di Clirim Bitri
Ristretti Orizzonti, 20 febbraio 2015
"Uno in meno", "Ottimo speriamo abbia sofferto"... e così via, questi i commenti su Facebook di alcuni Agenti al suicidio di un ergastolano nel carcere di Opera. Io che sono detenuto non ho provato Odio o Rabbia verso questi soggetti, ma soltanto un grande senso di pietà, ho provato pietà per il loro livello di cultura, pietà per la loro stupidità, per la loro mancanza di umanità.
Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2015
Sulla vicenda degli insulti via Facebook a un detenuto suicida da parte di agenti della polizia penitenziaria "ho firmato 16 provvedimenti cautelari di sospensione e ho concordato con il direttore del personale l'avvio del procedimento disciplinare". Così il capo del Dap Santi Consolo, dopo l'incontro avuto con il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Confermata dunque la linea del massimo rigore e delle immediate contromisure, annunciata da Consolo ieri pomeriggio, appena diffusa la notizia dei commenti ingiuriosi sui social per la morte del detenuto.
Asca, 20 febbraio 2015
"La Polizia penitenziaria è mortificata per quanto è successo e continueremo a muoverci su questa linea positiva: ho avviato una circolare che richiama tutti gli appartenenti al dipartimento ai doveri propri del Corpo e già oggi ho inviato una missiva per implementare e continuare l'attività di formazione sulla deontologia".
di Lorenzo Maria Alvaro
Vita, 20 febbraio 2015
Dopo il caso che ha visto agenti penitenziari schernire su Facebook un detenuto suicida interviene Luigi Manconi, presidente dell'Associazione "A buon diritto" che sottolinea: "La causa di tutto è il sovraffollamento. Oggi ci sono 10mila detenuti di troppo. E stanno aumentando vertiginosamente i suicidi tra i poliziotti"
di Riccardo Arena
www.ilpost.it, 20 febbraio 2015
"Uno di meno", "ottimo, speriamo abbia sofferto", "mettere a disposizione più corde e sapone". Questi i commenti scritti da alcuni agenti della polizia penitenziaria e apparsi su una pagina Facebook della stessa polizia penitenziaria. Commenti relativi al suicidio di Joan Gabriel Barbuta, che si è impiccato venerdì scorso nel carcere Opera di Milano utilizzando un lenzuolo. "Uno di meno".
Non certo un caso isolato, visto che, nel mese di gennaio, commenti analoghi e sempre scritti da agenti di Polizia penitenziaria sono apparsi su un'altra pagina di Facebook, chiamata "Solidarietà ai poliziotti penitenziari aggrediti in carcere", quando a suicidarsi è stato Bartolomeo Gagliano detenuto nel carcere di Sanremo.
Le solite "mele marce" da isolare e sanzionare? No. È l'ennesima dimostrazione di come oggi il carcere sia ridotto a un canile abbandonato. Un canile, il peggiore, dove custodi e custoditi subiscono le conseguenze quotidiane dello stesso degrado, comportandosi di conseguenza e in modo simile. Il cane abbaia rabbioso per quella gabbia fatiscente e il custode lo picchia selvaggiamente. Esattamente ciò che avviene oggi negli istituti penitenziari, con l'unica differenza che gli agenti possono scrivere su Facebook e i detenuti ovviamente no.
Dunque, non carceri, ma canili che ospitano detenuti e agenti. Canili dove i detenuti disprezzano gli agenti e dove gli agenti disprezzano i detenuti. Canili senza legge e dove tutto è consentito. Lo svilimento della persona e della vita, la violenza, la commissione di reati e l'impunità. E cosa è questo se non la conseguenza di un intero sistema penitenziario del tutto illegale che è collassato su se stesso?
Inutile sanzionare qualche agente disgraziato per quei commenti sul detenuto suicida, come vuole il Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Come ipocrita sarebbe ignorare che anche tra i detenuti c'è chi gioisce per la morte di un agente.
Più serio e onesto sarebbe capire che oggi si lasciano vivere delle persone, agenti e detenuti, in condizioni bestiali. Più serio e onesto sarebbe capire il profondo degrado in cui versano le nostre carceri, ridotte a dei canili illegali, e individuare soluzioni concrete ed efficaci per far tornare la legalità e il decoro negli istituiti di pena. Ma, purtroppo, non c'è da illudersi. Se il carcere è ridotto a un canile, chi ha la responsabilità di governare il sistema penitenziario è ridotto all'inconsapevolezza ed è incline alla superficialità.
di Mauro Leonardi
www.ilsussidiario.net, 20 febbraio 2015
Ad Opera, un uomo di 39 anni, un rumeno, si suicida in carcere per essere stato condannato all'ergastolo, e alcuni - pochi - agenti di polizia penitenziaria scrivono su Facebook commenti vergognosi: "Meno uno", "Un rumeno in meno". Una storiaccia. Ci sarà un'inchiesta. Ci saranno dei colpevoli. Ci saranno condanne. Per ora c'è un morto e persone felici che lo sia. E l'orrore aggiunto è che queste persone sono deputate alla custodia di uomini come quello che si è ammazzato. Questa è la notizia di cronaca.
