Adnkronos, 1 novembre 2019
Con il primo ministro della Repubblica d'Albania, Edi Rama, "abbiamo operato una ricognizione della già intensa cooperazione in campo giudiziario e di polizia. Ho ribadito l'impegno italiano a rafforzare questa cooperazione, con particolare attenzione alla lotta alla criminalità organizzata e ai traffici illeciti. Sono lieto di poter annunciare che è stata raggiunta un'intesa anche nell'importante settore del trasferimento dei detenuti albanesi, già un primo trasferimento si concluderà a breve". Lo afferma il premier Giuseppe Conte, nel corso delle dichiarazioni alla stampa con Rama.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 1 novembre 2019
La Circolare del Miur voluta dal Sottosegretario Azzolina (M5S). Il ministero dell'Istruzione ha emanato una Circolare sulle assenze da scuola dei figli dei detenuti. Una circolare fortemente voluta dalla sottosegretaria all'Istruzione, Università e Ricerca, Lucia Azzolina. "È una circolare che ho personalmente sollecitato - ha dichiarato la Azzolina - anche su segnalazione del mio collega parlamentare Raffaele Bruno, che conosce bene il tema ed è impegnato in un capillare tour nelle carceri alla scoperta delle buone pratiche e dei laboratori teatrali che saranno oggetto di una specifica mozione di cui sarà primo firmatario".
di Luca Rocca
Il Tempo, 1 novembre 2019
Stavolta i penalisti non potevano far finta di nulla, ed è finita com'era ovvio che finisse, vale a dire con la querela dell'Unione camere penali contro Milena Gabanelli, rea di aver accusato gli avvocati dei mafiosi di far da tramite fra i boss in carcere e le loro cosche di appartenenza.
Tutto ha avuto inizio tre giorni fa, quando la Gabanelli ha dedicato la sua rubrica "Dataroom" sul Corriere Tv alle sentenze con le quali la Corte europea dei diritti dell'uomo e la Consulta hanno "bocciato" l'ergastolo ostativo, stabilendo che anche il mafioso che non collabora con la giustizia può, se il suo legame con la criminalità organizzata è cessato, rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per chiedere di ottenere, ad esempio, dei permessi premio.
Partendo dal presupposto che è difficile accertare se davvero il mafioso in carcere ha reciso o meno i contatti con la sua cosca, la Gabanelli ha sostenuto che "migliaia di atti processuali, nel corso di quarant'anni, hanno dimostrato che casualmente emerge il fatto che il tizio che è in carcere ha ancora contatti con la cosca, e lo ha attraverso gli avvocati (i cui colloqui in carcere, ndr) non sono monitorabili".
Per la giornalista, dunque, in molti casi, come dimostrerebbero gli atti giudiziari, i legali dei mafiosi farebbero da tramite fra i propri clienti e le cosche. Affermazioni che hanno provocato la reazione di Giandomenico Caiazza, presidente dell'Unione camere penali: "Uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti", ha affermato il penalista, prima di domandarsi se sia questo "il giornalismo d'inchiesta nel nostro Paese".
Poi l'annuncio, con un'inevitabile punta di sarcasmo, della querela: "La signora Gabanelli verrà ora a raccontarci in Tribunale i riscontri che avrà certamente raccolto in ordine ad una simile, strabiliante e diffamatoria accusa nei confronti di tutti gli avvocati penalisti italiani impegnati in quei delicatissimi processi".
di Gian Carlo Caselli*
Oggi, 1 novembre 2019
La Consulta ha aperto all'autorizzazione per chi sta scontando pene "ostative". La questione è molto controversa. La Consulta ha deciso con un solo voto di scarto, 8 a 7, a mio giudizio con troppo "distacco dalla realtà" della mafia.
Un'organizzazione spietata, dominata da regole inderogabili: giuramento di fedeltà perpetua; persistenza dello status di "uomo d'onore" fino alla morte; possibilità di uscire dall'organizzazione solo con un atto di "diserzione" (la collaborazione o "pentimento"). Esperienza investigativa e qualificati studi di psicologia applicata evidenziano poi una perversa "identità mafiosa". I mafiosi sono convinti di appartenere a una "razza superiore", quella in cui rientrano soltanto i veri uomini (non a caso autodefinitisi "d'onore").
