di Riccardo Noury
Corriere della Sera, 3 gennaio 2020
In Pakistan si torna a parlare della pena di morte per il reato di blasfemia. Gli esperti sui diritti umani delle Nazioni Unite hanno espresso forti critiche nei confronti della condanna alla pena capitale emessa il 21 dicembre nei confronti di Junaid Hafeez, un docente di 33 anni dell'università Bahauddin Zakariya di Multan.
Hafeez, laureatosi in Letteratura americana alla Jackson State University del Mississippi, era stato arrestato il 13 marzo 2013 e incriminato, dopo la denuncia di alcuni suoi studenti, per aver usato espressioni blasfeme nei confronti del profeta Maometto sia durante le sue lezioni che sul suo profilo Facebook.
Per gli esperti Onu si tratta di una "parodia della giustizia", anche alla luce della sentenza della Corte suprema sul caso di Asia Bibi, che aveva ordinato ai tribunali di primo grado di assolvere gli imputati di blasfemia nel caso in cui la loro colpevolezza non sia dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio.
Gli esperti Onu hanno ribadito un punto più volte sottolineato dalle organizzazioni per i diritti umani: la legislazione sulla blasfemia vigente in Pakistan è applicata arbitrariamente e spesso viola il diritto alla libertà di espressione, di credo religioso e di pensiero. Il clima di caccia alle streghe che circonda i casi di blasfemia mette a rischio la vita degli imputati e dei loro avvocati: il difensore di Hafeez è stato assassinato nel 2014 e i suoi assassini non sono mai stati portati di fronte alla giustizia.
Quel clima terrorizza anche i giudici, che per salvarsi la pelle preferiscono emettere condanne, piuttosto che assoluzioni, anche quando le prove della colpevolezza sono insufficienti se non addirittura fabbricate. Il caso di Hafeez, che ora presenterà appello, è passato in sei anni nelle mani di sette giudici diversi. Secondo il Centro per la giustizia sociale, dal 1987 almeno 1549 persone sono state accusate di blasfemia e 75 di loro sono state assassinate da folle di facinorosi.
di Gianluca Di Feo
La Repubblica, 3 gennaio 2020
Missili contro le auto del gruppo sciita che ha assediato l'ambasciata. Otto morti, tra cui 5 membri del movimento iracheno e due emissari di Teheran. Washington conferma: "Proteggeremo sempre i nostri interessi". E ora si rischia la guerra.
Un attacco notturno rischia di portare Stati Uniti e Iran sull'orlo della guerra. Un raid statunitense sull'aeroporto di Bagdad ha ucciso il generale Qassem Soleimani, responsabile delle operazioni coperte di Teheran e uomo chiave del regime degli ayatollah. L'ordine di colpire è stato impartito direttamente dal presidente Trump: mai il confronto tra i due Paesi era arrivato a un punto di tensione così alta.
Intorno alla mezzanotte alcuni missili hanno distrutto un convoglio delle Pmu, le Forze di mobilitazione popolare irachene, che stavano accompagnando all'aeroporto una delegazione dei Guardiani della Rivoluzione di Teheran. Due auto sono state incenerite, ammazzando cinque esponenti del movimento iracheno e due iraniani. Tra le vittime, il leader delle Pmu Abu Mahdi Al-Muhandis, l'uomo che il 30 dicembre ha spronato la folla ad assaltare l'ambasciata americana. E soprattuto il generale Soleimani, un personaggio fondamentale nella storia recente del Medio Oriente: la sua morte è stata confermata dal Pentagono e da Teheran.
Soleimani era al comando delle brigate Qods, un'unità leggendaria che ha avuto un ruolo decisivo nei conflitti della regione. Ha animato la seconda fase dell'insurrezione anti-americana in Iraq, ha armato hezbollah libanese contro Israele, ha pilotato la repressione del regime di Damasco contro la rivolta. Poi ha indirettamente collaborato con i suoi storici nemici americani per riuscire a sconfiggere lo Stato islamico. Più volte chiamato in causa come mente di attentati contro bersagli israeliani e statunitensi, era sempre sfuggito ai tentativi di eliminarlo o catturarlo: l'ultimo poche settimane fa.
Il raid letale è scattato meno di 24 ore dopo la fine dell'assedio all'ambasciata americana di Bagdad. All'inizio sembrava che fosse stata lanciata una salva di razzi Kathyusha, tipici delle milizie, contro una caserma irachena nei dintorni dell'aeroporto. Le prime notizie parlavano di undici soldati feriti. Pareva quindi un episodio secondario. Poi però lo scenario è cambiato radicalmente, assumendo la dinamica di un attacco condotto da droni o bombardieri alla colonna delle auto che scortava all'aeroporto gli emissari iraniani. I rapporti iniziali indicavano un'unica vittima eccellente: Muhammed Reda, numero tre della formazione irachena.
Più tardi sono state fonti dello stesso movimento a parlare di un'azione mirata, che ha ucciso cinque dei suoi uomini e due "ospiti importanti", tutti a bordo delle vetture distrutte mentre si trovavano già all'interno dello scalo internazionale. La tv di stato irachena ha infine fatto i nomi di Soleimani e Al-Muhandis, i veri bersagli dell'operazione killer.
