di Mario Consani
Il Giorno, 3 gennaio 2020
Nel capoluogo lombardo già meno del 5% dei processi viene cancellato dopo la sentenza di primo grado per colpa degli anni. Tanto rumore per (quasi) nulla. Saranno pochi, pochissimi, sempre di meno i processi interessati a Milano dalla norma entrata in vigore il primo gennaio, che cancella la prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Intanto una premessa: in base alle statistiche del ministero di Giustizia su scala nazionale, di 100 processi che si prescrivono, 60 lo fanno durante la fase delle indagini preliminari, perdendosi cioè negli affollatissimi armadi delle procure. Nel distretto di Milano, dove le prescrizioni erano in tutto circa 8 mila l'anno, stando al dato fornito dal presidente della Corte d'appello Marina Tavassi all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2019 la percentuale relativa alla fase delle indagini sale addirittura all'83%.
Dunque, osservava Tavassi, solo il restante 17% di tutte le prescrizioni avviene davanti a un giudice. In primo grado (Gup o Tribunale che sia) la media è del 10% del totale. L'appena introdotta abolizione della prescrizione riguarda in definitiva una fetta davvero minima dell'enorme torta dei procedimenti penali.
Quanti? Sempre nella sua relazione in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2019, giusto un anno fa, Tavassi definiva la percentuale di prescrizioni del 2018 "in continua diminuzione" e pari al 4,5% di tutte le sentenze d'appello pronunciate: in termini assoluti appena 384 su quasi 8 mila verdetti di secondo grado. E quali sono i processi che di solito si prescrivono in appello?
Quelli delle "manette ai potenti" come sostengono nei loro spot i promotori della legge che ha cancellato la prescrizione, o quelli più lievi e poco significativi come ribattono gli avvocati penalisti? Statistiche milanesi non ce ne sono, ma è il codice a imporre alle corti d'appello la corsia d'urgenza per i processi da celebrare: e lì dentro a Milano scorrono veloci (e di fatto mai a rischio prescrizione) tutti i processi con imputati detenuti, poi quelli di criminalità organizzata, quelli per i reati contro la pubblica amministrazione, quelli contro donne e bambini e in materia di ambiente e lavoro.
In pratica, tutti i reati più gravi. A riprova indiretta che, almeno a Milano, erano a (scarso) rischio prescrizione solo quelli minori. Resta però il problema di principio. E su quello le opinioni divergono. Luca Poniz, pm milanese e presidente del sindacato delle toghe (Anm), osserva che in molti sistemi giudiziari la prescrizione non c'è nemmeno e dunque "non si tratta di un problema di civiltà giuridica".
Anche i magistrati, tuttavia, avrebbero preferito una soluzione diversa: cancellare la prescrizione ma solo quando l'imputato in primo grado venga condannato, mantenendola invece dopo una sentenza di assoluzione. "Non ci possono essere condizioni intermedie - sostiene invece Andrea Soliani, presidente della Camera penale di Milano - è il principio del processo "eterno" che viene introdotto a non poter essere accettato. È un principio di inciviltà giuridica".
Il Messaggero, 3 gennaio 2020
"Essere madri, oltre la pena". Le donne detenute della sezione nido della Casa Circondariale femminile di Rebibbia davanti e dietro l'obiettivo per raccontare cosa vuol dire oggi crescere un figlio in carcere in una mostra fotografica. Sarà inaugurata lunedì 13 gennaio, nella Casetta Koinè di Rebibbia, a Roma.
La mostra "Essere madri, oltre la pena" è il risultato finale di un laboratorio fotografico educativo, formativo ed emotivo, ideato e portato avanti per tre mesi dalla fotografa Natascia Aquilano e dall'educatrice Luciana Mascia, in collaborazione con l'associazione Onlus ProPositivi, appositamente dedicato alle madri detenute della sezione nido di Rebibbia e ai loro bambini.
"Il progetto - spiegano le organizzatrici - è nato dall'esigenza di non voler ignorare uno dei bisogni primari del bambino: il rapporto con la propria madre, che in una struttura penitenziaria viene inevitabilmente alterato.
Attraverso il mezzo fotografico si è cercato di spostare il punto di vista dello spazio, passando da un luogo semplicemente condiviso da detenute e bambini, a un ambiente di incontro tra madri e figli, con l'obiettivo di comprendere l'importanza della relazione. Tra scatti liberi o a tema, ogni detenuta è riuscita a entrare maggiormente in contatto con sé stessa e il proprio bimbo, acquisendo la consapevolezza dell'essere prima madre e poi reclusa".
La mostra, oggi visitabile, comprende sia gli scatti realizzati e scelti dalle detenute, che le foto scattate durante il laboratorio dalla fotografa Natascia Aquilano, così da avere una doppia inquadratura sulla "nuova relazione".
terzobinario.it, 3 gennaio 2020
Sabato 4 gennaio presso il Penitenziario "Casa di Reclusione" in Via Tarquinia si svolgerà il tradizionale pranzo natalizio organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio. Il pranzo alla Casa di Reclusione è arrivato alla sua ottava edizione e si può già considerare una piccola tradizione.
Parteciperanno circa 80 detenuti insieme a 50 volontari. Tutti insieme seduti a belle tavolate, in un clima di amicizia e solidarietà. Menù tradizionale natalizio e regali per tutti. Esiste una intensa collaborazione tra Sant'Egidio, il Direttore del Carcere, la dott.ssa Patrizia Bravetti, ed i Comandanti dei due Penitenziari cittadini. Tale collaborazione non si esaurisce solo nell'organizzazione di eventi dentro il penitenziario ma si estende al momento in cui i detenuti escono dal carcere a fine pena ed hanno bisogno di sostegno.