Nel mondo esterno non ci sono uomini, ma individui da assoggettare. Non persone, ma oggetti che si possono eliminare (se dànno fastidio) con totale distacco emotivo. Dunque, vero è che l'art. 27 della Costituzione parla di "pena che deve tendere alla rieducazione del condannato", per cui in linea di principio l'ergastolo tollera la concessione di benefici.
Ma è del pari vero che ciò ha senso - altrimenti è pura astrazione - solo quando si tratta di condannati che danno segni concreti di volersi redimere. E i mafiosi ergastolani non pentiti, a causa della loro specifica "identità", sono ontologicamente incompatibili con ogni prospettiva di recupero. Di più: concedendo loro "permessi premio", si aprono (è facile da prevedere) spazi dei quali essi profitterebbero per rientrare in qualche modo nel giro delle attività criminali.
Ragionare in questi termini non significa essere manettari o forcaioli, né indulgere a logiche vendicative. Significa riconoscere realisticamente che non possiamo permetterci il lusso di aprire falle nell'antimafia. L'obiezione che non ci sarà nessun "automatismo" è fondata, perché la concessione del permesso spetterà caso per caso a un giudice.
Ma attenzione: posto che informazioni e pareri vari sono per lo più atti burocratici o di facciata, l'unico segno esteriore di autentico ravvedimento è la collaborazione con lo Stato, senza di che al giudice si chiede di azzardare una scommessa surreale. E se dice di no, il mafioso automaticamente lo vedrà come un "nemico". Esponendolo a rischi che è irresponsabile trascurare.
*Ex procuratore di Palermo
di Tiziana Maiolo
Il Riformista, 1 novembre 2019
"Avvocato Melzi, forse non ha capito: se lei non mi dice tutto sulla "cosca Ferrazzo", lei non esce più dal carcere, perché butto via le chiavi".
Se qualche ingenuo pensava che questo tipo di espressione, butto via le chiavi, abbondasse solo sulla bocca dello stolto o dell'incauto politico, può subito ricredersi. Questa parole sono state pronunciate, oltre dieci anni fa, da uno di quei magistrati che vengono indebitamente definiti da alcuni "antimafia" e da altri più correttamente "professionisti" della medesima, il dottor Mario Venditti, che all'epoca di questa storia era pubblico ministero della Dda a Milano. Le chiavi che il famoso magistrato voleva buttare erano quelle che tenevano incarcerato un brillante avvocato milanese, Giuseppe Melzi, noto non solo per aver assistito i piccoli risparmiatori della Banca Privata Italiana (vicenda Sindona) e del Banco Ambrosiano (vicenda Calvi), ma anche per le sue numerose attività nel mondo ella cultura, dell'arte, dei diritti e della solidarietà. Un bravo avvocato, un bravo cattolico, che stava sempre "dalla parte giusta", quella dei deboli contro i forti, della giustizia contro le ingiustizie. Trentacinque anni di onorata professione senza macchia. Sedici anni di persecuzione del circo mediatico-giudiziario. Con le stimmate del mafioso, anzi del "regista" di un traffico di armi e droga tra la Svizzera e la Calabria, al soldo di una sconosciuta "Cosca Ferrazzo", lavando soldi da reinvestire in Sardegna e altri luoghi turistici.
Ora l'avvocato Melzi, a un anno dalla notizia dell'archiviazione del suo caso, ha scritto un Libro Bianco ("riservato a familiari ed amici"), in cui racconta anche di sé, della sua vita distrutta, lo studio professionale chiuso, la sospensione dall'Ordine degli avvocati, il carcere, la gogna, gli interrogatori infiniti, le intercettazioni e i pedinamenti subiti. Tutto ciò è il vestito che gli è stato cucito addosso con aghi crudeli. Ma quel che vuole far sapere a chi lo saprà ascoltare è che ogni giorno sono mille e ancora mille i vestiti cuciti addosso con crudeltà a tanti malcapitati, non da un sistema, ma da persone, che vengono chiamate con nome e cognome. E puntigliosamente vengono elencati gli ostacoli che certi amministratori di giustizia frappongono al diritto alla difesa e al rispetto della Costituzione.