La prima cosa che mi viene in mente è che abbiamo un nuovo deterrente contro la criminalità. Non è la virtù, non è la fede, non è la scuola, non è la famiglia: è la paura di cosa ti aspetta se finisci dentro. Luogo di detenzione, certo. Ma anche luogo di recupero. Se un nostro figlio sbaglia - sbaglia grosso e finisce in galera - di cosa dobbiamo avere paura? Del male che ha fatto? Del dolore che ha procurato? Sarebbe solo giusto, normale. Ma se devo aver paura di cosa gli accadrà lì dentro, c'è qualcosa che non va. So che è una prigione, non sto parlando della privazione di diritti. Parlo della privazione di umanità.
Ciò che c'era su Facebook è stato cancellato come certe scritte indecenti sui muri, e hanno fatto bene. E io sono qui che non so da che parte rivoltare la notizia per cercare di scusare le guardie: lo stress di un lavoro logorante come quello della guardia penitenziaria, può giustificare frasi da aguzzini? Vorrei fosse una domanda retorica, a cui si sa come rispondere.
Leggo alcune giustificazioni che dicono addirittura essere necessario avere un "core nero" per fare questo lavoro. Davvero per fare l'agente penitenziario devi avere nel curriculum il "core nero"? Un agente di custodia non è un impiegato qualunque. Tutti i lavori sono una vocazione, ma alcuni di più. Se il cuore è nero, dico, non occuparti di vite macchiate perché avrai bisogno di forza ma non violenza. Vicino a un un uomo debole ce ne vuole uno forte, non uno cattivo. Se mio figlio fosse un assassino vorrei che accanto gli stesse un uomo, non un "core nero".
Non è civiltà questa, non è umano questo. Dire, come giustificazione, che per fare la guardia ci vuole un "core nero" vuol dire essere complici, vuol dire preparare il terreno di cultura della violenza.
La forza di una civiltà si vede da come difende i deboli, non da come si arrende ai forti. Una civiltà vera ha una cultura che non tocca i deboli ma li custodisce. I deboli, sia chiaro, non sono solo gli innocenti e non sono solo quelli di una razza. Un delinquente, un assassino a cui hanno appena dato l'ergastolo, è debole. Più debole di chi ha le chiavi della sua cella.
Non tanto tempo fa Papa Francesco ha parlato dell'ergastolo dicendo che andava abolito perché era come una pena di morte "nascosta". Forse quell'uomo di 39 anni sapeva di cosa stava parlando il Papa, ma le guardie lo sapevano?
No. A guardare facebook, quelle guardie - quelle guardie di custodia - parevano festeggiare. Se perdessi qualcosa che dovevo custodire mi sentirei male, non festeggerei. Ma quelle guardie sapevano di custodire qualcosa? E allora perché non sanno di aver perso qualcosa? Un romeno, non è un uomo? Un ergastolano, non è un uomo? Chi siamo quando entriamo in galera? Se non puoi permetterti un avvocato decente per rendere meno pesanti i tuoi sbagli, cosa succede? C'era una risposta a queste domande tra i post di Facebook di quegli agenti? Spero che nei loro "cori neri" ci sia una risposta, se non bianca, almeno grigia.
di Valter Vecellio
Notizie Radicali, 20 febbraio 2015
Leggo i commenti (tutti giusti, tutti puntuali, tutti condivisibili) a quelle che vengono definite "frasi choc" apparse su un sito web di un sindacato di agenti di polizia penitenziaria di cui pochissimi o nessuno fino a ieri conosceva l'esistenza, a commento della notizia del suicidio di un detenuto romeno ("Si è ucciso? Bene, uno di meno").
Frasi imbecilli scritte da cretini, di quelle che si possono sentire, purtroppo, salendo su un autobus o al mercato. Perché almeno, una volta, il cretino aveva pudore e cura di tenerla un po' occultata, la sua cretinaggine. Oggi, al contrario, la palesa, compiaciuto e tronfio. Poi ci sono i Matteo Salvini, che non giustifica, ma capisce. Gli si può credere a metà, e neppure tanto.
Hanno ragione, Luigi Capece ("Il Garantista"), e Massimo Gramellini ("La Stampa"); Luigi Pagano (intervista a "Repubblica") e Michele Serra ("Repubblica"), Luigi Manconi e il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Quei commenti sono una vergogna per tutti gli agenti della polizia penitenziaria; "agenti di custodia che tradiscono non solo la propria uniforme, ma anche quel poco o quel tanto di civiltà che resta in quel deposito di carne umana che sono le carceri italiane"; "barbarie", "inqualificabili comportamenti", "episodio intollerabile". Tutto giusto, puntuale, condivisibile.
Si può poi aggiungere, mutuando un detto popolare, che si raccoglie quello che si è seminato?
L'8 ottobre 2013 l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per la prima e unica volta nei suoi nove anni al Quirinale invia un messaggio alle Camere. Al centro la questione della giustizia e delle carceri. Un messaggio solenne, di quelli previsti dalla Costituzione, un testo di alta politica, quella merce rarissima in Italia, che si occupa e preoccupa di "governare" gli avvenimenti e le cose.
Un prezioso documento con analisi, proposte, indicazioni di lavoro. Quel documento, inviato al Parlamento è stato considerato, letteralmente, carta straccia. Il presidente del Senato, la presidente della Camera, i capigruppo avrebbero avuto l'obbligo di dibattere quel documento, di avviare un confronto, magari di respingerlo in toto o in parte.