Quest'anno Sant'Egidio ha organizzato il pranzo in tutte le carceri romane e del Lazio. Inoltre in diverse carceri italiane.
Il carcere, mondo chiuso per antonomasia, è divenuto nel tempo un luogo familiare e di incontro, spesso frequentato con regolarità da membri e volontari della Comunità di Sant'Egidio, oltre il pranzo di natale. Del resto, sono soprattutto i poveri a finire in prigione. Molti carcerati sono persone in condizione di bisogno; sono stranieri, tossicodipendenti, uomini e donne che vivono un determinato disagio; hanno frequentato le mense, i centri di accoglienza, le strade in cui si esplica l'azione di Sant'Egidio. La visita in carcere è allora continuazione di una vicinanza, di un servizio. Anche nei confronti di chi ha sbagliato, talora gravemente. Perché, come diceva don Lorenzo Milani, "chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama".
La visita in carcere vuole dire rifiuto di ogni isolamento ed emarginazione. Per i detenuti i volontari della Comunità sono il mondo esterno che varca i cancelli di una struttura che lascia filtrare ben poco di ciò che è al di là delle sbarre. Le loro visite creano un legame prezioso, un ponte insostituibile.
Gli interventi in carcere di Sant'Egidio sono caratterizzati da un atteggiamento di ascolto, dalla volontà di costruire un'amicizia con i prigionieri, dalla scelta di una fedele continuità nel tempo.
A Civitavecchia, con continuità, i volontari di Sant'Egidio svolgono un servizio presso il Penitenziario "Casa Circondariale" in Via Aurelia Nord, presso il reparto dell'infermeria, dove sono reclusi i detenuti più fragili. Proprio nella casa Circondariale il 21 dicembre scorso si è svolto il pranzo di Natale sia nella sezione maschile che in quella femminile. Hanno partecipato complessivamente 120 detenuti, di tante nazionalità diverse, insieme a 40 volontari.
di Grazia Maria Coletti
Il Tempo, 3 gennaio 2020
Centinaia di bigliettini per i carcerati di Rebibbia durante la raccolta panettoni della Caritas parrocchiale di Nostra Signora di Valme. "Se si vuole, la vita regala sempre tante occasioni. Ti auguro che la migliore per te sia la prossima. Rita e Giuseppe". "Che la luce di Gesù nato vi dia la forza di affrontare questo terribile momento della vostra vita".
"Mangiate i panettoni con gusto, piacere a amore. Auguri a tutti voi che non potete uscire". I romani fanno gli auguri di buon anno ai carcerati di Rebibbia. Centinaia di bigliettini scritti con le buste della spesa tra le mani, in occasione della raccolta panettoni effettuata a ridosso di Natale al supermercato Doc di via Frattini al Portuense.
Di dolci natalizi i ragazzi della Caritas parrocchiale di Nostra Signora di Valme ne hanno raccolti 600. Ma sono stati i biglietti d'auguri a scaldare il cuore dei carcerati. "È stata una cosa molto commovente nei giorni più belli che sono anche i più tristi dell'anno" dice don Roberto Guernieri, sacerdote del Divino Amore e cappellano di Rebibbia da 28 anni, che parla a nome degli altri 7 cappellani che "coprono" i quattro istituti di Rebibbia, con 2.650 detenuti oltre a una trentina di bambini da zero a 3 anni figli delle detenute.
Grazie a loro l'iniziativa della Caritas parrocchiale di Nostra Signora di Valme è stata resa possibile: insieme con don Roberto Guernieri, don Marco Fibbi, don Antonello Sacco, padre Lucio Boldrin, don Stefano Occelli, don Sandro Spriano, padre Moreno Versolato e don Antonio Pesciarelli che spiegano che "le cose date per scontate come un panettone e un biglietto d'auguri, qui dentro acquistano un significato speciale, i detenuti si sono meravigliati, e noi ringraziamo i tanti che hanno donato".
Pacchi sono arrivati con Amazon, racconta ancora don Roberto "da donatori sensibilizzati da un sacerdote volontario, don Mauro Leonardi, che è in contatto con molte persone, e tramite Amazon ci aiuta con la solidarietà. Solidarietà anche dalla comunità di Ciampino della parrocchia Gesù Divino Operaio di padre Bernard, dalle parrocchie romane di San Carlo Borromeo di don Massimo Barisione, Santa Maria Assunta retta da don Fidel, tanta solidarietà anche dal coro Mariapoli di Rocca di Papa, dagli Alpini di Verona, e da tutt'Italia".
Non va tutto a rotoli. "Contrariamente a quello che si pensa il cuore della gente dimostra di essere sangue bello" dice don Alfredo Fernandez della parrocchia Nostra Signora di Valme di Villa Bonelli. Il nuovo parroco, don Victoriano Herranz ha raccolto e fatta sua l'iniziativa portata avanti dal suo predecessore con il gruppo dei volontari della Caritas parrocchiale: tra gli altri, i fratelli Maria Luisa e Riccardo, Andrea, Stefano, Valerio, Francesco e Maria Teresa, Valerio, Francesca, Silvia, Walter, Lucrezia, Paolo, Jacopo.