L'avvocato Giuseppe (o Pino o Pinuccio) Melzi viene "fermato" con una scusa alle ore 13,15 del primo febbraio 2008 davanti al suo studio di largo Richini, pieno centro di Milano, proprio di fronte all'Università Statale dove si è laureato. In caserma gli viene consegnato un ordine di custodia cautelare del gip Guido Salvini costruito con il copia-incolla: 258 pagine scritte dal pm e 18 dal giudice, veloce sintesi delle precedenti. Nella stessa giornata vengono perquisiti con esito negativo casa auto e studio legale dell'avvocato, dove vengono sequestrate carte di lavoro che riempiono sei faldoni. Lui viene portato a San Vittore.
L'inchiesta nasceva a Varese, nelle mani di un pm, Agostino Abate, molto noto alle cronache perché in seguito sarà trasferito dal Csm al tribunale civile di Como per "gravi inerzie" in procedimenti famosi come il caso Uva e l'uccisione di Lidia Macchi. Nel corso dell' indagine, chiamata suggestivamente Dirk Money, denaro sporco, Giuseppe Melzi ha subito, senza neppure un'informazione di garanzia, controlli bancari per quattro anni e mezzo, intercettazioni telefoniche su dieci diverse utenze e ambientali: 11.587 pagine di trascrizione, 17 faldoni di complessivi 76 dell'intero procedimento, OCP (osservazioni, controlli, pedinamenti) riportati in 169 pagine. La relazione finale dei Ros dei carabinieri individuava l'avvocato Melzi come il "regista" delle attività mafiose di una presunta "cosca Ferrazzo" e il suo studio legale, come scrisse in quei giorni per esempio La Repubblica, "uno dei luoghi d'incontro di affiliati alla 'ndrangheta calabrese e truffatori italosvizzeri".
Dopo avergli infine inviato un'informazione di garanzia per "agevolazione mafiosa" e "riciclaggio" il dottor Abate aveva poi trasmesso per competenza gli atti alla procura "antimafia" di Milano, dove entrano in scena il dottor Venditti, quello delle chiavi, e il gip Salvini che ne dispone la custodia cautelare in carcere. E ricomincia la trafila degli interrogatori, con i legali (Giuliano Pisapia, Massimo Di Noia, Matteo Uslenghi) che si trovano nelle mani migliaia di pagine che dovrebbero sostenere un'ipotesi accusatoria che è solo un teorema. Complessivamente sono state verbalizzate 1.195 pagine e ancora non c'è il bandolo della storia. Nel frattempo, con grande sprezzo del pericolo, l'Ordine milanese degli avvocati sospende l'avvocato dalla professione.
Poi, dopo 89 giorni di custodia in carcere e 7 mesi ai domiciliari, arriva la libertà e insieme la richiesta di rinvio a giudizio. Ma il gup Paolo Jelo, dopo aver scoperto che non era mai esistita una "cosca Ferrazzo" né in Calabria né altrove, scopre anche che la competenza territoriale non era radicata a Milano (e l'ufficio del "regista" dove si incontravano i mafiosi?), ma in Sardegna, dove si sarebbero dovuti fare i famosi investimenti con il denaro sporco. Nel 2016 i giudici sardi archiviano, dopo altri 7 anni di vane ricerche, l'inchiesta, definendo le indagini di Varese e Milano "assurde e cieche".
Ma non è ancora finita. Perché i magistrati archiviano e non notificano. Così l'avvocato Melzi verrà a sapere per caso da un collega sardo che la sua persecuzione è finita solo due anni dopo. Sono passati sedici anni dalle prime indagini. E oggi c'è questo Libro Bianco che andrebbe diffuso non solo a "familiari e amici" come l' avvocato vorrebbe.