Invece, nulla; come se non fosse stato mandato. Non un parlamentare su quasi mille che sono che abbia alzato la mano in apertura di seduta, per porre la questione e chiedere spiegazione di questo comportamento. Non un giurista che abbia fatto presente e commentato quanto accaduto. Non un giornale che abbia pubblicato il testo del messaggio presidenziale.
No, non è vero, qualcuno c'è stato: i radicali che hanno assunto quel documento come loro programma politico per le settimane a venire; e Marco Pannella che dalla "Radio Radicale" non si stanca di sottolineare e rimarcare l'importanza di quel testo. Che nessuno ha pubblicato, su cui nessun confronto è stato avviato; di cui nessuno degli innumerevoli talk show e programmi di approfondimento si è occupato. Vogliamo vederlo, quel testo?
"Se mi sono risolto a ricorrere ora alla facoltà di cui al secondo comma dell'articolo 87 della Carta, è per porre a voi con la massima determinazione e concretezza una questione scottante, da affrontare in tempi stretti nei suoi termini specifici e nella sua più complessiva valenza", scrive Napolitano.
"Parlo della drammatica questione carceraria... l'Italia viene a porsi in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale per le tantissime violazioni di quel divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti che la Convenzione europea colloca accanto allo stesso diritto alla vita. E tale violazione dei diritti umani va ad aggiungersi, nella sua estrema gravità, a quelle, anche esse numerose, concernenti la durata non ragionevole dei processi...
...Sottopongo dunque all'attenzione del Parlamento l'inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all'Italia dalla Corte di Strasburgo: esse si configurano, non possiamo ignorarlo, come inammissibile allontanamento dai principi e dall'ordinamento su cui si fonda quell'integrazione europea cui il nostro paese ha legato i suoi destini.
Ma si deve aggiungere che la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale. Le istituzioni e la nostra opinione pubblica non possono e non devono scivolare nell'insensibilità e nell'indifferenza, convivendo - senza impegnarsi e riuscire a modificarla - con una realtà di degrado civile e di sofferenza umana come quella che subiscono decine di migliaia di uomini e donne reclusi negli istituti penitenziari. Il principio che ho poc'anzi qualificato come "dovere costituzionale", non può che trarre forza da una drammatica motivazione umana e morale ispirata anche a fondamentali principi cristiani...
E vengo ai rimedi prospettati o già in atto. Per risolvere la questione del sovraffollamento, si possono ipotizzare diverse strade, da percorrere congiuntamente.
Ridurre il numero complessivo dei detenuti, attraverso innovazioni di carattere strutturale quali: 1) l'introduzione di meccanismi di probation. A tale riguardo, il disegno di legge delega approvato dalla Camera e ora all'esame del Senato, prevede, per taluni reati e in caso di assenza di pericolosità sociale, la possibilità per il giudice di applicare direttamente la "messa alla prova" come pena principale. In tal modo il condannato eviterà l'ingresso in carcere venendo, da subito, assegnato a un percorso di reinserimento;
2) la previsione di pene limitative della libertà personale, ma "non carcerarie". Anche su questo profilo incide il disegno di legge ora citato, che intende introdurre la pena - irrogabile direttamente dal giudice con la sentenza di condanna - della "reclusione presso il domicilio";
3) la riduzione dell'area applicativa della custodia cautelare in carcere. A tale proposito, dai dati del Dap risulta che, sul totale dei detenuti, quelli "in attesa di primo giudizio" sono circa il 19%; quelli condannati in primo e secondo grado complessivamente anch'essi circa il 19%; il restante 62% sono "definitivi" cioè raggiunti da una condanna irrevocabile. Nella condivisibile ottica di ridurre l'ambito applicativo della custodia carceraria è già intervenuta la legge n. 94 del 2013, di conversione del decreto legge n. 78 del 2013, che ha modificato l'articolo 280 del codice di procedura penale, elevando da quattro a cinque anni di reclusione il limite di pena che può giustificare l'applicazione della custodia in carcere;
4) l'accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine...
5) l'attenuazione degli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l'ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione carceraria; in tal senso un primo passo è stato compiuto a seguito dell'approvazione della citata legge n. 94 del 2013, che ha anche introdotto modifiche all'istituto della liberazione anticipata. Esse consentono di detrarre dalla pena da espiare i periodi di "buona condotta" riferibili al tempo trascorso in "custodia cautelare", aumentando così le possibilità di accesso ai benefici penitenziari;
6) infine, una incisiva depenalizzazione dei reati, per i quali la previsione di una sanzione diversa da quella penale può avere una efficacia di prevenzione generale non minore...
Tutti i provvedimenti, di cui ritengo auspicabile la rapida definizione, appaiono parziali, in quanto inciderebbero verosimilmente pro futuro e non consentirebbero di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea. Ritengo perciò necessario intervenire nell'immediato con il ricorso a "rimedi straordinari".
Considerare l'esigenza di rimedi straordinari: la prima misura su cui intendo richiamare l'attenzione del Parlamento è l'indulto, che - non incidendo sul reato, ma comportando solo l'estinzione di una parte della pena detentiva...Ritengo necessario che - onde evitare il pericolo di una rilevante percentuale di ricaduta nel delitto da parte di condannati scarcerati per l'indulto, come risulta essere avvenuto in occasione della legge n. 241 del 2006 - il provvedimento di clemenza sia accompagnato da idonee misure, soprattutto amministrative, finalizzate all'effettivo reinserimento delle persone scarcerate, che dovrebbero essere concretamente accompagnate nel percorso di risocializzazione. Al provvedimento di indulto, potrebbe aggiungersi una amnistia...