Intanto, la Madonna di Valme "si prepara" a tornare a Rebibbia, una iniziativa caldeggiata da madre Trinidad, fondatrice e presidente dell'Opera della Chiesa, cui è affidata Nostra Signora di Valme, che abita in parrocchia. "Portate la Madonna in mezzo ai detenuti questo è il suo posto - è il messaggio di Madre Trinidad - così tutti ricorderanno che quando stavano in un momento di difficoltà la Madonna è andata a trovarli".
di Chiara Cruciati
Il Manifesto, 3 gennaio 2020
"Oltre i muri. Storie di comunità divise", di Christian Elia per Milieu. L'elenco è lungo e non risparmia alcun continente: c'è Cipro, che da ultimo muro europeo è diventato il penultimo dopo la trasformazione dell'Europa in fortezza anti-migranti; ci sono i muri mediorientali, dalla Palestina all'Iraq, dalla Siria allo Yemen; c'è la vecchissima barriera marocchina, in cemento e mine, che spezza in due il Sahara Occidentale; c'è quello in costruzione tra Stati uniti e Messico e quello - il più antico di tutti - tra le due Coree
Se a ogni muro si associasse un volto, coglierne l'impatto diventerebbe un fatto di empatia. Cosa significa un muro nella vita di una persona, che si tratti di barriere fisiche e politiche, nell'epoca della disumanizzazione di metà dell'umanità non è così immediato se alla comunità succube non si dà un nome. Darle una storia diviene un atto politico, prima che giornalistico. Lo aveva fatto nel 2009 Christian Elia, giornalista italiano, condirettore di "Q Code", in occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino: il libro si chiamava Oltre il muro, pubblicato dalle edizioni Marotta e Cafiero.
Di anni, da allora, ne sono passati altri dieci. L'anniversario berlinese, con la sua paradossale e falsa celebrazione del ritorno alla democrazia, ha toccato quota 30 e di muri in giro se ne vedono sempre di più. Un boom di muri, in questo decennio inaugurato dall'inizio della crisi economica e proseguito con incattivimento sociale, povertà economica seguita a miseria culturale, individuazione nell'Altro del nemico responsabile di tutti i mali. Elia, allora, di libro ne ha scritto un altro: stavolta si chiama, sottilmente, Oltre i muri. Storie di comunità divise (Milieu, pp. 128, euro 13,90).
Elia riprende i reportage del decennio scorso, scritti camminando lungo tante barriere, per vedere a che punto si è arrivati. Il risultato è amaro: i muri sono aumentati, ovunque, e quelli che nel 2009 sembravano in procinto di cadere sono ancora là, solidi quanto sconsolanti. L'elenco è lungo e non risparmia alcun continente: c'è Cipro, che da ultimo muro europeo è diventato il penultimo dopo la trasformazione dell'Europa in fortezza anti-migranti; ci sono i muri mediorientali, dalla Palestina all'Iraq, dalla Siria allo Yemen; c'è la vecchissima barriera marocchina, in cemento e mine, che spezza in due il Sahara Occidentale; c'è quello in costruzione tra Stati uniti e Messico e quello - il più antico di tutti - tra le due Coree.
Sessantacinque i muri che si possono contare sul mappamondo, cicatrici a cui Elia dà un nome, quello di chi ogni giorno li subisce. Accanto all'analisi storica e politica delle varie barriere studiate, l'autore racconta la vita quotidiana delle centinaia di milioni di persone che ne subiscono gli effetti. In termini di divisione sociale, separazioni familiari, confische di terra, demolizioni di case, limitatissima libertà di movimento, militarizzazione delle comunità. Anche morte, rintracciabile accanto alle barriere di cemento, filo spinato e trincee, ma individuabile anche in quelle invisibili della rotta balcanica (fatte di manganelli e deportazioni notturne) o del Mediterraneo che da mare di incontro e vita si è trasformato in un cimitero.
E alla fine a emergere è la chiara percezione che quando si costruisce un muro per chiuderci dentro l'Altro la prigione è comune. Il di qua e il di là di un muro sono due chiusure, non una sola.
di Goffredo Buccini
Corriere della Sera, 3 gennaio 2020
I flussi in questa fase sono ridotti, ma i leader italiani ed europei dimostrano di non avere alcuna consapevolezza della grande questione africana. In un Paese meno intossicato dalle fazioni, la drastica riduzione degli sbarchi di migranti non sarebbe esibita come un trofeo ma vissuta come una dolorosa necessità.
Tale era, nell'estate 2017, quando ne pose le premesse l'allora ministro degli Interni Pd Marco Minniti tramite i controversi accordi con la Libia (quel giugno si erano registrati sino a 12 mila arrivi in 48 ore, la preoccupante proiezione per fine anno era di oltre 200 mila sbarchi). E tale dovrebbe restare - un'esigenza di autotutela di cui certo non rallegrarsi - anche adesso, quando invece leader assai popolari, e che si proclamano cattolici, polemizzano tra loro per rivendicarne la paternità come un festoso traguardo: neanche fosse da festeggiare l'evidenza, palesata in tutti i rapporti di fonte Onu, di migliaia di profughi, tra cui donne e bambini, intercettati in mare da pirati travestiti da guardacoste di Tripoli e segregati in campi simili a lager da aguzzini spesso legati all'inverosimile governo libico.
La vicenda pone in questione più aspetti, il primo dei quali attiene all'attribuzione politica. Che gli sbarchi siano crollati con Minniti (e dunque prima dell'avvento al governo di Matteo Salvini) è pura evidenza statistica: nel giugno 2017, prima degli accordi con i capitribù libici, erano stati 23.524; nel giugno 2018 (con Salvini entrato al Viminale proprio quel mese, dunque non ancora in grado di incidere sul tema) furono 857.
Comparando i primi sei mesi del 2017 con i primi sei del 2018 (Minniti ministro fino al 1° giugno) la diminuzione fu del 77% e su base annua si passò da 119.369 a 23.370 sbarchi. Questa diminuzione è certo proseguita con Salvini agli Interni e il trend si è anzi rafforzato: gli sbarchi del 2019 sono stati 11.471; ma appare improprio che il capo leghista e il premier Conte, versione Uno o Due che sia, se ne contendano i meriti.
