dice ancora Lensi.
Per quanto riguarda le nuove nomine, ci sono 4 autocandidature, che verranno proposte al consiglio regionale: Francesco Ceraudo, ex direttore del Centro Sanitario del carcere "Don Bosco" di Pisa; Saverio Migliori, proveniente dalla Fondazione Michelucci; Emilio Santoro, proveniente da Altro Diritto, garante del carcere di San Gimignano, istituto penitenziario che si trova sotto la lente della magistratura per le ben note vicende di maltrattamenti denunciate dai detenuti; Giuseppe Fanfani, ex Csm, di appartenenza Pd origine Margherita, che tuttavia non sembra essere molto gradito all'interno del partito. Per quanto riguarda la candidatura di Emilio Santoro, professore universitario oltre che garante a San Gimignano, verrebbe in essere un motivo di incompatibilità, che tuttavia potrebbe essere sanata nel momento in cui la scelta cadesse su di lui, con una modifica della legge. La nuova nomina deve essere fatta entro 90 giorni dalla scadenza, ovvero da venerdì scorso.
"Il vero problema - dice Lensi - è che l'intero sistema carcerario toscano si trova in condizioni pessime. Nonostante la buona conduzione di Franco Corleone infatti, a causa del continuo taglio dei fondi per le carceri, e anche di una difficoltà burocratica evidente, ciò che si lascia è forse peggio di quanto c'era quando cominciò l'azione del garante". Un problema anche di strumenti in mano al garante stesso come figura istituzionale, tant'è vero che lo stesso Corleone ha messo in atto svariati scioperi della fame per attirare l'attenzione sui problemi gravissimi delle condizioni detentive.
Tanto per fare un esempio, si ricordi la vicenda della richiesta di ventilatori per alleviare le condizioni dei carcerati nei periodi estivi, vicenda che vide due anni di tira e molla, con un primo invio di 60 ventilatori da parte dell'assessore regionale Stefania Saccardi, che non furono utilizzati. Faccenda che si chiuse con l'intervento diretto del cappellano del carcere di Sollicciano don Vincenzo Russo, che si rivolse ai privati.
Anche perché, spiega Lensi "le logiche del carcere sono del tutto proprie, ed è impossibile creare aree di privilegio per 60 celle, e lasciare gli altri senza niente". La conseguenza, è innestare una tensione che, visti i numeri dei detenuti, la scarsità delle risorse umane e la stessa morfologia di Sollicciano, mette a rischio la stessa gestione dell'istituto.
Per capire meglio la situazione limitandosi al solo carcere fiorentino, basti pensare che, nella logica rieducativa che dovrebbe presiedere alla pena detentiva secondo quanto stabilito dalla Costituzione, è vero che ci sono degli educatori che si recano a Sollicciano per svolgere un compito importantissimo, ovvero creare una qualche possibilità di riscatto reale ai detenuti. Ma i numeri rivelano la triste realtà: "Su 740 detenuti attualmente presenti a Sollicciano - rivela Lensi - gli educatori sono nove". E spesso neppure tutti in attività.
Tornando alla nomina del garante regionale che dovrà avvenire a breve, in ballo ci sono 17 carceri toscane (19 contando la Rems, ovvero residenza per l'esecuzione delle misure di scurezza ex Legge 81 di Volterra, e quella ancora in ristrutturazione di Empoli, vale a dire l'ex carcere femminile del Pozzale) per circa 4mila detenuti, il tutto da gestire con fondi sempre più scarsi. Per capire meglio le difficoltà, si pensi che il carcere di San Gimignano, che come è stato ricordato si trova sotto inchiesta della magistratura, ha sì un direttore, ma non è quello definitivo; diciamo che "regge" San Gimignano in via di supplenza.
Anche se, come ricorda l'esponente radicale, "è in corso l'approvazione di un Dlgs del governo che intende togliere (parte dei) poteri al direttore e trasferirli al comandante di Polizia Penitenziaria, creando una situazione particolarmente delicata proprio per la funzione di equilibrio interno che il direttore riveste".
Per quanto riguarda le candidature, da mettere in conto che, a parte le autocandidature ufficiali, potrebbe arrivare qualche novità: ad esempio, il garante comunale Eros Cruccolini, anch'egli in proprogatio, potrebbe rivelarsi un candidato "a sorpresa" per il regionale. Qualcuno vorrebbe in quel ruolo il cappellano di Sollicciano, don Vincenzo Russo, che si segnala per competenza e capacità di comprensione dei problemi, oltre che per la particolare sensibilità verso gli abitanti di questi universi dimenticati dalla società civile e politica che sono le carceri. Tuttavia, una sua eventuale corsa dovrebbe ottenere il benestare dell'Arcivescovo, monsignor Claudio Betori, il che fa sì che le cose si complichino.
Fra le eventualità ventilate per il carcere fiorentino, il sindaco Nardella aveva lanciato la proposta di costruire un nuovo carcere.
