di Iuri Maria Prado
Il Riformista, 5 novembre 2019
Come rovinare un bel lavoro. L'altro giorno, sul Corriere della Sera. la rubrica "Data-room" di Milena Gabanelli si occupava di detenzione carceraria, spiegando con una ottima teoria di documentazione statistica che l'Italia è tra i Paesi peggio messi nell'assicurare un lavoro ai prigionieri. E che per effetto di questa arretratezza si registrano qui da noi alti livelli di recidiva mentre altrove, nei sistemi in cui si ha cura di indurre i detenuti al lavoro, quelli che tornano a delinquere sono pochi. Si tratta di una verità spesso trascurata.
La dedizione a un mestiere, la possibilità di impararlo per metterlo a frutto durante e dopo la detenzione costituiscono un bene non solo per i condannati, che in tal modo possono affrontare con minor pena la desolazione quotidiana e sperare concretamente in un futuro fattivo e non abbandonato: ma rappresentano un'acquisizione certa anche per la società, ripagata così dalla garanzia che i pericoli di recidiva, grazie a quella diversa politica carceraria, diminuirebbero assai.
E ancora puntualmente il Corriere spiegava come tanti propositi di riforma rivolti ad attuare quella diversa politica non abbiano potuto prendere corso a causa delle resistenze di politici e amministratori timorosi di perdere consenso. Verissimo anche questo, e giustissimo denunciarlo. Ma allora perché rovinare questo bel servizio concludendolo con la considerazione aberrante che "in tutto questo, per Strasburgo il nostro problema più urgente è cancellare la legge che vieta i permessi premio agli ergastolani mafiosi"?
E infatti: che c'entra una cosa con l'altra? Ma poi: rimproveriamo alla Corte di aver denunciato una sola e non altre tra le tante ingiustizie che ci caratterizzano? E il rimedio migliore quale sarebbe: tenercele tutte? Non si limita l'ingiustizia lasciando che persista quella che non fa comodo eliminare (i giornali non meno dei politici sono cauti quando si tratta di consenso?. Peccato, dunque, per il Corriere. Speriamo di poter dire che sarà per un'altra volta.
di Valentina Maglione
Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2019
Cresce la rete degli avvocati che mettono il loro lavoro a disposizione della società. Si tratta delle attività "pro bono", vale a dire prestazioni professionali volontarie rese gratuitamente a favore di soggetti svantaggiati o di associazioni senza scopo di lucro. Un ambito in cui gli studi legali da sempre si muovono: in modo strutturato nel mondo anglosassone e più occasionale da noi.
Proprio con l'obiettivo di diffondere l'attenzione per le attività legali prestate gratuitamente gli avvocati si sono riuniti nell'associazione Pro Bono Italia: attiva dal 2014, è stata ufficialmente costituita nel maggio 2017. E adesso si prepara a celebrare la seconda edizione del Pro Bono Day, che si terrà a Milano dopodomani, mercoledì 6 novembre, presso lo studio Ashurst.
L'attività - "In due anni e mezzo - afferma il presidente di Pro Bono Italia, Giovanni Carotenuto - siamo passati da 13 a 29 associati ma possiamo contare su una rete di oltre 500 partecipanti. Registriamo un'attenzione crescente da parte dei giovani professionisti, inclusi i millennials". Nella rete di Pro Bono Italia ci sono 140 tra studi legali associati, associazioni forensi e singoli avvocati, 75 Ong, 13 grandi aziende, 9 cliniche legali (laboratori creati dalle università in cui gli studenti di diritto prestano assistenza e consulenza legale gratuite) e due clearing house.
Le due clearing house svolgono una funzione chiave per attivare il meccanismo di aiuto messo in campo dall'associazione. Istituite presso gli enti Cild (Coalizione italiana libertà e diritti civili) e Csvnet (Coordinamento nazionale dei centri di servizio per il volontariato), le clearing house hanno il compito di ricevere le richieste di assistenza legale, rifinirle e poi inoltrarle alla rete degli avvocati pro bono, per individuare chi assumerà l'incarico.
Dall'inizio dell'attività a oggi l'associazione ha preso in carico e soddisfatto 215 richieste di assistenza legale. "Per ora - spiega Carotenuto - gli avvocati della rete si occupano delle domande che arrivano da associazioni, Onlus e, in generale, enti del Terzo settore. Stiamo anche lavorando per mettere a punto le linee guida per occuparci delle richieste pro bono che arrivano da singoli individui. Si tratta infatti di una possibilità prevista nello statuto dell'associazione, ma non ancora attuata: le richieste delle persone in difficoltà vengono comunque già oggi inoltrate dalle clearing house agli enti del Terzo settore con cui sono in contatto che si occupano di quelle problematiche".