Indiscutibile merito di Salvini è invece avere interrotto già agli esordi con il suo approccio "muscolare" una prassi europea secondo la quale tutti i profughi restavano sigillati in Italia nell'indifferenza dei nostri partner: ma sugli "effetti collaterali" della sua politica contro le Ong (decine di migranti bloccati per giorni in mezzo al mare) dovranno pronunciarsi il Parlamento e, eventualmente, la magistratura. Molto lontana dalla realtà è comunque la rivendicazione del leader leghista di avere fermato "l'immigrazione clandestina" tenendo "i porti chiusi".
Innanzitutto perché, come abbiamo appena ricordato, gli arrivi irregolari erano stati già da mesi ridotti a numeri, se non irrilevanti, del tutto accettabili per un Paese di 60 milioni di abitanti. E poi perché, come lo stesso Conte ha di recente spiegato, i nostri porti non sono mai stati davvero chiusi: erano soltanto preclusi alle Ong.
L'80% degli sbarchi avveniva per via autonoma con battelli di fortuna che approdavano indisturbati sulle nostre coste spesso a poche centinaia di metri dalle navi Ong tenute in stallo per decreto salviniano: navi Ong che erano meri specchietti per le allodole a uso tv, sacrificate alla narrazione della "difesa dei confini". Passato Salvini, la nuova titolare degli Interni, Luciana Lamorgese, con approccio assai meno ideologico, ha smorzato lo scontro con le organizzazioni non governative e aperto più sereni dialoghi con Germania e Francia sulla redistribuzione dei rifugiati.
Ristabilita un minimo di verità sull'iter politico della faccenda, vale la pena di affrontarne l'aspetto etico: se cioè sia o meno un merito il modo attraverso il quale si è giunti a fermare le partenze dalla Libia, sovvenzionando contro i migranti bande travestite da pubbliche autorità. Minniti, che ha scontato una dura ostilità nel suo stesso partito, ha sempre sostenuto che quegli accordi, necessari a scongiurare una "emergenza democratica" in Italia, fossero un primo passo, cui sarebbero dovute seguire la piena presa di controllo delle agenzie Onu sui campi e l'apertura sistematica di corridoi umanitari. Nulla di tutto questo è accaduto allora.
Ma ciò che più colpisce ora è l'assoluta rimozione del problema nelle coscienze di buona parte della nostra classe politica e della società civile. Quasi che la sicurezza del nostro spicchio di mondo (sicurezza, sì, perché l'immigrazione incontrollata pone questioni securitarie, con buona pace delle anime belle) implichi i tormenti di tanta parte di mondo di fronte a noi. Quasi che si possa procrastinare in eterno la soluzione di un problema (le ragioni sottese alla spinta migratoria) affidandosi a qualche feroce buttafuori da noi stipendiato ai nostri confini.
E qui si cade sul terzo aspetto della vicenda: l'assoluta mancanza di visione dei leader nostrani. Franco Venturini ha ben spiegato il 31 dicembre su queste colonne i rischi per l'Italia nello scenario libico. Non serve a consolarci il fatto che siamo in buona compagnia: non esiste al momento un politico europeo che dimostri, al di là degli angusti interessi della propria nazione, consapevolezza della grande questione africana e del peso che essa avrà per noi tutti, nei decenni a venire. Lasciare che a giocare la partita in Africa siano regimi illiberali come quelli retti da Putin, Erdogan o Xi Jinping sarebbe l'ultima triste prova dell'irrilevanza geopolitica dell'Unione Europea. Più che litigare sul totem degli sbarchi, maggioranza e opposizione su questo dovrebbero confrontarsi: magari con saggezza bipartisan.
di Carlo Lania
Il Manifesto, 3 gennaio 2020
Pronte le modifiche volute da Mattarella, il nuovo decreto atteso in Cdm. L'argomento non fa parte del vertice sulla giustizia che si terrà martedì prossimo a palazzo Chigi ma una volta sciolto il nodo della prescrizione, piatto unico dell'incontro che il premier Conte avrà con il ministro della Giustizia Bonafede e gli esponenti della maggioranza, a tenere banco potrebbero essere i decreti sicurezza 1 e 2.
La bozza con le modifiche indicate dal presidente Mattarella ai provvedimenti voluti da Matteo Salvini quando era ai vertici del Viminale, è già pronta da settimane e attende solo di essere presentata in consiglio dei ministri dalla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. Del resto era stata proprio lei alla fine di novembre ad annunciare che il lavoro dei tecnici del ministero era terminato e che il nuovo decreto avrebbe potuto vedere la luce entro la fine dell'anno.
Poi, prima la legge di bilancio, in seguito altri provvedimenti hanno fatto slittare tutto a gennaio quando, si spera, finalmente il governo potrebbe rimettere mano alle norme anti-immigrazione (ma non solo) volute dal leader della Lega. Del resto anche Conte, che pure da premier del governo gialloverde aveva avallato le scelte di Salvini, in seguito ha preso le distanze dai decreti: "Vanno depurati da condizioni che io stesso ritengo inaccettabili", ha spiegato il premier nella conferenza di fine anno.
Sarà bene chiarire subito che, per quanto ammorbidita, l'impronta punitiva verso le navi delle ong è destinata a rimanere. Le osservazioni fatte dal presidente della Repubblica il 4 ottobre 2018 con una lettera al parlamento, riportano infatti il decreto sicurezza 2 alla sua prima versione, intervenendo dunque sulle modifiche apportate dalle commissioni durante l'esame del parlamento. L'intervento riguarderà quindi le maxi multe (fino a un milione di euro) per le navi delle organizzazioni umanitarie che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque italiane, subordinando di nuovo l'eventuale sequestro dell'imbarcazione alla reiterazione del reato. La sanzione torna dunque a essere compresa tra i 10 mila e i 50 mila euro, come era per l'appunto previsto nella prima versione del provvedimento. Si dovrebbe tornare inoltre la distinzione tra le varie tipologie di navi alle quali applicare le sanzioni.