Basterebbe leggere, oltre alla sua storia, i titoli dei capitoli che dedica alle distorsioni che condizionano le storie giudiziarie di tanti: l'avvocato indagato, il predominio dell'accusa, il potere a vita insindacabile dei giudici, la riparazione e il risarcimento, la madre di tutte le caste, le correnti orgogliose, i rischi professionali, discrezionalità e arbitrio, avvocato e non prestanome. E dedica un bel capitolo all'informazione, anche qui con nomi e cognomi di giornalisti, ma anche di autori di libri sulla mafia che parlano dell'avvocato Melzi come di un appartenente alle cosche. Come per esempio "Per non morire di mafia" di Pietro Grasso e Alberto La Volpe.
P.S. "Dopo l'arresto dell'avvocato Giuseppe Melzi, accusato di riciclaggio e reimpiego di capitali a favore della 'ndrangheta, abbiamo assistito all'ennesima condanna preventiva senza nemmeno aspettare l'esito di un processo. Possibile che nessuno abbia avuto il buon gusto di dire, o quantomeno di pensare, che l'avvocato Melzi potrebbe essere innocente?... Insomma, la storia non cambia, basta un'informazione di garanzia o un arresto per essere già colpevoli... Io, senza timore, pongo a tutti questa domanda, semplice e chiara: e se l'avvocato Melzi fosse innocente?". Tiziana Maiolo, assessore al Comune di Milano, 13 febbraio 2008. Citazione dalla prima pagina del Libro Bianco..
di Piero Paciello
lattacco.it, 1 novembre 2019
Standing ovation per "Un'ora d'aria colorata" nella Casa Circondariale di Foggia. Ieri pomeriggio un centinaio di detenuti hanno applaudito e cantato insieme con Luca Pugliese, poliedrico artista campano che si è esibito in numerosi classici della musica napoletana.
Il concerto, fortemente voluto dalla direttrice dell'istituto, Giulia Magliulo, dal comandante del corpo di polizia penitenziaria, Luca Massimiliano Di Mola e dal capo area trattamentale Giovanna Valentini, ha visto il musicista esibirsi nella sua veste live preferita: la versione "one man band" (voce, chitarra, percussioni a pedale).
"Le mie canzoni e la mia musica - ha detto Pugliese - godono di un'energia totalmente diversa da quando ho deciso di regalarle a chi ne ha veramente bisogno. Se vogliamo migliorare il nostro paese, dobbiamo cominciare dal basso, recuperando e riabilitando chi ha sbagliato, e che ciò non è solo doveroso, ma è anche possibile. Io metto gratuitamente a disposizione una mia competenza; se tutti dessero qualcosa gratis per alleviare la sofferenza altrui, sicuramente il mondo starebbe più in armonia con se stesso".
Insieme a lui sul palco, per qualche minuto, anche Enzo, detenuto con un grande talento musicale, applaudito dagli altri ristretti per la sua esibizione.
"Questi eventi, in cui i detenuti si mettono in gioco - il commento del direttore dell'Istituto Penitenziario, Giulia Magliulo - sono molto importanti per i percorsi trattamentali. La musica, che io amo particolarmente, ha un grande valore educativo. Come diceva Aristotele, può procurare la catarsi, ma anche donare sollievo. La funzione terapeutica della musica scaturisce da quel particolare 'poterè che ha il suono di elevare lo spirito. In un contesto come questo diventa quasi magica, perché può portare lontano, regalare un sorriso".
Nuovi percorsi trattamentali e maggiore sicurezza, dunque, sono gli obiettivi del direttore Magliulo, a capo della Casa Circondariale di Foggia da circa due mesi.
"Ho scelto questa destinazione - ha sottolineato - perché volevo dare il mio contributo in un luogo in cui fosse necessario uno sforzo in più. In questo Istituto c'è carenza di personale e per questo motivo diventa ancora più importante lavorare sulla motivazione, investire sulle relazioni. Il persole in servizio diventa come una seconda famiglia: qui si trascorrono insieme tante ore ed è importante cogliere e valorizzare ogni risorsa. Costruire una rete con le istituzioni presenti e operanti sul territorio è un'altra priorità a cui sto già lavorando, con massimo impegno".
di Luciano Sciurba
Il Messaggero, 1 novembre 2019
A Velletri i detenuti diventano vignaioli. Il "Rosso di Lazzaria", è un vino rosso prodotto con le uve della grande tenuta agricola con vigna che si trova all'interno della struttura penitenziaria e infatti prende il nome dalla zona dove si trova la Casa Circondariale.