Un'idea tuttavia che, per i costi e i tempi, venne ridimensionata alla distruzione di una parte dell'attuale casa circondariale, esattamente quella dove si trovano i magazzini. Un'idea che però non solleva molto entusiasmo. "Un nuovo passo verso la colata di cemento che, fra opere e grandi opere, e al di là dei proclami green dell'attuale governo cittadino, sta per investire la città - conclude Lensi - in realtà va solo migliorata l'attuale struttura di Sollicciano, anche perché l'edilizia carceraria non è mai sinonimo di miglioramento sul piano della funzionalità di un carcere. Fa solo contenti imprenditori del cemento e sostenitori della giustizia punitiva. Ricordiamo che a Pescia esiste un carcere costruito nel 1986 e ancora non inaugurato. Ad oggi, l'unica funzione che ha svolto è stata quella di far girare nei suoi ambienti un film".
di Checchino Antonini
popoffquotidiano.it, 2 novembre 2019
Lo stranissimo suicidio in carcere di un infermiere sindacalista arrestato per errore. Si chiamava Mario Scrocca. Un'inchiesta mai fatta davvero. Primo maggio del 1987, alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluri-omicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l'interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un "errore" nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino.
Scrocca fu arrestato per il duplice omicidio di due neofascisti in via Acca Larentia nel gennaio 1978 sulla base delle rivelazioni di una pentita Livia Todini (all'epoca dei fatti quattordicenne), che parlò di un certo Mario riccio e bruno ma non lo riconobbe nel corso del riscontro fotografico. Questa è una delle storie contenute nel sito di Acad, l'associazione contro gli abusi in divisa, e sulla quale sta per uscire un documentario che verrà presentato l'11 maggio al Cinema Palazzo di Roma.
Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella anti-suicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S. Spirito.
I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all'ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull'autoambulanza di servizio del carcere.
Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell'Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere.
Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l'enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa. Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura.
Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell'arresto. A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane. L'accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall'arresto su dichiarazioni di seconda mano di una pentita che avrebbe appreso notizie da una persona non rintracciabile. Evidenti le irregolarità nella carcerazione, le stranezze della morte del giovane e nei referti autoptici.
Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia "stato suicidato" o se sia stato istigato al suicidio, reato che all'epoca non esisteva. La responsabilità "reale" di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere militante di Lotta continua e poi tra i fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche.
di Giovanni M. Jacobazzi
Il Dubbio, 2 novembre 2019
Alla conferenza stampa della chiusura delle indagini sul disastro ferroviario di Pioltello è stato presentato un video, montato dagli investigatori e poi distribuito ai presenti. IL procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha assicurato che non sarà "fonte di prova". Verrebbe quasi da dire che la Procura di Milano ha "istituzionalizzato", questa settimana, il processo mediatico. Una gestione "in house" della singolare attitudine, tutta italiana, a creare percorsi extra processuali lontani dalle aule del dibattimento.
L'occasione è stata offerta dalla chiusura delle indagini sul disastro ferroviario di Pioltello, accaduto il 25 gennaio del 2018, in cui morirono tre persone e ne rimasero ferite quarantasei. La notifica dell'avviso ex articolo 415 bis ai dodici indagati, due manager e sette fra dipendenti e tecnici di Rfi (Rete ferroviaria italiana), oltre ai vertici dell'Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie, è stata infatti accompagnata da una conferenza stampa organizzata dai pm milanesi titolari del fascicolo.
Durante l'incontro con i cronisti, in particolare, è stato presentato un video, montato dagli investigatori e poi distribuito ai presenti, in cui venivano dettagliatamente ricostruite le cause del deragliamento del treno Milano- Cremona. Il filmato, girato con le più moderne tecniche 3D, non lasciava alcuno spazio a dubbi sulle effettive responsabilità dell'accaduto.
"È stato fatto un vero processo con attribuzione di responsabilità", ha dichiarato Giovanni Briola, uno degli avvocati presenti alla conferenza, assieme a Matteo Picotti e Tiziana Bellani, tutti della Camera penale milanese, protestando contro questa "spettacolarizzazione" voluta dalla Procura.
"In alcuni punti di questo video - ha poi aggiunto Briola - c'era scritto "consulenza tecnica", perciò in parte è un atto processuale". Immediata la replica del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, titolare del fascicolo, che ha assicurato che il video 3D non sarà "fonte di prova".
La polemica, però, è proseguita. Sempre l'avvocato Briola: "Avete avvisato i difensori e messo a disposizione i faldoni con gli atti d'indagine? Siciliano ha risposto: sì, certo lo abbiamo fatto ieri pomeriggio. Ma in realtà hanno mandato il 415 bis, l'avviso di chiusura indagini, e quindi nessuno ha potuto visionare la mole di documenti che avremo a disposizione solo tra diversi giorni. In un contesto di correttezza dell'informazione, la Procura fa una conferenza stampa ma, visto che ci sono tutti gli atti depositati, deve dare il tempo anche alla difesa di vederli e preparare la propria versione".
Gli indagati sono accusati di disastro ferroviario colposo, omicidio plurimo e lesioni colpose. Sul punto va sempre ricordato che il Csm ha nel 2018 approvato delle "Linee guida per la corretta informazione giudiziaria". Nella circolare si raccomanda ai magistrati "la tutela della presunzione di non colpevolezza, la centralità del giudicato rispetto ad altri snodi processuali (per esempio le indagini preliminari), il rispetto del giusto processo".
Concetti ribaditi dall'avvocato Andrea Del Corno, consigliere dell'Ordine di Milano: "Il dibattimento è stato da tempo svuotato. A chi interessa conoscere l'esisto di un processo quando ormai la sentenza è stata emessa sui media basandosi sul materiale fornito dall'accusa?".
E a proposito dell'accusa, la Procura di Milano ha iniziato a distribuire ai giornalisti, dal mese scorso e dietro pagamento dei diritti di cancelleria, copia degli atti giudiziari "di rilievo pubblico" e non contenenti informazioni che possano danneggiare il segreto istruttorio. Primi atti divulgati, quelli di "Moscopoli".