I settori di intervento - La stragrande maggioranza delle richieste di assistenza legale (più del 40%) ha riguardato l'assistenza agli enti e alle associazioni per redigere o aggiornare gli statuti oppure mettere a punto i contratti. Una quota più contenuta delle domande (l'8%) si è concentrata sul tema del trattamento dei dati e sulla revisione delle policy richiesta dal regolamento Ue Gdpr (2016/679) e un altro 4% ha interessato il diritto della proprietà intellettuale e il copyright. Il 15% circa delle domande ricevute dalle clearing house ha invece riguardato i diritti dei detenuti, il 5% l'applicazione della legge sulle unioni civili (76/2016) e il 3% quella della legislazione sulle droghe. Ancora: un 5% delle domande puntava a ottenere una consulenza che consentisse di evitare il contenzioso e l'1% ha riguardato i diritti religiosi.
Gli incontri - Oltre agli interventi diretti a favore degli enti del Terzo settore, l'associazione lavora in modo attivo per diffondere la cultura del pro bono organizzando periodicamente Roundtable. Si tratta di incontri tra avvocati, rappresentanti di Ong ed enti del Terzo settore, clearing house, accademici e legali d'impresa.
Ogni roundtable è l'occasione per la presentazione di nuovi enti, l'aggiornamento sui progetti in corso e l'organizzazione degli eventi in agenda. Il nucleo dell'associazione è nato proprio dall'Italian Pro Bono Roundtable, una rete informale di avvocati e associazioni lanciata nell'aprile del 2014 con l'obiettivo di incrementare la consapevolezza in materia di pro bono in Italia. Finora si sono tenute 31 roundtable e l'associazione continua a organizzarle ogni anno a Milano e a Roma.
Lezioni legali e un tutor per rifugiati e profughi
Un ciclo di lezioni che spaziano dalle norme che regolano l'immigrazione al diritto al lavoro e alla costruzione di un curriculum, da come muoversi per riprendere gli studi fino alla scrittura formale e alle tecniche di negoziazione. Sono i contenuti delle sessioni di formazione proposte ai rifugiati e ai richiedenti asilo che partecipano al progetto "Know your rights". Ideato dallo studio legale Dla Piper e realizzato insieme con l'ente Cild e con l'associazione Pro bono Italia, il progetto è arrivato alla terza edizione, avviata mercoledì scorso a Milano e articolata in sette incontri.
"Si tratta di un programma di empowerment legale totalmente gratuito che finora ha coinvolto 50 rifugiati o richiedenti asilo", spiega Claudia Barbarano, Community partnerships manager di Dla Piper. "L'obiettivo è fornire agli stranieri che arrivano in Italia le conoscenze legali di base e così renderli più consapevoli dei loro diritti".
Oltre agli incontri in aula, "Know your rights" offre ai rifugiati che lo chiedono l'affiancamento di un mentore individuale (avvocato o praticante di Pro Bono Italia) che li aiuti a elaborare e a realizzare un progetto per il loro percorso di vita: "Alcuni rifugiati - spiega Barbarano - hanno sostenuto l'esame di terza media, che è il primo passo per proseguire gli studi in Italia, altri sono riusciti a convertire il loro titolo di studio". "Know your rights" si è rivelato un'occasione non solo per i partecipanti ma anche per chi ci lavora: "Per l'organizzazione - precisa Barbarano - ci siamo fatti aiutare da rifugiati: una delle ragazze che l'ha fatto è stata ammessa all'Università di Cambridge".
di Errico Novi
Il Dubbio, 5 novembre 2019
L'ex procuratore di Roma torna a far valere la sua visione su Mafia Capitale, il togato Csm chiede limiti alla sentenza della Consulta sul 4bis: valutazioni che incidono sulla già scarsa fiducia nel sistema.
Non è un bel momento per la giurisdizione. In particolare non lo è per la magistratura, scossa con violenza dal caso Palamara, ma ancor più dall'effetto boomerang del processo mediatico: è tale la supremazia della giustizia virtuale rispetto a quella reale che quando le sentenze (o le mere ordinanze cautelari) non corrispondono alle aspettative del "pubblico", i giudici rischiano il linciaggio.