Ritengo che ora, di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e all'imperativo - morale e giuridico - di assicurare un "civile stato di governo della realtà carceraria", sia giunto il momento di riconsiderare le perplessità relative all'adozione di atti di clemenza generale...
A ciò dovrebbe accompagnarsi l'impegno del Parlamento e del Governo a perseguire vere e proprie riforme strutturali - oltre le innovazioni urgenti già indicate in questo messaggio - al fine di evitare che si rinnovi il fenomeno del "sovraffollamento carcerario". Il che mette in luce la connessione profonda tra il considerare e affrontare tale fenomeno e il mettere mano a un'opera, da lungo tempo matura e attesa, di rinnovamento dell'Amministrazione della giustizia. La connessione più evidente è quella tra irragionevole lunghezza dei tempi dei processi ed effetti di congestione e ingovernabilità delle carceri... confido che vorrete intendere le ragioni per cui mi sono rivolto a voi attraverso un formale messaggio al Parlamento e la natura delle questioni che l'Italia ha l'obbligo di affrontare per imperativi pronunciamenti europei. Si tratta di questioni e ragioni che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria e della politica per la giustizia". Il Parlamento come (non) sappiamo, ha risposto con gelida indifferenza, con offensiva volontà di non fare.
Un sogno: che il presidente Sergio Mattarella riprenda il messaggio del presidente emerito Napolitano e lo faccia suo, inviandolo nuovamente al Parlamento.
Secondo sogno: che i parlamentari oggi indignati per le frasi choc di alcuni cretini, chiedano ai presidenti del Senato e della Camera, e ai loro capigruppo di discutere e dibattere quel messaggio.
Terzo sogno: che i commentatori indignati e tutti noi si chieda che quel programma politico delineato e descritto in quel documento presidenziale sia attuato; e se lo si respinge perché, e cosa si propone e offre in alternativa.
Quarto sogno: che ai cittadini di questo paese sia consentito di conoscere, sapere, poter valutare.
È troppo? Vogliamo provare, almeno, a porci la questione del perché questi sogni sono destinati a restare tali? E se si può fare, e cosa, perché non restino tali? Potrebbe essere la migliore risposta alle corbellerie e alle scempiaggini di quei cretini che non vanno perdonati, anche se non sanno quello che dicono e scrivono.
P.S.: dall'inizio dell'anno siamo arrivati a dodici detenuti morti; sei i suicidi.
www.diariodelweb.it, 20 febbraio 2015
Dopo i commenti feroci sul web, da parte di sedicenti agenti, a proposito del suicidio di un detenuto nel carcere milanese di Opera, l'On. Daniele Farina, parlamentare di Sel, ha rilasciato un'intervista per DiariodelWeb.it.
Sul profilo Facebook dell'Alsippe (Alleanza Sindacale della Polizia Penitenziaria), sono comparsi commenti feroci da parte di sedicenti agenti, a proposito del suicidio di un detenuto nel carcere milanese di Opera. Le frasi sono state subito cancellate, ma hanno lasciato un ricordo indelebile sui social network e acceso un forte dibattito nazionale. La Lega Nord si è rifiutata di rilasciare interviste sulla questione, dichiarando esplicitamente che si tratta di un silenzio assenso in comunione con le frasi postate. L'On. Daniele Farina, parlamentare di Sel, ha invece rilasciato un'intervista per DiariodelWeb.it.
Qual è la posizione di Sel in merito alle frasi comparse sul profilo Facebook dell'Alsippe?
"Non qualifico le frasi, perché non sono qualificabili. Ma il problema non è il bon-ton: il problema è che, ancora una volta, si evidenzia nel corpo della - pur ottima - polizia penitenziaria italiana una cultura che non sempre corrisponde al senso del lavoro loro demandato. Si tratta certamente di un impegno di grande responsabilità, esercitato in condizioni veramente difficili, ma questo tipo di cultura è incompatibile col corpo della polizia penitenziaria, indipendentemente dalle sigle di appartenenza. Mi permetto di rilevare che questo è solo l'ultimo di tanti casi che hanno acceso un campanello d'allarme.
È vero che il Parlamento, dopo la condanna dell'Italia da parte della Corte dei diritti umani, è più volte intervenuto sulla materia, e che la situazione delle carceri - per quanto riguarda il sovraffollamento - è migliorata, però permane una situazione molto grave. È per questo che Sel ha chiesto, con un progetto di legge, di istituire una commissione parlamentare d'indagine sulle morti in carcere."
Questa mattina, il segretario generale del Sappe ha dichiarato a DiariodelWeb.it che le condizioni in cui la polizia penitenziaria è costretta a lavorare sono pessime: turni più lunghi rispetto al contratto nazionale, straordinari non pagati e personale ridotto. Mancano all'appello circa settemila agenti. Si sentono abbandonati dall'Amministrazione, dalle Istituzioni e dal mondo politico: cosa rispondete a questo appello?