Un quarto punto riguarda infine l'oltraggio a pubblico ufficiale per il quale nella versione attuale non è più prevista la causa di non punibilità per la "particolare tenuità del fatto". In questo caso la modifica reintrodurrà la discrezionalità del magistrato nella valutazione.
C'è, infine, la possibilità di un intervento anche sul primo decreto sicurezza, là dove è prevista l'abrogazione della protezione umanitaria. Nella sua lettera al parlamento Mattarella ha infatti ricordato come "restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato e, in particolare, quanto direttamente disposto dall'articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli obblighi internazionali assunti dall'Italia". Formula che dovrebbe entrare nel testo del nuovo decreto.
A proposito dei titolari di protezione umanitaria, nei giorni scorsi il Viminale ha siglato un accordo con l'associazione dei comuni (Anci) per scongiurarne l'uscita dai Siproimi (ex Sprar) entro il 31 dicembre scorso, secondo quanto previsto dal primo decreto sicurezza, permettendo ai comuni titolari di un Siproimi di proseguire l'accoglienza fino a giugno del 2020 grazie anche alla possibilità di accedere a fondi europei. Una soluzione che non scioglie i dubbi dell'Asgi, una delle associazioni che avevano lanciato l'allarme.
"Sappiamo di Siproimi che hanno dovuto allontanare i titolari di protezione umanitaria", spiega l'avvocato Salvatore Fachile. "I fondi europei verranno probabilmente assegnati con dei bandi e questo significa che alcuni Siproimi verranno esclusi".
di Flore Murard-Yovanovitch
Left, 3 gennaio 2020
Complicità e zone grigie, da parte di Italia ed Ue, nello sterminio e la sparizione dei migranti in nord Africa. "Sono almeno 200 i burocrati responsabili" dice Omer Shatz, tra gli autori con Juan Branco dell'esposto alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità.
Guardare le persone annegare in diretta. Dai nostri droni. Barconi rovesciarsi come in un'immagine fissa, ripetitiva. In cerchio, navi europee, osservano. Senza intervenire. Quello che descriviamo ancora come una "tragedia", è in realtà, in modo innegabile, una politica intenzionale, attentamente calcolata e pianificata con cura. Un crimine letteralmente "legittimato" con l'invenzione ex novo di una popolazione bersaglio - i migranti - categoria senza volto né nome, opprimibili ed eliminabili per il loro solo fatto di essere in movimento.
Una necro-politica che in solo tre anni ha avuto come conseguenza il massacro sistematico di 20mila bambini, donne e uomini e il trasferimento forzato e la schiavitù di 50mila sopravvissuti nei campi di concentramento libici. Si tratta in realtà di "crimini contro l'umanità", come accusa un team di avvocati internazionali, capeggiati da Omer Shatz e Juan Branco, che ha presentato alla Corte penale internazionale (Cpi) un esposto contro l'Unione europea e gli Stati membri per le politiche migratorie.
In tutto 242 pagine che analizzano ogni scelta, decisione, dichiarazione pubblica dei funzionari e dei politici dei Paesi membri e delle istituzioni comunitarie. Tutto nero su bianco. Al cuore della tesi di Shatz e Branco finora incontestata, la consapevolezza delle autorità italiane e europee delle conseguenze letali dei loro atti e dei respingimenti sistematici dei migranti in Libia. I capi d'imputazione sono sostanzialmente due: omissione di soccorso e crimini per procura.
Ad oggi la Corte penale internazionale (Cpi), che era stata creata proprio allo scopo di limitare la violenza politica degli Stati, non ha processato mai alcun alto responsabile europeo, anzi, continua ad indagare per gli stessi crimini solo gli attori africani, lasciando ai loro omologhi bianchi europei piena impunità. Dopo l'esposto, la Cpi non ha finora aperto alcuna indagine negli archivi di Roma, Parigi e Berlino.
Ed è quello che Shatz e Branco si apprestano a fare: indagare la zona grigia della catena di comando - i circa 200 burocrati europei che hanno preso decisioni o applicato ordini per la morte di massa della popolazione bersaglio. Al cuore della vostra tesi ci sono consapevolezza, premeditazione e intenzionalità delle autorità italiane e europee nella creazione a tavolino della rotta migratoria più letale del mondo, e delle conseguenze letali dei respingimenti sistematici dei migranti in Libia. Ci spieghi meglio cosa intendete per "consapevolezza".
Nel 2012 la Corte europea dei diritti umani (Cedu) aveva dichiarato illegali i respingimenti diretti della Ue e dall'Italia. Nel 2014, Frontex ha dichiarato che il rispetto del principio di non respingimento escludeva i respingimenti verso la Libia. Nel 2015, l'Unhcr ha invitato tutti i Paesi ad astenersi dal respingimento in Libia, e ha invitato i civili in fuga dalla Libia ad entrare in altri Paesi.
Ma dal 2016 ad oggi, l'Ue ha trasferito in Libia, con la forza, 50mila civili in pericolo in mare. Poiché i funzionari dell'Ue e dell'Italia erano a conoscenza dell'illegalità dell'espulsione collettiva di civili bisognosi di protezione internazionale verso la Libia, l'Ue e l'Italia hanno dovuto farlo indirettamente, affidando questa pratica ad una terza parte. In che modo? Sulla base del Memorandum italo-libico del 2017 e della Dichiarazione di Malta dell'Ue, l'Italia e l'Ue hanno ricostruito e stipulato un contratto con un consorzio di milizie (che oggi chiamiamo la Guardia costiera libica), in cambio di denaro e di sostegno di materiale, disposto a commettere crimini contro l'umanità di morte per annegamento, persecuzione, deportazione, detenzione, schiavitù, stupro, tortura e altri atti disumani.