È avvenuto per esempio in processi per reati di violenza sessuale (a Roma) come per controverse vicende qual è stata la strage del Bus sul viadotto della Napoli-Bari. Adesso, se in un momento del genere magistrati della straordinaria levatura di Giuseppe Pignatone e Nino Di Matteo avanzano pur misuratissimi (almeno nel primo caso) distinguo su pronunce altrui, si rischia di veder ancor più compromessa la fiducia dell'opinione pubblica.
L'ex procuratore di Roma è tornato ieri dalle colonne della Stampa a rivendicare la propria visione su Mafia Capitale, con un non del tutto diradato margine di pur legittima divergenza dialettica dalla sentenza della Cassazione e da quella del Tribunale. Il togato del Csm Di Matteo avanza forti riserve, neanche tanto implicite, sulla decisione della più alta delle Corti che il nostro sistema giuridico conosca, ossia la Consulta: nel suo intervento di domenica a "Mezz'ora in più", intervistato da Lucia Annunziata, ha espresso il suo favore per una legge che limiti la decisione sull'ergastolo ostativo, quanto meno per i capimafia.
Non solo, perché il pm che ha sostenuto in primo grado l'accusa al processo sulla "trattativa" è arrivato a esprimersi su una vicenda tutt'altro che ininfluente rispetto al giudizio d'appello, ossia la condanna inflitta a Marcello Dell'Utri per aver mediato fra i boss e Berlusconi. Farlo proprio mentre il giudice di secondo grado deve valutare se Berlusconi sia stato vittima consapevole di un "ricatto mafioso" persino nella veste di Capo del governo non è il massimo del distacco, per un magistrato.
Pignatone e Di Matteo sono due grandi inquirenti. Hanno tratti diversi, ma lo stesso enorme peso. Sanno che le loro parole hanno un rilievo non comune. Le loro valutazioni dubitative (dialettiche, è meglio dire per Pignatone, ma a volte addirittura assertive nel caso di Di Matteo) sono tutt'altro che irrilevanti rispetto alla fiducia nella giurisdizione.
Il consigliere Di Matteo, in particolare, è davvero sicuro che, se un magistrato esprime "massimo rispetto" per una pronuncia della Consulta ma auspica comunque che il Parlamento la integri in modo da scongiurane effetti devastanti, non si accresca nell'opinione pubblica una pericolosa sfiducia nei confronti dell'intero sistema?
Il punto è che è proprio lo squilibrio fra la giustizia mediatica e l'assai più indebolita giustizia dei Tribunali ad alimentare la diffidenza dei cittadini. Non si può ignorare il problema, anche perché la tenuta della giurisdizione quale sistema per definire, in diritto, ogni possibile contrasto è una delle architravi che reggono l'intera democrazia.
Se s'incrina quel contrafforte, rischia di franare l'intera architettura civile che ci siamo dati. E a picconare provvedono populismi di ogni genere. Il cuore del pericolo è nella possibilità che tra i cittadini cresca l'idea di un allarme permanente. L'incubo per una giustizia - sociale, penale - troppo debole per fronteggiare il nemico. Sia quando quest'ultimo ha le fattezze della corruzione sia se si tratta di mafia.
E invece lo scatto che può ravvivare la coscienza civile contro ogni deriva e ogni qualunquismo è la serena fiducia nella giustizia come baluardo che respinge ogni minaccia. E ancora, è essenziale che si diffonda un'altra consapevolezza: ossia che lo Stato, come dicono i radicali, non ha alcun bisogno di emulare la "terribilità" dei più feroci criminali. Ma che può garantire persino a loro una prospettiva di recupero, persino a chi è stato condannato all'ergastolo ostativo per mafia o terrorismo. Così come è giusto considerare prezioso un sistema composto da tre gradi di giudizio, a volte estenuante nel sottoporre la verità processuale a una verifica così lunga, eppure capace di distinguere l'Italia come cattedrale del diritto.
Come il luogo in cui a costo anche di percorsi più faticosi l'accertamento giudiziario è accompagnato da ogni possibile garanzia, e lo Stato attende con tenacia di poter dare giustizia, senza mai ricorrere a binari alternativi neppure per il più tremendo dei nemici, perché se ne considera in ogni caso incomparabilmente più forte.
garantenazionaleprivatiliberta.it, 5 novembre 2019
Oggi, martedì 5 novembre, l'Università degli Studi Roma Tre nel corso di una cerimonia pubblica conferirà la laurea honoris causa in Giurisprudenza a Mauro Palma, attuale Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, la più giovane Autorità indipendente del Paese, operativa dal 2016, e l'unica alla quale sia stata affidata una competenza in materia di tutela dei diritti umani.