"Quello che dice il segretario generale del Sappe penso lo possano dire tutte le sigle della polizia penitenziaria italiana, ma anche quelle di altri corpi dello Stato. Io faccio parte di un partito che è all'opposizione: la principale critica che abbiamo mosso a questo governo è che le riforme non si fanno a costo zero. È chiaro che non si possono fare le riforme senza mettere risorse a disposizione, ma anzi traducendo una riduzione del sovraffollamento con una riduzione dei costi dell'amministrazione. Tuttavia, questa ragionevole obiezione (da parte del segretario generale del Sippe) non può occultare il fatto che ci siano culture che non hanno titolo di stare nelle delicate funzioni in cui stanno. Non vale solo per la polizia penitenziaria: pensiamo anche alla vicenda di Aldrovandi. Io credo che ci siano un insieme di problematiche, ma resta il fatto che in quella posizione delicatissima del custode sul custodito certe culture non hanno il diritto di stare."
E quali sono le proposte di Sel per migliorare queste problematiche?
"Noi abbiamo agito sulla base di uno spettro molto ampio di provvedimenti che sono arrivati. Ci prendiamo il merito di aver agito anche sulle problematiche relative alla situazione carceraria, perché a noi è sembrato ovvio che il sovraffollamento, cioè l'esplosione della popolazione detenuta, abbia una causa precisa: la data di origine è il 2006-2007, quando il Testo unico sugli stupefacenti venne approvato nella versione promossa dal centrodestra. È stato inefficace dal punto di vista della repressione del narcotraffico, ma anzi ha avuto come effetto collaterale negativo quello di riempire le carceri italiane per reati di modestissima gravità. Credo che in questo senso siano stati fatti dei passi decisivi, passi tuttavia compiuti a metà: noi avremmo agito più profondamente, anche col ricalcolo automatico della pena per coloro che sono ancora detenuti in base ad una norma giudicata incostituzionale. Se avessimo agito prima, come Sel chiedeva da tempo, la situazione sarebbe oggi migliore e nulla sarebbe accaduto alla sicurezza dei cittadini: perché uno dei dati più chiari è quello che dimostra che non vi è alcuna relazione tra il tasso di carcerazione di un paese e la sicurezza dei suoi cittadini. Significa che non è vero che più carcere si infligge, più i cittadini sono al sicuro. Credo che Sel su questo abbia fatto un bel lavoro, un lavoro coraggioso; ma, purtroppo, ci sono all'interno del governo - ora come prima - componenti che frenano su provvedimenti che potrebbero essere decisivi".
www.poliziapenitenziaria.it, 20 febbraio 2015
Facile, troppo facile adesso per i vertici del Dap diramare roboanti comunicati stampa sulle indagini e sui possibili, esemplari, provvedimenti disciplinari che saranno intrapresi nei confronti di quei colleghi della Polizia Penitenziaria che hanno scritto commenti inqualificabili su Facebook, riguardo il suicidio avvenuto nei giorni scorsi nel carcere di Milano Opera, da parte di una persona detenuta.
Perché con pari solerzia, il Ministro della Giustizia, il Governo e il Parlamento, non dovrebbero a loro volta indagare e mettere in campo tutti i provvedimenti normativi e disciplinari nei confronti dei vertici del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (presenti e soprattutto passati) che sono i principali, e più colpevoli, responsabili dello sfascio del sistema penitenziario padre, a mio avviso, di quelle gravi esternazioni che hanno gettato discredito su tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria.
Ciò nondimeno la responsabilità, penale e disciplinare, è personale e come tale dovrà essere valutata, procedendo (mi auguro) con le adeguate singole sanzioni; ma se un gruppo di persone appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria si lascia andare a commenti del genere (e non è certo la prima volta che fatti simili avvengono e non sono sempre e solo questi i colleghi che si sono lasciati andare ad analoghe dichiarazioni), non siamo solo davanti ad un manipolo di stolti o di persone incapaci di valutare le possibili ricadute delle proprie parole, sia sul piano personale che su quello collettivo, ma siamo di fronte ad un problema culturale che deriva da pesanti responsabilità per la carenza di formazione del personale, prima, e che, poi, vanno alla deriva in dissennate carenze di controllo e di indirizzo su certe dinamiche che i vertici del DAP non possono non aver osservato in precedenza. E se non sono stati capaci di osservarle, allora sono ancora più colpevoli.
Mentalità militare e carenze sulla formazione
In conseguenza dell'abolizione della leva obbligatoria del servizio militare nelle Forze Armate italiane, per evitare una drastica carenza di arruolamenti volontari nell'Esercito, nella Marina, nell'Aeronautica, con una forzatura normativa si è proceduto a vincolare l'arruolamento nel Corpo di Polizia Penitenziaria, alla permanenza da uno a quattro anni in una delle Forze Armate.
Questo artificio legislativo, ha comportato qualche problema di passaggio da un Corpo Militare ad una Forza di Polizia ad ordinamento civile, quali la Polizia di Stato e il Corpo Forestale, e comporta tutt'ora notevoli problemi di adeguamento del paradigma culturale per un ragazzo formato in un ambiente militare e proiettato dopo pochi mesi di formazione in un ambito penitenziario assolutamente sui generis, con indosso l'uniforme della Polizia Penitenziaria, che non esito a definire una delle più difficili professioni praticabili per l'enorme gamma di competenze e capacità umane e professionali da introiettare e mettere in pratica ogni giorno.
In questo quadro, già di per se problematico, si sono andati ad aggiungere provvedimenti di dimezzamento del periodo di formazione professionale, praticata con procedure di emergenza che, se riproposte e protratte da svariati anni, evidentemente hanno a che fare più con l'incapacità dei Ministri della Giustizia e dei vertici del Dap di programmare e pianificare idonee soluzioni alla cronica carenza d'organico della Polizia Penitenziaria, che non con reali ed eccezionali calamità naturali sopraggiunte all'improvviso.