Funzionari di Bruxelles e italiani erano anche a conoscenza delle conseguenze letali del porre fine alla missione Mare Nostrum e di lanciare Triton (senza salvataggi). Documenti riservati dell'Ue rivelano che c'era la consapevolezza che un cambiamento di politica avrebbe causato un maggior numero di vittime. E questo è stato usato come deterrente: cioè scarificare la vita di alcuni per dissuadere altri dall'attraversare il mare.
Ma gli attraversamenti non diminuivano e la mortalità è aumentata di 30 volte. E questo ha riguardato 50mila civili respinti in Libia e 20mila persone che hanno perso la vita in mare. L'Ue non ha personalità giuridica (come uno Stato) ed è stata condannata con varie sentenze nel quadro del diritto internazionale e regionale in materia di diritti umani, ma sembra che oggi non ci siano limiti alla violenza di massa sui migranti, e che ci sia una crescente impunità. Siamo in presenza di un fallimento della legislazione sui diritti umani e questo spinge gli Stati ad adottare politiche ancora più violente contro i migranti.
È in atto la "disumanizzazione" dei migranti per far accettare le tragedie del mare all'opinione pubblica europea. Il discorso sui diritti umani viene usato per coprire i crimini più orribili. La propaganda è sempre stata intrinseca alla violenza politica di Stato. Qual è la vostra ipotesi? Per consentire il pieno funzionamento delle sue operazioni e legittimarle, l'Ue paga de facto sia partner legittimi sia criminali.
Foraggia le milizie libiche per eseguire i crimini di cui è complice: ad esempio il respingimento e l'internamento nei campi di concentramento; e sovvenziona anche l'Unhcr e l'Oim per mantenere in vita i sopravvissuti affinché accettino di tornare nei loro Paesi. Bruxelles finanzia inoltre l'operazione Sophia per addestrare le milizie libiche e gestire i droni per monitorare il refoulement e l'uccisione dei sopravvissuti che cercano di fuggire da questo inferno; le armi prodotte in Ue sono utilizzate dal generale Haftar contro i campi di detenzione per migranti, e Bruxelles sostiene al contempo il governo di unità nazionale che gestisce quei campi; l'Ue finanzia persino le Ong e gli istituti politici per discutere delle sue orribili violazioni dei diritti umani; e infine l'Ue paga, più di chiunque altro, la Cpi per garantire che non sarà mai processata per le proprie politiche.
Abbiamo quindi a che fare con un apparato di potere molto sofisticato, che utilizza mezzi materiali, finanziari, tecnologici e simbolici per razionalizzare al massimo le proprie azioni illecite, tenerle lontane dall'attenzione pubblica ed evitare di doverne rispondere in un tribunale internazionale. Secondo il giurista Luigi Ferrajoli, assistiamo alla nascita di un nuovo "popolo migrante" che essendo in movimento non ha ancora diritti.
Anche per questo il diritto penale internazionale, spesso impotente, fa fatica a proteggerlo. Non sarebbe necessario fare emergere nuove categorie e strategie del diritto nell'accezione della sentenza del Tribunale permanente dei popoli? Non penso che ci sia bisogno di ulteriori leggi. Va applicata la legge esistente e gli Stati devono garantire i diritti individuali. Ma dobbiamo ricorrere al diritto penale internazionale piuttosto che ai diritti umani.
Attraverso la reificazione e la disumanizzazione, i migranti non sono una categoria di per sé, ma una categoria inventata per prenderli di mira (perseguitarli), tramite la discriminazione, la criminalizzazione, la negazione e infine il loro sterminio. Inoltre c'è poco di comune tra i membri di questo gruppo "migrante" a parte la loro caratteristica di essere in movimento: provengono da diverse nazionalità, religioni, culture e contesti socioeconomici, le loro motivazioni per il transito sono diverse.
C'è possibilità che nasca un movimento diffuso di disobbedienza civile, europeo o mondiale, per fermare questa necro-politica? Non credo sia possibile. A differenza di altri gruppi perseguitati oggi nel mondo, i rifugiati, come scriveva la Arendt, per tutte le conseguenze pratiche sono di fatto apolidi. Non avendo alcuna autorità e potere politico, sono il perfetto capro espiatorio indifeso. La sinistra liberale ha adottato le opinioni della destra populista secondo cui i migranti sono un problema e, nonostante i numeri siano estremamente bassi, il loro arrivo causa di crisi. Non vedo pertanto le condizioni per il sorgere di un tale movimento.
Dobbiamo anche ricordare che i responsabili dei crimini europei contro l'umanità, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, non sono dei nazifascisti, ma "progressisti", non l'estrema destra ma i liberali seduti a Bruxelles. L'unico modo per fermare la loro campagna sistematica è quello di ritenere responsabili individualmente coloro che oggi godono dell'impunità. Ma per questo è necessario un tribunale penale internazionale davvero imparziale.
di Checchino Antonini
Left, 3 gennaio 2020
Negli Usa è bastato legalizzare la cannabis light per abbattere il fatturato della criminalità organizzata. In Italia la destra fa quadrato affinché non accada. E anche stando alle ultime indagini (di cui si parla molto poco) tra le sue fila si incontrano personaggi vicini alle cosche.
"Anche se è un sostituto imperfetto, la cannabis light produce danni alla criminalità organizzata per il 10-11% del loro fatturato", spiega a Left Luca Marola, creatore di Easy Joint, citando i dati di una ricerca della York University redatta da tre italiani ("Do it yourself medicine?", di Carrieri, Madio, Principe, 2019) da cui si ricavano anche le evidenti ricadute della cannabis light e di quella terapeutica sulle prescrizioni di oppioidi, ansiolitici, sedativi, antidepressivi ecc.