Palma è uno dei maggiori esperti a livello internazionale in tema di lotta alla tortura e delle diverse forme di privazione della libertà, in ambito non solo penale. Fondatore dell'Associazione Antigone; componente, e poi Presidente, del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti (Cpt), organo del Consiglio d'Europa, è di formazione matematico, un campo nel quale ha prodotto numerose pubblicazioni, fra le quali nel 2013, con Valter Maraschini, la Garzantina della Matematica. Le altre componenti del Collegio del Garante, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, unitamente a tutto l'Ufficio del Garante, esprimono le proprie sincere felicitazioni al Presidente Palma per il prestigioso e meritato riconoscimento.
di Michele Franco
contropiano.org, 5 novembre 2019
La gestione del sistema carcerario italiano è sempre più imperniata da una governance che espunge, continuamente, ciò che residua di quelle norme e principi costituzionali che, almeno sulla carta, garantivano la prevalenza degli "elementi umanitari" e di "reinserimento nella società civile" a scapito delle concezioni penali e punitive tipiche dell'universo concentrazionario.
Le cronache di questi ultimi anni, lungo tutto l'arco dei temi e questioni, che afferiscono al "pianeta giustizia" indicano una linea di condotta tutta esposta verso l'accentuazione dei caratteri della blindatura e della trasformazione autoritaria. I ripetuti scandali che, periodicamente, si consumano in questi ambienti e - soprattutto - la recrudescenza di episodi di accertate violenze psichiche e fisiche ai danni di detenuti sono lo specchio fedele di questa generalizzata condizione.
È di questi giorni una Nota, trasmessa dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (numero 0318577 del 22.10.2019) al Ministero della Giustizia e alle sigle sindacali del corpo di Polizia Penitenziaria, denominata "Schemi di decreti legislativi correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle forze di polizia", in cui viene ribadita la nuova collocazione della Polizia Penitenziaria all'interno della catena di comando e controllo degli istituti carcerari.
Nella sostanza, in tale Nota, viene ribadita che la Polizia Penitenziaria non deve essere subordinata gerarchicamente al direttore del carcere. Inoltre, sempre a detta di questa Nota, il comandante d'istituto (ossia il capo delle guardie) non deve rispondere, automaticamente, alla direzione amministrativa del carcere ma può e deve avere una propria autonomia di decisione e di azione.
Tale modalità - come evidente - toglie potere reale ai direttori per trasferirli ai comandanti della Polizia Penitenziaria con tutte le conseguenze che derivano da una scelta di questo tipo sia dal punto di vista della "filosofia di gestione" ma anche delle modalità attuative che scaturiscono da simili mutamenti di indirizzo e di pianificazione del lavoro di polizia.
Tra le rarissime voci che si sono espresse contro questo ulteriore atto di "militarizzazione della giustizia" c'è quella del Garante Campano dei Detenuti, Samuele Ciambriello, il quale ha denunciato "il preoccupante ritorno ad una idea di carcere chiuso gestito solo dalla polizia". Inoltre Ciambriello ha palesato: "Il ripresentarsi di un modello di pura custodia, vigilare per redimere, altro che incentivare la speranza, promuovere la risocializzazione e il reinserimento dei detenuti".
Una denuncia, questa del Garante dei Detenuti della Campania, che non ha trovato eco adeguato nel panorama dell'informazione vigente il quale assorbe - sempre più - gli istinti all'odio, alla diffusione della paura e del linciaggio verso quelle variegate figure sociali, particolarmente nelle grandi aree metropolitane, vittime della marginalità e dell'esclusione sociale. Ben venga - dunque - la Manifestazione Nazionale del prossimo 9 novembre, a Roma, dove la sacrosanta richiesta di Abolire la vergogna dei Decreti Sicurezza deve essere accompagnata da una campagna culturale, politica e sociale contro la crescente militarizzazione della società ed il complesso delle misure che limitano le libertà ed il loro esercizio.
Vita, 5 novembre 2019
Fino ad oggi un ragazzo con un genitore in carcere era messo dinanzi a una scelta obbligata: far visita al genitore significava essere segnato assente a scuola. Ora una circolare del MIUR riconosce la possibilità alle scuole di considerare quelle assenze come deroghe giustificate rispetto alla frequenza obbligata per non perdere l'anno
Assente da scuola per poter far visita a un genitore o a un parente in carcere. La nuova circolare emanata dal Miur sulle assenze scolastiche dei figli delle persone detenute introduce questo motivo fra quelli per cui i Collegi docenti posso disporre motivate deroghe alla frequenza di almeno tre quarti dell'orario annuale necessaria per l'ammissione alla classe successiva.