Oltremodo, non può essere un caso che, più di una volta negli anni passati, per tutte le altre Forze di Polizia ad ordinamento sia civile che militare, si è proceduto ad arruolamenti in deroga ai limiti imposti dalle varie Leggi finanziarie, mentre gli stessi limiti sono stati pedissequamente rispettati per la Polizia Penitenziaria decretando e peggio, aggravando, la "cronica" carenza d'organico del Corpo.
Per non parlare, poi, dell'omesso controllo sulle disposizioni di indirizzo impartite dal centro verso la periferia, con Circolari tanto puntuali quanto inapplicabili sul piano della reale quotidianità della vita d'Istituto (vedi ad esempio la Circolare sui dischi colorati di verde, giallo e rosso da assegnare a ciascun detenuto), che hanno portato, negli anni, ad un sostanziale distacco del Dap dalle sue diramazioni periferiche, costringendo il personale di Polizia Penitenziaria (ancora di più di quanto non avvenisse nei decenni precedenti) a divenire esperto indiscusso nell'antica arte dell'arrangiarsi.
Questa sostanziale incapacità della figura del Capo del Dap di avere il polso della situazione (si consideri la vergognosa ammissione del Ministro Cancellieri sulla ignoranza delle reali capacità detentive delle carceri italiane), e la reale capacità di incidere nelle scelte e nei comportamenti dei sottostanti livelli decisionali, hanno reso di fatto completamente autonomi i Provveditorati regionali dell'amministrazione penitenziaria che oggi, possono decidere ed attuare scelte interpretative come meglio credono, adottando spesso decisioni che vanno contro gli interessi del personale di Polizia Penitenziaria (non da ultimo le discordanti scelte e i diversi criteri e tempi attuativi delle Circolari sui rimborsi degli alloggi a disposizione dei colleghi penitenziari).
Per non parlare, infine, della assoluta mancanza di controllo (da parte del Dap e dei Prap) nei confronti dei Direttori penitenziari che pure sono stati chiamati a predisporre urgenti corsi di formazione, volti a diffondere e mettere in pratica le disposizioni dipartimentali sull'importante tema della cosiddetta "sorveglianza dinamica" e regime di "detenzione aperta" dei detenuti.
Come conseguenza, questo importante momento di aggiornamento professionale, che pure è stato considerato uno dei cardini principali dei miglioramenti della situazione detentiva in Italia, è stato ancora una volta lasciato al caso e alla buona volontà di singoli Direttori e Comandanti di Reparto delle carceri.
Benessere del personale
La maggior parte delle scelte e delle disposizioni impartite dalla Direzione Generale del Personale e della Formazione del DAP, sono andate verso una direzione costrittiva e peggiorativa delle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria. Se ormai sono diventate famose le Circolari sul comportamento e l'atteggiamento da assumere nei confronti dei superiori gerarchici al momento del saluto... non si conosce alcuna iniziativa che possa alleviare le difficili condizioni abitative (e conseguentemente familiari) di tutto quel personale proveniente dalle Regioni del sud Italia e che invece presta servizio nelle carceri del nord Italia. Tale personale presta servizio da decenni senza avere la benché minima certezza sui tempi e sulle regole (che il Dap adotta in un modo eufemisticamente definibile "poco trasparente") sul delicato tema dei distacchi e trasferimenti tra le diverse sedi dell'amministrazione penitenziaria.
Se è vero che il Dap adotta di continuo convenzioni e protocolli d'intesa per migliorare (sulla carta) le condizioni detentive e le possibilità di reinserimento sociale delle persone detenute, nessun accordo è stato mai assunto in modo centralizzato, preventivo e pianificato, per risolvere i problemi di alloggio e residenza agevolata per il Corpo di Polizia Penitenziaria. Alle tante richieste di attenzione il Dap ha risposto con un ridicolo numero verde di cui peraltro, dopo un singolo lancio di comunicato stampa, si sono perse ormai le tracce.
Il Dap inoltre non si rende conto dell'estremo segnale di disagio che proviene dall'incredibile mole di provvedimenti disciplinari elevati a migliaia di Poliziotti penitenziari ogni anno (più di ottantamila). Provvedimenti disciplinari che, anche se spesso vengono derubricati a sanzioni minori, creano un clima di sospetto e avversità nei confronti delle procedure amministrative dipartimentali considerate meramente punitive.
Ad aggravare la situazione, poi, c'è l'indiscutibile fatto che analoga fermezza non viene applicata a quei detenuti che commettono minacce ed aggressioni nei confronti dei Poliziotti penitenziari che subiscono quotidianamente attacchi fisici e psicologici anche gravi. Due pesi e due misure che finiscono per acuire ancora di più la tensione e il rancore nei confronti dell'amministrazione e della "popolazione detenuta".