Il vino è stato presentato nella cantina interna al carcere alla presenza del vescovo di Velletri, monsignor Vincenzo Apicella, del vice garante dei detenuti Sandro Compagnoni, dell'enologo che ha curato la produzione Sergio De Angelis e di numerosi altri ospiti ed esperti del settore. "È stata una battaglia vinta, ha detto al direttrice del penitenziario Donata Iannantuono, abbiamo rimesso in piedi la cantina, impegnato l'agronomo della struttura Marco De Biase, alcuni agenti di polizia penitenziaria e diversi detenuti che si sono offerti volontari.
Alla fine è venuto fuori un prodotto eccellente, che va' ad aggiungersi al pane di Lariano, prodotto nella Casa Circondariale di Re Bibbia,, con cui abbiamo stretto un'ottima collaborazione nel produrre i prodotti tipici locali, come anche l'olio d'oliva, che viene sempre prodotto qui da noi grazie ai nostri uliveti e alla collaborazione dei detenuti".
di Peter Gomez e Marco Travaglio
Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2019
Se la Consulta ha considerato incostituzionale l'articolo 4bis dell'Ordinamento penitenziario, il legislatore deve adoperarsi subito per approvare una nuova norma che stabilisca parametri e principi fissi da seguire per concedere o negare i permessi agli ergastolani "ostativi".
Una legge che li sottragga alla discrezionalità dei semplici giudici di sorveglianza sul "percorso rieducativo" e "l'attualità della partecipazione all'associazione criminale". Ma come si fa a capire se boss all'ergastolo, come Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, condannati per le stragi, stiano realmente compiendo un percorso rieducativo?
Nei casi degli altri ergastolani "comuni" la valutazione si basa principalmente sul comportamento da loro tenuto in carcere. Un comportamento che per i boss mafiosi è, però, tradizionalmente sempre impeccabile. Come allora stabilire se un capomafia vuole cambiare davvero vita e non sta fingendo? È possibile concedere benefici ai boss delle stragi, sebbene non abbiano raccontato i segreti di cui sono depositari?
L'ergastolo ostativo era stato introdotto dopo Capaci. Da oggi in poi basterà invece trovare un giudice di sorveglianza che applichi pedissequamente la sentenza della Consulta per vedere mafiosi pericolosissimi uscire dal carcere in permesso premio. Anche perché se un giudice da solo dovrà decidere se concedere un beneficio a un boss, sarà esposto alle pressioni, ai ricatti, alle minacce di morte e ai tentativi di corruzione dei clan.
Considerata la necessità e urgenza della lotta alla mafia, chiediamo una legge - o meglio un decreto legge - che impedisca a capimafia e agli altri responsabili di stragi di ottenere permessi e altri benefici senza meritarli. Una norma che il Parlamento dovrebbe approvare all'unanimità.
di Marcello Mancini
La Verità, 1 novembre 2019
La riforma del codice di procedura penale introdotta il 24 ottobre 1989 ha deluso aspettative e prospettive. Uno dei pochi legali alla Perry Mason spiega: "La novità era l'attività di difesa investigativa. È stata ignorata".
È un Paese democratico quello nel quale un cittadino ha paura della Giustizia? Si può definire un Paese libero quello nel quale un cittadino indagato o testimone, appena entra in un'aula si sente privato dei suoi diritti e ha difficoltà a svolgere il ruolo di testimone e, se indagato, ha paura ad affrontare il giudizio in tribunale?
"Vede", mi spiega Eraldo Stefani, avvocato penalista, "le aule di giustizia sono gelide, il cittadino si sente trasformato in un fascicolo, sente di perdere la propria identità e avverte di essere un semplice numero". Mentre si continua a parlare di riforma, il nostro Paese non è riuscito ad applicare come si deve il Codice di procedura penale introdotto 3o armi fa. Stefani mi racconta di essersi trovato in un processo, come difensore, ad assistere una persona indagata, che veniva chiamata come sessantottesima nell'elenco dei processi che in totale erano ottanta.