"Lo stato di Washington ha visto crollare i prezzi nel mercato illegale per effetto della legalizzazione", segnala Federico Varese, criminologo a Oxford e autore, fra l'altro, di "Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori" (Einaudi, 2011). Pochi giorni fa, la presidente del Senato, la forzista Casellati, ha dichiarato inammissibile un emendamento alla manovra che avrebbe chiarito la legalità del mercato di quella sostanza, infiorescenze comprese, fino allo 0,5% di Thc, considerato il limite di psicoattività.
Una norma attesa da tutta la filiera e che avrebbe fruttato mezzo milione di curo di accise all'erario, ma che s'è infranta contro la barriera del proibizionismo di Lega, post-fascisti, integralisti cattolici. La guerra alla droga ha voluto assumere i contorni surreali di guerra alla non droga. Perché quella light è "canapone", lontanissima dall'immaginazione allegorica "messa a disposizione del pensiero dall'ebbrezza dell'hashish" di cui parlava Benjamin nei Passages.
È marijuana che non sballa, rilassante (il Cbd, cannabinolo, agisce contro stress, ansia, dolore e insonnia) ma non psicotropa. Così, mentre nel mondo anglosassone il dibattito è su quale modello scegliere per la legalizzazione, se quello dei "cannabis social club" oppure il "profit-driven" con le multinazionali a farla da padrone "e il rischio di ingresso di capitali illegali e di costituzione di una lobby che riduca il lavoro sull'educazione", avverte Varese, qui da noi la nuova guerra è iniziata il 9 maggio scorso dall'allora ministro Salvini anche per dirottare l'attenzione dall'inchiesta per corruzione che aveva coinvolto un sottosegretario leghista, Siri.
"Da allora - riprende Marola - il comparto, dopo due anni di crescita, vive una situazione di incertezza perché la legge non prevede ancora uno sbocco commerciale per le infiorescenze". Si tratta di 10-12mila posti di lavoro legali spuntati dal nulla dopo la provocazione creativa di Easy Joint, "mettiamoci a vendere il fiore (biologico, italiano, sicuro) e vediamo che cosa succede". Ed è successo che alcune procure e questure, in Veneto, Liguria, Basso Piemonte, Macerata hanno iniziato a sequestrare campi e magazzini.
"Se fosse uno dei tavoli di crisi aperto al Mise sarebbe il più grande, più dell'Ilva e del suo indotto", insiste Marola. "Il fiore della cannabis leggera è più pericoloso di quello col Thc - riprende l'attivista antiproibizionista - perché manda in pezzi tutta la narrazione proibizionista per cui tutte le droghe sono uguali".
"Nell'economia illegale (che è un decimo del sommerso), stando all'Istat, la droga fa la parte del leone, 16 miliardi di "fatturato" (4-5 miliardi relativi alla cannabis) rispetto ai quattro della prostituzione e "spiccioli" delle sigarette di contrabbando", spiega a Lefi Marco Rossi, economista alla Sapienza incrociando la relazione Istat sull'economia sommersa e i dati della European society for social drugs research. Un mare di soldi, gli unici disponibili in tempi di austerità e di difficile accesso al credito, che ha bisogno di essere lavato e che produce una serie di distorsioni, dalla concorrenza sleale, all'usura, alla corruzione.
Una buona parte delle quali è conseguenza diretta del proibizionismo, ossia l'ossessione per il controllo dei corpi e degli stili di vita. Un copione che si replica dagli anni Venti anche se la criminalizzazione espone al rischio i consumatori, permette un salto di qualità delle cosche, incrementa la corruzione dei pubblici ufficiali, generalizza il sistema di relazioni che ruota intorno al traffico.
Umberto Santino in Mafie e droghe tra proibizionismo e crociate antidroga (Csa Giuseppe Impastato, 2001) punta l'indice sugli effetti criminogeni della globalizzazione neoliberista, "un contesto che stimola e favorisce il ricorso all'accumulazione illegale" fino a un rovesciamento dei ruoli tra politica e criminalità. Se ancora non sono i gangster, come al tempo di Al Capone, a dettare ordini, esiste sicuramente una "coincidenza di interessi" tra le mafie e le forze politiche più intrise di proibizionismo e liberismo.
"Nelle società occidentali le borghesie mafiose sono una componente del sistema di accumulazione e dominio", scriveva Santino. Parlano di questo le operazioni di questi giorni contro la 'ndrangheta in Piemonte, che hanno portato all'arresto di un ex forzista passato al partito di Meloni e alle dimissioni di un assessore regionale di Fratelli d'Italia campione di preferenze (cinque in pochi mesi i "fratelli di 'ndrangheta" scoperti nelle file di Fdi), e anche i rapporti della Lega con uomini vicini alle 'ndrine dal Veneto alla Calabria.
I giornali come Lefi servono se riescono a mettere in relazione le notizie, a scoprire i fili che legano i fatti e formulare domande utili: esiste una relazione tra la cultura proibizionista e una serie di scelte che favoriscono oggettivamente le mafie? "Le ultime indagini - continua Varese - sono importanti perché confermano il nesso tra controllo del territorio, struttura organizzata gerarchicamente, rapporto con la politica, connivenza del tessuto legale".
Ancora: che legame c'è tra un ceto politico proibizionista e la sua incapacità di fare i conti con gli effetti disastrosi della guerra alla droga? Inutile cercare tracce di una riflessione nella Relazione governativa 2019. Se il mercato illegale si dilata e si differenzia, il sistema dei servizi è inchiodato su un target che non esiste più, la riduzione del danno, inserita nei Lea da due anni, è un "diritto sospeso", perché non ancora declinata a livello nazionale, denuncia Forum Droghe che sottolinea come il Dipartimento politiche antidroga rifiuti di confrontarsi con prospettive che potrebbero consentire la comprensione della specificità dei modelli di consumo.