Elevazione professionale e responsabilità dei dirigenti
Uno dei più grandi paradossi del Corpo è che la stragrande maggioranza dei Poliziotti penitenziari (ventiseimila) ricopre la qualifica di "Assistente Capo", che si consegue automaticamente dopo quindici anni di servizio privi di sanzioni disciplinari gravi. Ai ruoli e qualifiche superiori si può accedere solo attraverso concorso pubblico o interno. Nonostante però le gravissime carenze d'organico nel ruolo dei Sovrintendenti e nel ruolo degli Ispettori, le procedure concorsuali non vengono portate avanti in modo pianificato ed efficiente e quando anche si riesce a proseguire nell'iter amministrativo, i Dirigenti del Dap spesso adottano criteri e decisioni che danno inizio a ricorsi amministrativi che quasi sempre vedono il Dap soccombere di fronte ai diversi gradi di giudizio della giustizia amministrativa.
Tuttavia, nessun provvedimento disciplinare è stato mai intrapreso nei confronti di quei Dirigenti che ricoprono le stesse cariche da decenni, né gli stessi Dirigenti sono stati semplicemente ed opportunamente spostati in Uffici diversi.
Si prenda ad esempio il Concorso "esterno" da Vice Ispettore di Polizia Penitenziaria indetto con Bando pubblico del 2002 e conclusosi solo nel dicembre 2014, dove sono state commesse gravi inadempienze, omissioni ed errori da parte dei Dirigenti del Dap, senza che vi sia stato alcun provvedimento disciplinare da parte dei livelli amministrativi superiori e senza che nemmeno il livello politico sia mai riuscito a porre argine di fronte a quello che, di fatto, è diventato "un livello dirigenziale di mezzo", immune da qualsiasi sanzione e/o controllo.
Ultimamente poi, il recente decreto che ha ridefinito le piante organiche della Polizia Penitenziaria, ha ulteriormente decurtato il ruolo degli Ispettori di settecento unità per consentire invece l'incremento di novecento unità nel ruolo degli Agenti/Assistenti, a costo zero per lo Stato.
Appare del tutto evidente come l'incremento di Poliziotti penitenziari, conseguente a questo artificio contabile, va a scapito della capacità del Corpo di dotarsi di figure di "concetto" e di "coordinamento", indispensabili al dispiegamento di una efficace catena di comando che parte dai Commissari e arriva fino agli Agenti neo assunti.
Questo ulteriore sbilanciamento verso il basso, arginato dalla "diga naturale" della qualifica di Assistente Capo, congiunto alla carenza dei Sovrintendenti e degli Ispettori, acuisce ancora di più il divario tra Commissari e Agenti. A questo va aggiunta l'ormai annosa questione del mancato riallineamento delle posizioni giuridiche ed economiche tra i Sovrintendenti, gli Ispettori e i Commissari di Polizia Penitenziaria con le analoghe figure delle altre Forze di Polizia che, manco a dirlo, sono peggiori nella prima, rispetto alle seconde.
Immagine pubblica e ruolo sociale
Il termine "secondino" di per sé non è dispregiativo così come non lo è l'appellativo "agente di custodia". La differenza la fa il contesto in cui tali termini vengono usati. Attualmente, questi si ispirano a quel retaggio culturale di antica memoria in cui i "carcerieri" (altro termine simbolico) venivano associati a comportamenti afflittivi ai limiti della tortura.
Pur tuttavia, se però da un lato il Corpo di Polizia Penitenziaria, dal 1991 ad oggi, ha saputo crescere con le sole proprie forze in termini professionali ed umani, analogo sforzo non è stato intrapreso dal DAP per far conoscere e comprendere all'opinione pubblica tale elevazione culturale e operativa.
La mancata adozione da parte del Dap di un Piano della Comunicazione (che pure è obbligatorio per tutte le amministrazioni pubbliche) e la mancata selezione di personale adeguatamente formato che presti servizio negli Uffici deputati alla diffusione dell'immagine pubblica del Corpo di Polizia Penitenziaria, vengono considerati una ulteriore mancanza di sensibilità da parte del Dap nei confronti dei Poliziotti penitenziari che, oltretutto, costituiscono in termini numerici la stragrande maggioranza dei dipendenti dell'amministrazione penitenziaria.
Quasi tutte le "energie umane ed economiche" del Dap vengono spese per divulgare quelle iniziative a favore dei detenuti, acuendo ancora di più la frustrazione del personale di Polizia Penitenziaria, che percepisce il Dap e i suoi Dirigenti come amministratori più propensi ai bisogni dei detenuti che del personale di Polizia.
La vicenda del caso Cucchi, ad esempio, ha messo in luce tutte le carenze e le inadeguatezze del settore della comunicazione pubblica del Dap che non ha saputo minimamente arginare l'ondata di sdegno e di accuse pregiudizievoli nei confronti dell'intero Corpo di Polizia Penitenziaria. Quand'anche fosse stata accertata la responsabilità personale dei colleghi del Tribunale di Roma sul decesso di Stefano Cucchi (che oltretutto sono stati totalmente scagionati da qualunque responsabilità diretta o indiretta), ormai il danno di immagine derivante da una campagna stampa che non è stata in alcun modo arginata né dall'Ufficio stampa del Ministero della Giustizia, né tantomeno dall'Ufficio stampa del Dap, è stato fatto e chissà per quanto tempo fornirà un appiglio mnemonico in tutte quelle persone che non hanno né il modo né il tempo di approfondire il complesso mondo penitenziario e che il Dap non tenta nemmeno di raggiungere con adeguati strumenti di "comunicazione di massa".