"Il cliente che mi stava vicino e aspettava il suo turno, balbettava, non potevo fare niente per tranquillizzarlo, tanto era inquietante la calca delle persone: che cosa aggiungere a questo stato d'animo del povero cittadino indagato, che potesse ridurre la sua ansia?".
La giustizia, la nostra Giustizia, che dovrebbe essere "uguale per tutti", spesso odora più di ingiustizia che di legalità, ignora ormai il valore fondamentale del dubbio di fronte alla decisione di condannare o di non condannare quell'essere umano che è l'imputato. "Il dubbio è un sentimento, è come un crinale in alta montagna, e l'uomo si deve fermare di fronte al crinale del dubbio, così come recita l'articolo 533 del codice penale "...il Giudice pronuncia sentenza di condanna se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio", riflette Stefani.
Questo avvocato fiorentino rimane uno dei pochi in Italia ad aver indossato l'abito del "Perry Mason", previsto dal nuovo Codice, esattamente 30 anni fa (il 24 ottobre 1989). Molti altri hanno lasciato l'abito nell'armadio delle cose perdute. Per scelta, per convenienza o per pigrizia. Stefani è stato protagonista di processi di difesa penale investigativa, di fondamentale importanza per riaprire processi, anche cold case, frutto di macroscopici errori giudiziari che nel nostro Paese sono numerosi. In questi giorni in tutta Italia si celebra l'anniversario dell'entrata in vigore del nuovo processo - convegni, buffet e lectio magistralis - ma c'è poco da festeggiare.
Il nuovo processo è ancora quello vecchio, che risale al 1930 e porta il nome, quasi famigerato, di Alfredo Rocco, il Guardasigilli del governo Mussolini. Le novità che furono introdotte in pompa magna ne11989, non sono state mai veramente applicate. La più rivoluzionaria si chiamava "difesa penale investigativa", ed era interpretata dall'avvocato che indaga al pari del pubblico ministero sul modello, appunto, del sistema americano e del celebre Perry Mason televisivo.
Cioè si istituiva la figura dell'avvocato che contribuisce all'accertamento dei fatti per trovare la verità e non del difensore che si limita a confutare le accuse mosse dal pubblico ministero. Oltre tutto con la facoltà di avvalersi del contributo di un investigatore privato che l'avrebbe affiancato nella individuazione e nella raccolta delle prove.
Mi racconta Stefani: "Si trattava di una novità epocale: il cittadino aveva la possibilità di difendersi provando. Da una parte c'era il pm, che poteva interrogare e verbalizzare le dichiarazioni dei testimoni, e dall'altra l'avvocato aveva l'opportunità, diversamente dal passato, di interrogare e raccogliere le dichiarazioni dei testimoni".
Per spiegare, l'avvocato fa un esempio pratico: "Il pubblico ministero poteva andare sul luogo del delitto con i propri ausiliari del sopralluogo, medico legale, il biologo, e l'avvocato poteva fare altrettanto andare con i propri ausiliari. Tutto questo imponeva una nuova cultura".
Lo fermo, perché voglio capire il motivo per cui tutto questo non è accaduto. La prima risposta è sorprendente: "Perché il pubblico ministero, cioè colui che svolge il ruolo dell'accusa, non accetta una condivisione investigativa con l'avvocato".
E il giudice?, chiedo. "Il giudice, che non conosce il fascicolo processuale, conosciuto soltanto dal pm e dal difensore, dovrebbe essere terzo e imparziale, spettatore passivo anche nella fase dibattimentale, cosa che la prassi operativa ha completamente disconosciuto". Al fallimento di questa "Grande legge di civiltà giuridica" hanno contribuito però anche altri elementi.
"Noi avvocati prima di tutti", ammette Stefani, "che non siamo stati in grado di metabolizzare dal punto di vista culturale e operativo il nuovo ruolo che il codice ci assegnava, un ruolo che esaltava il diritto di difendere provando, senza stare in attesa dell'operato dei pm".