Tra i motivi precedentemente previsti c'erano ad esempio i gravi motivi di salute adeguatamente documentati, donazioni di sangue, terapie e/o cure programmate, partecipazione ad attività sportive e agonistiche organizzate da federazioni riconosciute dal Coni, motivi religiosi.
"Con la circolare appena emanata si guarda, finalmente - sottolinea la Sottosegretaria all'Istruzione, Università e Ricerca, Lucia Azzolina - anche alle esigenze degli alunni e degli studenti figli, o parenti entro il secondo grado, di persone detenute e alle assenze che sono costretti a fare per andare in visita dai loro cari.
Normalmente queste assenze vengono comprese nel monte ore annuale complessivo e spesso concorrono al raggiungimento della soglia massima consentita, mettendo a rischio l'anno scolastico di questi ragazzi. Una beffa. Soprattutto se si considera il fatto che in molti istituti di pena il giorno del ricevimento è stabilito in modo rigido, non cade necessariamente nel fine settimana e si può determinare, di conseguenza, una reiterazione delle assenze".
La circolare invita le scuole a porre particolare attenzione alla condizione di questi alunni e a inserire fra le possibili deroghe relative alle assenze anche queste visite, qualificandole come "ricongiungimento temporaneo e documentato al genitore sottoposto a misure di privazione della libertà personale".
La circolare è stata sollecitata dalla sottosegretaria, anche su segnalazione del collega parlamentare Raffaele Bruno (entrambi M5S), impegnato in un tour nelle carceri alla scoperta delle buone pratiche e dei laboratori teatrali che - ha annunciato Azzolina - "saranno oggetto di una specifica mozione di cui sarà primo firmatario".
di Francesco La Licata
La Stampa, 5 novembre 2019
Il dibattito innescato dalla sentenza della Cassazione sulla cosiddetta "mafia a Roma" - che nega al consorzio criminale di Buzzi e Carminati i requisiti di una vera e propria Cosa nostra - sembra aver riaperto una di quelle "annose questioni" che credevamo archiviate dopo il maxiprocesso di Palermo e dopo le numerose inchieste seguite alle stragi in Sicilia (1992) e nel Continente (1993).
L'apporto tecnico-giudiziario fornito alla cultura dell'Antimafia da Falcone, da Borsellino e dal pool antimafia, infatti, sembrava aver colmato quel gap secolare della magistratura, che aveva contribuito a rendere la mafia una organizzazione potente e impunita. Sembrava tramontato il tempo in cui i magistrati, specialmente quelli della Corte Suprema, esercitavano il loro giudizio basandosi esclusivamente sulle carte asettiche, tenendosi a debita distanza dal "contesto" (soprattutto sociale e ambientale) che caratterizzava le vicende mafiose.
Quasi scontato, dunque, che risultassero meno comprensibili a Roma, comportamenti e fatti che ai magistrati impegnati nel territorio dove avvenivano sembravano chiari e persino provati. Consequenziali, perciò, le numerose assoluzioni in Cassazione che stravolgevano i primi gradi di giudizio. Insomma, la mafia è un fenomeno difficile da capire per chi non l'ha affrontata e studiata, fino ad assimilarne le misure di contrasto più idonee quasi come un vaccino. E a Roma, prima del processo a Buzzi e Carminati, la mafia veniva vissuta come un fenomeno lontano e irripetibile fuori dal suo territorio.
Ieri, sulla Stampa, il presidente del Tribunale della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone (fino a poco tempo fa capo della Procura di Roma e titolare del processo sul "mondo di mezzo"), ha provato a chiarire proprio questo semplice concetto: Roma non è mafiosa ma è un territorio dove agiscono più consorterie mafiose, ciascuna con le proprie attitudini e caratteristiche. Quella di Buzzi e Carminati è una mafia invasiva nei confronti della pubblica amministrazione e quindi tendente ad affermare una supremazia della corruzione. Certo, non è la Cosa nostra siciliana, col suo preponderante controllo capillare del territorio, ma è un sistema, come altri nella Capitale, che si afferma col metodo della violenza e della intimidazione.