Dichiarazioni choc nei confronti dei suicidi delle persone detenute
In verità, nessuno degli argomenti fin qui esposti può essere preso a giustificazione delle parole scritte dai colleghi su Facebook riguardo il suicidio avvenuto nel Carcere di Milano Opera nei giorni scorsi. Tutto quanto raccontato, però, potrebbe quantomeno contribuire ad inquadrare il motivo per cui un limitatissimo numero di Poliziotti penitenziari (di volta in volta quando avvengono casi analoghi), liberi dal servizio e in ambiti probabilmente (e in modo maldestro) ritenuti "familiari" e "riservati", si lancino in commenti a dir poco inadeguati al ruolo che si ricopre in ogni momento della propria vita quotidiana, così come è anche previsto dal Regolamento del Corpo.
Ed ora, al di là della legittimità degli eventuali procedimenti disciplinari, Il fatto che oggi il Dap si prodighi in comunicati stampa, dichiarazioni ed interviste e prometta "pugno di ferro" contro i trasgressori, non può che acuire ancora di più il senso di frustrazione dell'intero Corpo di Polizia Penitenziaria, soprattutto alla luce del fatto che in passato il Dap, quando c'era da tutelare il Corpo di Polizia Penitenziaria da accuse infamanti provenienti dall'esterno, si è girato dall'altra parte e si è adagiato su posizioni e dichiarazioni del tipo "lasciamo fare alla Magistratura". Dichiarazioni che nell'immaginario collettivo, sono una mezza ammissione di colpevolezza. Accertare le responsabilità e punire con gli adeguati provvedimenti i responsabili di questo danno di immagine al Corpo di Polizia Penitenziaria è giusto, ma è anche opportuno valutare e intraprendere le necessarie correzioni (avvicendamenti e rotazioni d'Ufficio) per chi in tutti questi anni, ha causato, ha tollerato o ha semplicemente sottovalutato questi sentimenti di rancore nei confronti delle persone detenute, nei confronti del proprio lavoro e nei confronti dei propri (maggiormente responsabili) superiori gerarchici.
di Giambattista Anastasio
Il Giorno, 20 febbraio 2015
"No, cari miei, non ho fatto nessuna stupidaggine! Chi lotta per il proprio Paese dovrebbe essere cento volte più forte, sono sorpreso che non ci siamo ancora organizzati in migliaia per andare a inforcare tutti i cialtroni che con arroganza e cupidigia campano alle nostre spalle e ci riempiono la vita di spese!".
Nessun segno di pentimento. E tiene a farlo sapere sulla sua bacheca Facebook, del tutto pubblica: non è necessario aver stretto la virtuale amicizia per poterla consultare. Torna sul luogo del "delitto", l'agente della polizia penitenziaria. Proprio su un'altra pagina Facebook, quella dell'"Alleanza sindacale della polizia penitenziaria", aveva postato il commento dello scandalo: "Consiglio di mettere a disposizione più corde e sapone".
Un consiglio rivolto a chi come lui lavora in carcere. Così aveva voluto commentare la notizia del suicidio del detenuto rumeno Ioan Gabriel Barbuta, 40 anni, condannato all'ergastolo nel 2013 per un omicidio commesso sei anni prima e infine impiccatosi in cella ad Opera solo venerdì sera.
Un commento che, insieme ad un'altra ventina dello stesso tenore, ha provocato, nell'ordine, l'apertura di un'indagine interna da parte del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap), un incontro tra il capo dello stesso Dipartimento, Santi Consolo, e il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, la trasmissione di un rapporto in Procura e, ieri, la sospensione dei 16 poliziotti penitenziari individuati come gli autori dei post apparsi sul web.
Scrive, l'agente in questione, qualche ora prima che le sospensioni fossero ratificate. Ma poco importa la consecutio temporum, poco sarebbe cambiato a giudicare dal tenore del nuovo post. Si spiega, l'agente, certo. Ma, soprattutto, rilancia. "Nel caso mi stiate controllando dopo i commenti al vetriolo sul mostro (già, il mostro ndr) che si è impiccato in carcere, ho un messaggio per voi...": questo l'incipit.
"Non sono diverso da tante altre persone, lavoro, mangio e penso quanto sia duro far funzionare le cose, ogni giorno e ogni notte dormo con un occhio aperto perché non mi sento al sicuro, mia moglie dice che ho fatto una cazzata...". Ecco, allora, il rilancio, intriso di un risentimento che va oltre la vita all'interno del carcere. Ce l'ha con tutti, l'agente. "No, cari miei, non ho fatto nessuna stupidaggine! Chi lotta per il proprio Paese dovrebbe essere cento volte più forte, sono sorpreso che non ci siamo ancora organizzati in migliaia per andare a inforcare tutti i cialtroni che con arroganza e cupidigia campano alle nostre spalle e ci riempiono la vita di spese!".
Quindi il monito: "State attenti! Io non sono un sintomo di disagio, sono uno di quei pericolosissimi uomini che non vogliono subire! Forse qui intorno ce ne sono altri". Infine, il post scriptum: "Invece di perdere tempo con me, tenete d'occhio quelli che si muovono invisibili al di sopra delle regole, non usano il telefono, hanno auto con targhe straniere o rubate e in questo momento girano anche intorno a casa vostra...".
Un riferimento, questo, proprio alla vicenda di Barbuta: secondo quanto emerse dall'inchiesta, il rumeno uccise perché sorpreso mentre tentava di rubare l'auto di quella che sarebbe poi diventata la sua vittima, l'agricoltore padovano Guerrino Bissacco.
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