La rete della società civile, operatori, pazienti, utilizzatori, si troverà a Milano alla fine di febbraio per rendere pubbliche proposte alternative al modello penale e patologizzante. Intanto un terzo dei detenuti, soprattutto stranieri, è dietro le sbarre per via dell'articolo 73 della Fini-Giovanardi, quello incostituzionale, che non distingueva tra sostanze leggere o pesanti, tra spaccio e uso personale. "C'era una forte componente razzista e antisemita - ricorda Varese - anche nel proibizionismo sull'alcol. Erano gli immigrati, italiani e dell'Est europeo, quelli che bevevano".
di Chiara Cruciati
Il Manifesto, 3 gennaio 2020
Il parlamento approva la mozione del governo: Ankara potrà scegliere tempi e modi dell'intervento militare al fianco di Sarraj. Strategia copia carbone di quella nel Rojava: il raìs fa combattere i mercenari, le sue truppe nelle retrovie a difesa degli interessi politici ed energetici nazionali. Il dibattito parlamentare sulla mozione del governo turco che chiedeva l'autorizzazione a dispiegare truppe in Libia è durato pochissimo. Sono bastate poche decine di minuti per dare il via libera al presidente Erdogan: 325 voti a favore (il partito del raìs, l'Akp, e gli alleati nazionalisti dell'Mhp) e 184 contrari (tutte le opposizioni, dalla sinistra Hdp al kemalista Chp).
Erdogan ha ottenuto quanto cercava, il potere di scegliere. Perché la mozione di dettagli militari ne contiene ben pochi, limitandosi a indicare una data di scadenza "mobile" (un anno con possibilità di proroga) e a dare al governo l'ultima parola su tempistiche e ampiezza del contingente da coinvolgere a sostegno del Gna, il governo di accordo nazionale di Tripoli, che il 27 novembre scorso con due memorandum d'intesa ha regalato ad Ankara spicchi di mar Mediterraneo (e del gas che sta sotto) in cambio dell'appoggio militare contro l'assediante, il generale cirenaico Khalifa Haftar. Resta da capire quanto il rischio di un intervento militare sia concreto. Improbabile che Erdogan mandi a supporto del premier Fayez al-Sarraj truppe da combattimento. Secondo i quotidiani turchi più vicini al governo, l'idea è di inviare nella capitale libica addestratori militari e consiglieri.
Dispiegare truppe vere e proprie significherebbe impelagarsi in una guerra regionale di non poco conto, contro mezzo mondo arabo, contro l'Europa e contro la Russia filo-Bengasi. Basta esserci, per ritagliarsi un futuro posto al sole. Per questo la strategia turca in Libia sembra la copia carbone di quella sperimentata con successo in Siria: gli stivali sul terreno sono quelli dei mercenari, miliziani islamisti utilizzati prima nell'occupazione del cantone curdo-siriano di Afrin e poi, dal 9 ottobre scorso, nel resto del Rojava, il nord-est della Siria. Di miliziani ne sarebbero arrivati a Tripoli già 300, un altro migliaio sono in fase di addestramento.
Per la Turchia la Libia è questione strategica, ha detto ieri il ministro degli esteri Cavusoglu. "È importante per la tutela degli interessi del nostro paese e la pace e la stabilità della regione", ha scritto su Twitter ripetendo gli obiettivi contenuti nella mozione presentata al parlamento: "La protezione dei diritti della Turchia nel Mediterraneo, gli interessi nazionali della Libia, la prevenzione di migrazioni di massa e della formazione di un ambiente favorevole a organizzazioni terroristiche e gruppi armati".
Peloso riferimento a chi in questi mesi ha affiancato l'avversario di Tripoli, il generale Haftar, che gode del sostegno militare di mercenari wagneriani russi e ciadiani, del governo egiziano e di quello emiratino. Una presenza che permette ad Haftar di tenere botta: cominciata ad aprile scorso, l'offensiva su Tripoli prosegue a singhiozzo, uno stallo che si traduce nelle sempre più frequenti incursioni contro zone residenziali e civili.
Ieri l'autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), guidato da Haftar, è arrivato alle porte del quartiere tripolino di Abu Salim, costringendo alla fuga molti abitanti, secondo quanto riporta Agenzia Nova, mentre prosegue il bombardamento della zona di al Aziziya e scontri si registrano nel quartiere di Salah-a-din con due edifici civili colpiti. È del 31 dicembre, invece, la morte di tre persone nel villaggio di Qasr Abu Hadi, a sud di Sirte, nel raid aerei compiuto dai caccia di Haftar.
Ieri è intervenuta l'Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati, che si è detta estremamente preoccupata per la sicurezza dei richiedenti asilo a Tripoli dopo che tre colpi di mortaio sono caduti alle porte del centro Gathering and Departure, gestito dal ministero degli Interni, che dal dicembre 2018 ospita circa mille persone. Diversa la preoccupazione dell'Lna: se il Gna si è subito congratulato per il voto turco, Khaled al-Mahjoub, alto ufficiale delle forze di Haftar, ha fatto sapere che "la presenza di qualsiasi forza turca ostile sul territorio libico" sarà combattuta, mentre il parlamento di Tobruk (espressione del fronte di Bengasi) chiedeva all'Esercito nazionale libico di "colpire aeroporti e piste di atterraggio che ricevono militari e mercenari turchi". Poco dopo, nel tardo pomeriggio, Sky News Arabiya riportava dell'abbattimento di un drone turco a sud-est di Tripoli da parte delle forze di Haftar.
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