"Basta chiedere - ha scritto Pignatone - agli abitanti di Ostia o delle altre zone della Capitale o del Lazio che ne subiscono la forza intimidatrice". Proprio la capacità di determinare assoggettamento e omertà con l'intimidazione e la violenza è una delle "qualità" proprie del sistema mafioso. E il non frequentissimo ricorso alla violenza (pochi omicidi, poco rumore di armi da fuoco) non sempre è sintomo di assenza mafiosa: una telefonata di Carminati che dice "ti conosco e so dove abiti" può aver l'effetto di una pistola puntata alla testa.
Persino in Sicilia il ricorso alla violenza veniva accettato come "estrema ratio" e non come abitudine naturale. I siciliani sono stati spesso tacciati di omertà per aver taciuto perché intimiditi da minacce o solamente da uno sguardo eloquente. Ma questo è il potere del mafioso. C'è un aneddoto, raccontato da Andrea Camilleri, che spiega bene cos'è un uomo d'onore. Lo scrittore incontra casualmente un boss italo-americano e gli chiede di spiegargli cosa fosse mai un mafioso.
Il boss gli risponde con un esempio: "Se ora entra uno armato di pistola e ci impone di inginocchiarci, noi non abbiamo scelta e dobbiamo ubbidire. Ma quello non è un mafioso è solo un delinquente. Se, invece, entra un tranquillo signore disarmato e noi due ci inginocchiamo e gli baciamo la mano, abbiamo incontrato un vero mafioso". Esattamente come spiegava Michele Greco al maxiprocesso: "Signor presidente, la violenza non fa parte della mia tradizione".
di Guido Camera
Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2019
Respinta la questione sollevata a La Spezia ma ne arriva una da Milano. Il reato di lesioni stradali colpose gravi e gravissime, nell'ipotesi "base" dell'articolo 590-bis, comma del Codice penale, rimane procedibile d'ufficio. Lo ha stabilito la Consulta, con la sentenza 223 del 24 ottobre, respingendo la questione sollevata dal Tribunale di La Spezia.
Ma non finisce qui: analoga questione è stata sollevata dal Tribunale di Milano, su ulteriori elementi di potenziale irragionevolezza che derivano dalla mancata previsione della procedibilità a querela per i casi in cui l'incidente derivi da una violazione del Codice della strada "semplice", e non da una di quelle più gravi previste dai commi 2, 3,4 e 5 dell'articolo 590 bis (abuso di alcol o droghe, velocità eccessiva, inversione di marcia e sorpassi azzardati, attraversamento di intersezioni stradali con semaforo rosso).
La Consulta ha deciso sul caso di un automobilista accusato di lesioni stradali colpose gravi per mancata precedenza a un motociclista, che non aveva sporto querela. La procedibilità di ufficio aveva tuttavia reso inevitabile il processo: il giudice aveva allora sollevato l'incostituzionalità del Dlgs 36/2018, sostenendo che il Governo avesse violato la delega dell'articolo i, comma i6, lettera a) della legge 103/2017, che aveva previsto la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con pena inferiore a quattro anni, esclusi i casi in cui la persona offesa sia incapace per età o infermità.
Il Tribunale aveva richiamato il parere della commissione Giustizia della Camera sul primo schema del Dlgs, che sollecitava il Governo ad adottare la procedibilità a querela, perché la condizione di incapacità della vittima, in cui conservare la procedibilità d'ufficio, era riferita solo ai casi di vulnerabilità antecedente al comportamento dell'imputato, da questi sfruttata per commettere il reato.
Per la Consulta, il Governo ha adottato "una interpretazione non implausibile": il ritorno alla procedibilità a querela si sarebbe posto "in aperta contraddizione con la scelta, compiuta appena due anni prima, dal Parlamento (...) di prevedere la procedibilità di ufficio di tutte le fattispecie di lesioni stradali". Ma i giudici delle leggi riconoscono come "la formula normativa utilizzata dal legislatore delegante sia in radice ambigua": non è chiaro se l'incapacità debba essere antecedenti al delitto o possa anche esserne conseguenza.
Si attende ora la decisione sulla questione milanese, che evidenzia altri profili: ipotesi di colpa lieve (una banale distrazione) e danno non grave (una lesione guaribile in meno di due mesi) sono trattate come una lesione gravissima (la perdita di un arto) causata da chi guida sotto l'effetto di droghe.