Ma qui c'è un'altra stampella che non ha sostenuto il nuovo processo, ed è l'Università che non ha diffuso un insegnamento pratico delle diverse attività di indagine utile per i futuri avvocati e magistrati. Questa è l'analisi. Chiedo a Stefani se c'è una soluzione. Ma è la stessa, fmo ad oggi disattesa: istituire in Italia una scuola, pubblica o privata, delle indagini difensive.
La sfiducia nella giustizia persisterà se non saranno affrontati i limiti culturali che impediscono il cambiamento radicale. Se continuiamo a trovarci davanti a sentenze di Cassazione che smentiscono accuse e sospetti ritenuti credibili nelle precedenti fasi del giudizio. "Il nostro processo penale di ispirazione accusatoria che ha oggi trenta anni", commenta Stefani, "è simile a quello dei paesi anglosassoni di common law nel quale vige il principio dello stare decisis e cioè il valore del precedente giudiziario. Nel nostro ordinamento giuridico questo principio non è stato recepito, per cui la Cassazione alterna decisioni in un senso e decisioni nel senso opposto. Tutto questo origina una incertezza della interpretazione della legge e una preoccupante situazione di incertezza della Giustizia".
Trent'anni sono passati inutilmente. Sono ancora numerosi i processi indiziari celebrati ogni armo in dibattimento (Corte d'assise, Tribunale) che invece, secondo le previsioni ottimistiche del legislatore, avrebbero dovuto essere una percentuale minima, nell'ordine del 10%, rispetto alla percentuale del 90%, dei processi definiti con i riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato.
Ne serviranno altri trenta per recuperare il ritardo? "Confido in una nuova generazione di giovani che sappia svolgere le nuove nobili funzioni di avvocati, pubblici ministeri e giudici che insieme, nel rispetto reciproco, sappiamo creare una giustizia più giusta per tutti. Credo fermamente in questo futuro che risolva la grave crisi della giustizia, oltre la quale, ne risentirà un beneficio risolutivo la crisi della politica e la crisi della società nella quale viviamo".
di Beppe Manni
Gazzetta di Modena, 1 novembre 2019
Pubblicazione interna per condividere i sogni di una nuova vita Trent'anni di Gruppo Carcere Città per rompere il muro della separazione. Intravvediamo il carcere di Sant'Anna, quando passiamo sulla tangenziale: una fortezza isolata alla periferia della città. Sappiamo che dentro ci sono i carcerati che "giustamente" scontano la loro pena per aver infranto le leggi.
Sono dentro al sicuro, protetti dalle sbarre per loro e per noi. Non suscitano in noi, cittadini per bene, nemmeno la pietà che siamo soliti spendere per i malati terminali, i profughi in balia delle Mediterraneo, i bambini affamati dei mondi lontani o i barboni. La loro pena, si è soliti pensare, se la sono voluta. Sgretolare queste sicurezze, rompere il silenzio che li circonda è un'operazione difficile. Il carcere di Sant'Anna è stato inaugurato nel 1991 e ha sostituito l'antico edificio di via Sant'Eufemia; ha una capienza di 369 detenuti ma al 30 settembre ne ospita 512 tra cui 31 donne (Dati del ministero di giustizia). Gli stranieri sono la maggioranza, 330. Provengono in ordine di numero dal Marocco, Tunisia, Albania, Romania, Nigeria ecc.
Eppure, da più di 30 anni il Gruppo Carcere e Città, fondato da Paola Cigarini, cerca di far cadere il muro che separa il carcere dalla città, ascoltando i carcerati e organizzando attività all'interno assieme ad altri volontari. Si lavora perché sia conosciuta all'esterno la situazione delle persone detenute, con iniziative pubbliche e articoli sui giornali. Si cercano vie alternative per il lavoro e l'inserimento nella società civile dei detenuti e finanche un dialogo tra chi ha commesso un reato e le vittime. Carcere che si apre alla Città dunque: una specie di ponte che unisce la "galera" alla cittadinanza. Perché non sia un'istituzione chiusa ma in qualche modo dialoghi con il territorio.