A ciò si aggiunga che "nella normalità le lesioni riportate a seguito di un impatto tra (o con) veicoli in nulla compromettono la capacità di autodeterminazione della vittima". Quindi, se c'è colpa generica, "subordinare le esigenze risarcitorie della vittima alla celebrazione del procedimento penale non frustra solo" i suoi interessi, "ma si risolve altresì in un irragionevole dispendio di risorse processuali". E sono stati depositati, a Camera e Senato, disegni di legge per ripristinare la procedibilità a querela per l'ipotesi "base": anche ciò pare un segnale di volontà del legislatore da non sottovalutare.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 5 novembre 2019
Una vicenda tutta ancora da chiarire, ma che ha creato numerose indignazioni a partire dagli esponenti di governo e le vittime della mafia come la sorella di Giovanni Falcone. Ma nel contempo aumenta la preoccupazione degli attivisti per i diritti umani circa una ulteriore restrizione per chi visita il carcere per denunciare eventuali abusi o condizioni afflittive come il 41bis.
Ieri mattina è stato tratto in arresto, insieme con altre 4 persone, con l'accusa di "associazione mafiosa", Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani ed è stato collaboratore per circa quattro mesi della deputata di Italia Viva Pina Occhionero. In virtù di tale rapporto, infatti, Nicosia ha partecipato ad alcune ispezioni carcerarie parlamentari, potendo accedere all'interno delle carceri di Sciacca (Ag), Agrigento, Trapani e Tolmezzo (Ud) senza la preventiva autorizzazione del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e ciò sfruttando le prerogative riconosciute dalle norme sull'ordinamento carcerario ai membri del Parlamento e a coloro che li accompagnano.
Una collaborazione volta alle visite in carcere. Tra le varie accuse mosse dalla procura di Palermo c'è quella di aver recapitato fuori dal carcere dei messaggi provenienti da alcuni boss mafiosi con cui aveva parlato durante le visite effettuate assieme a Occhionero.
La deputata, ex esponente di Liberi e Uguali, non è indagata perché, secondo la procura, non sapeva niente delle presunte attività mafiose di Nicosia. Quest'ultimo ha 48 anni ed è originario di Sciacca, in provincia di Agrigento.
Conduceva un programma intitolato Mezz'ora d'aria sulla tv locale AracneTV dove approfondiva temi inerenti soprattutto alle condizioni carcerarie. Ultimamente si era occupato della situazione degli internati al carcere di Tolmezzo, tema più volte approfondito da questo giornale, riportando le interrogazioni parlamentari effettuate proprio dalla deputata Occhionero e, ultimamente, la relazione del Garante nazionale delle persone private della libertà che ne evidenziava le numerose criticità.
Non per ultimo, sempre su Il Dubbio è stata riportata la vicenda - denunciata dal suo avvocato Michele Capano - dell'internato Filippo Guttadauro, cognato del super latinante Mattea Messina Denaro, il quale ha denunciato alla magistratura di sorveglianza di aver ricevuto la proposta, da taluni soggetti istituzionali, dei soldi in cambio delle informazioni per la cattura del latitante.
Ma ritorniamo ad Antonello Nicosia. Dall'ordinanza di custodia cautelare, emerge che Nicosia ha fatto battute infelici su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In una intercettazione si lamenta del nome dell'aeroporto di Palermo, intitolato ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e definisce le loro morti "incidenti sul lavoro".
Avrebbe fatto un riferimento al latitante Matteo Messina Denaro, definendolo "primo ministro". La procura, in pratica, accusa Nicosia di essersi costruito un'immagine pubblica di attivista per i diritti dei detenuti con lo scopo di mascherare le sue attività che favorivano diversi boss mafiosi. Oltre alla trasmissione dei messaggi, Nicosia è accusato di aver "portato avanti l'ambizioso progetto di alleggerire il regime detentivo speciale di cui all'art. 41bis o di favorire la chiusura di determinati istituti penitenziari".
Secondo la procura, dalla realizzazione di questo progetto Nicosia si aspettava un compenso economico addirittura da Matteo Messina Denaro. Questa specifica accusa, però, appare fumosa. La battaglia contro il 41bis è legittima ed è portata avanti in maniera trasparente da alcuni movimenti politici e associazioni che si occupano dei diritti umani. Difficile credere che Nicosia, abbia così tanto potere, da dover condizionare le scelte governative sul 41bis.
Le accuse comunque sono gravissime. Secondo la Procura, Nicosia apparterrebbe a pieno titolo al clan mafioso e si sarebbe impegnato per la realizzazione di un non meglio delineato progetto che interessava direttamente da Messina Denaro, dal quale, per l'opera svolta, si aspettava di ricevere un ingente finanziamento non ritenendo sufficienti i ringraziamenti che asseriva di avere ricevuto dallo stesso latitante. Oltre a lui è finito in cella anche il boss Accursio Dimino.
Secondo i magistrati, Nicosia non si sarebbe limitato a fare da tramite tra i detenuti e le cosche, ma avrebbe gestito business in società proprio con il boss Dimino, con cui si incontrava abitualmente, il quale ha fatto affari coi clan americani, in particolare i Gambino, e riciclato denaro sporco. Da alcune intercettazioni emergerebbero anche progetti di omicidi e Nicosia stesso era in procinto di raggiungere gli Usa.
Resta però l'interrogativo sulle visite e colloqui riservati con i boss. È possibile? Tecnicamente, il fatto che Nicosia potesse svolgere visite e colloqui riservati con i boss negli Istituti penitenziari, appare però di difficile comprensione poiché le visite e le interlocuzioni con i detenuti, a qualunque regime o circuito penitenziario essi appartengano, non sono riservate ma debbono essere effettuate alla costante presenza del personale di Polizia penitenziaria delegato dall'Autorità dirigente. Possibile che abbia avuto la possibilità di svolgere i colloqui riservati? E se sì, chi gliel'avrebbe permesso?
di Conchita Sannino
La Repubblica, 5 novembre 2019
I giornali casertani "contigui": arriva l'archiviazione per lo scrittore. La "contiguità ad ambienti camorristici" di alcuni giornali, come l'ex Corriere di Caserta, non era un'invenzione diffamatoria di Roberto Saviano, ma un'osservazione connotata da "intrinseca obiettività e veridicità". Così la giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Paola Di Nicola, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Eugenio Albamonte, archivia l'ipotesi di diffamazione nei confronti dello scrittore di Gomorra e dell'allora direttore di Repubblica, Ezio Mauro.
La partita si era chiusa ad aprile, ma l'ordinanza è stata acquisita nelle ultime ore. Saviano e Mauro erano finiti sotto accusa della società Libra Editrice che, ritenutasi al centro di "campagne diffamatorie a mezzo stampa", aveva spinto l'amministratore unico Pellegrino Notte, nel novembre del 2015, a presentare querela.
Il servizio di Repubblica incriminato (pubblicato sul giornale in edicola e sul web) era uscito il 25 settembre, due mesi prima: Saviano, affermava nell'articolo che quelle testate, allora edite da Libra, erano "contigue alle organizzazioni criminali, fungono da loro uffici stampa, sono organo di propaganda dei messaggi tra clan". L'ordinanza del gip smonta l'accusa di diffamazione, fa sua questa ricostruzione, e quindi respinge l'opposizione degli avvocati di Notte alla richiesta del pm.
Per la prima volta il giudice assume la fondatezza di tali dichiarazioni citando due fatti concreti. Da un lato la vicenda Palmesano, il cronista di fatto licenziato dal giornale perché i suoi servizi disturbavano il boss Lubrano; dall'altro, la relazione della commissione antimafia del 2015, in cui si dà conto del divieto di diffondere in carcere "alcuni quotidiani, tra cui il Corriere di Caserta", per evitare che i detenuti per camorra "potessero ricevere messaggi dall'esterno".
In particolare, la gip Di Nicola cita la sentenza, già ricordata anche da Saviano nel suo servizio, "emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di Francesco Cascella- è scritto nell'ordinanza - per il reato di violenza privata (aggravata dalla modalità mafiosa) per avere questi, in concorso con Vincenzo Lubrano, capo dell'omonimo clan, costretto Gianluigi Guarino, (all'epoca dei fatti direttore del Corriere di Caserta, oggi Cronache di Caserta) ad omettere di pubblicare gli articoli di Palmesano : in quanto sgraditi al clan".
Un risultato ottenuto - aggiunge ancora il Gip - "con la progressiva emarginazione e poi con il definitivo esautoramento del Palmesano, di fatto avvenuto per volontà del capo clan Lubrano". La conseguenza, chiosa il Gip, è chiara: "aver fatto dipendere la linea editoriale del giornale dai desiderata di un clan camorristico". Commenta l'avvocato Antonio Nobile, che ha assistito lo scrittore : "Difendo Saviano da molti anni, ma mai mi era capitato di leggere tanto espressamente in un provvedimento giudiziario di una contiguità dei sopracitati quotidiani ad ambienti camorristici. Mi pare un fatto davvero rilevante che interroga l'intera categoria dei giornalisti, non solo campani. Molti dei quali impegnati silenziosamente e quotidianamente in prima linea".
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