Nel carcere modenese è nata da qualche anno una sezione speciale che si chiama "Ulisse". Raccoglie una quarantina di ospiti che si sono resi disponibili a collaborare attivamente in diverse iniziative: scuola di inglese, teatro, corsi di formazione professionale, momenti ricreativi ecc. Da un po' di tempo con la direzione del volontario Pier Giorgio Vincenzi, è nato anche un giornale dal titolo appunto di "Ulisse", stampato in poche copie per parlare dei problemi interni. Da quest'anno ha fatto un salto di qualità. "Ulisse" diventa ufficialmente aperto a tutta la città. I carcerati raccontano se stessi e i problemi della loro detenzione per entrare in dialogo con la società. Ne vengono stampate un centinaio di copie ed è pubblicato, oltre che sul sito del Gruppo, anche all'interno del Giornale on-line MoCu Modena Cultura diretto dalla giornalista Valentina Fabbri. Il sottotitolo di questo primo numero è: "Diventare adulti in carcere".
Le testimonianze e i disegni raccontano la storia travagliata e sfortunata di dodici giovani e giovanissimi carcerati. Esprime il disagio di questi ragazzi che per una serie sfortunata di avvenimenti familiari e sociali sono entrati nella rete della delinquenza e non sono più riusciti a uscirne. Vorrebbero rifarsi una vita attraverso un lavoro, la ricongiunzione con la famiglia, una casa dove stare senza sentirsi bollati come lebbrosi. "14 anni di galera, me li sento sulle spalle. Non è facile stare dentro e più ci penso e più mi pento di quello che è successo.
Ho perso gli anni più belli della mia vita e non auguro a nessuno di non potersi permettere un sogno" (Karim Beradi). "Ho 18 anni, ci hanno tagliato le ali...vi prego vorrei poter uscire a fare un giro fuori" (Achraf Cherif). "Il recupero di un giovane non si ottiene con il carcere... lo distrugge per poi marchiarlo in modo indelebile. Bisognerebbe valutare nuove e diverse forme alternative, per renderlo consapevole dell'errore che ha commesso e del danno che ha arrecato..." (Farid e Marco). "Non so da dove cominciare ma so che sono cambiato da quando sono entrato in carcere, anche grazie a due miei amici che frequento nella sezione Ulisse. Il carcere serve se lo vuoi tu" (Ousama Lebbarà).
Giulio dopo avere raccontato la sua lunga storia iniziata a 19 anni: "Di fronte ad un adolescente è difficile dire quello che si deve fare ma vi dico... non lasciatevi trascinare per il solo brivido dell'illegale e dalla facilità della droga". "Con la nostra voce dal pianeta Carcere vogliamo fare capire alla gente fuori chi siamo veramente, come viviamo l'espiazione della pena e arriviamo a prendere coscienza dei nostri errori... abbiamo tanto da dare da raccontare e da insegnare..." (Dungaj Fatmir). "Sono Teki albanese rinchiuso nel carcere di Modena da un anno e sette mesi".
"Sono Alexander, un Rom, e mi trovo in carcere a Modena da 8 anni... avrei voluto essere diverso con un lavoro onesto e una casetta dove stare con la mia famiglia". Roberto scrive al sindaco di Modena: "In una realtà come quella di Modena... non è possibile che dentro il carcere non ci siano corsi specializzati... per aiutare i carcerati a cambiare stile di vita... occorre costruire un ponte offrendo occasioni per un cambiamento concreto per coloro che hanno sbagliato... condannati a pagare per sempre causa i pregiudizi della gente... Anche la spazzatura è diventata risorsa. Anche noi possiamo essere una risorsa economica.
Abbiamo a disposizione una enorme quantità di manodopera che no produce nulla. Il tempo da solo non guarisce". E conclude. "Signor sindaco, lei ha il dovere di preoccuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli rinchiusi in carcere". Il nuovo "Ulisse" viene ufficialmente presentato il 4 novembre alle ore 21 in via Morandi 71 a Modena, all'interno di una iniziativa curata da MoCu. Operation Jurassic. Si potrà sfogliare e portarlo a casa per leggerlo con calma.
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