Alcune ricostruzioni sostengono che ad aprire il fuoco sia stato un elicottero americano. E collegano l'attacco alle parole del capo del Pentagono, Mark Esper, che mercoledì aveva minacciato "azioni preventive" qualora gli Usa avessero rilevato "altri comportamenti offensivi da parte di questi gruppi, che sono tutti sostenuti, diretti e finanziati dall'Iran".
In pratica, l'Iraq si sta trasformando nel fronte più incandescente del confronto tra Washington e Teheran. La comunità sciita irachena è da sempre legata al paese vicino, la cui influenza è continuata a crescere dopo la fine del regime di Saddam Hussein. Le milizie filo-iraniane negli ultimi mesi hanno assunto un atteggiamento sempre più aggressivo contro la presenza americana, protestando contro le basi create per combattere contro l'Isis. Una settimana fa una raffica di razzi è piovuta contro un'installazione alle porte di Kirkuk, ammazzando un contractor statunitense.
La rappresaglia non si è fatta attendere. Droni hanno bombardato una struttura di Kataeb Hezbollah, la branca militare delle Forze di Mobilitazione Popolare, uccidendo venticinque uomini. Come risposta, il 30 dicembre Al-Muhandis ha lanciato un appello e radunato la folla contro l'ambasciata americana della capitale. Le recinzioni esterne sono state divelte e per due giorni la sede diplomatica è stata stretta d'assedio, riportando sugli schermi degli States l'incubo di una replica di quanto accadde a Teheran nel 1979. Solo le imponenti difese del complesso, la più grande ambasciata statunitense del mondo, hanno impedito che accadesse il peggio.
Mercoledì primo gennaio, i leader delle Pmu hanno ordinato di interrompere la protesta. E per poche ore è tornata la calma. Iran e Stati Uniti si sono scambiati accuse di fuoco. Mentre il Pentagono ha deciso di rinforzare lo schieramento in Medio Oriente: è stata disposta la partenza di 750 paracadutisti verso la capitale irachena e di 3000 marines verso il Kuwait.
Giovedì per tutto il giorno è stato segnalato un intenso traffico di velivoli militari americani diretti verso la regione, con decine di grandi cargo C-17 che hanno attraversato il Mediterraneo, atterrando nelle basi in Turchia e Arabia Saudita. Un ponte aereo senza precedenti in tempo di pace, tale da far pensare alla premessa per un conflitto.
E il raid contro l'aeroporto di Bagdad rischia di scatenarlo realmente, perché è facile prevedere una risposta durissima di Teheran. La morte di Soleimani è una perdita troppo grave, che mina la credibilità degli ayatollah in un momento di pesanti proteste interne. Inevitabile che la reazione sia altrettanto forte: "Il martire sarà vendicato con tutta la forza", ha promesso il fondatore dei Guardiani della Rivoluzione Mohsen Rezai.
L'Osservatore Romano, 3 gennaio 2020
Sedici detenuti del carcere di Cieneguillas, centro di riadattamento e reinserimento sociale maschile nello Stato di Zacatecas, nel centro del Messico, hanno perso la vita, e altri cinque sono rimasti feriti, nel pomeriggio del 31 dicembre durante uno scontro fra bande rivali.
Lo ha reso noto un comunicato del ministero della Pubblica sicurezza emesso dopo che le autorità avevano ripreso il controllo del penitenziario. Gli scontri tra i detenuti, armati di coltelli e pistole, sarebbero durati circa tre ore quando la polizia penitenziaria è riuscita a riportare la situazione sotto controllo con il contributo di agenti della polizia statale e metropolitana, si legge nella nota del ministero.
In serata, il segretario della Pubblica sicurezza dello stato di Zacatecas, Ismael Camberos Hernàndez, ha precisato che nel corso di una ispezione successiva all'incidente, sono state sequestrate quattro armi da fuoco e diverse armi bianche che presumibilmente sono state introdotte nel centro di detenzione durante le visite dei familiari. L'ipotesi sollevata da Camberos Hernàndez è che le armi da fuoco siano entrate proprio martedì 31 dicembre.
La settimana scorsa infatti c'era stata un'ispezione in cui erano stati trovati oggetti proibiti come smartphone, droga e coltelli, ma non pistole. Inoltre, Camberos Hernàndez ha affermato che 120 detenuti sono stati trasferiti per prevenire attacchi, in quanto appartenenti a cinque cartelli. L'ufficio del procuratore generale di Zacatecas ha aperto indagini sul personale del Centro regionale di riadattamento sociale di Cieneguillas per possibili collusioni con i detenuti.
di Massimiliano Nespola
Il Dubbio, 2 gennaio 2020
Le reazioni dure venute dall'Italia alla pronuncia della Cedu sull'ergastolo "ostativo" nascono anche da un'idea del crimine che pare insuperabile: quella del nemico da battere con i mezzi dello stato d'eccezione. La giustizia europea si manifesta attraverso l'interazione tra più organi.
Spesso, ci si può fare un'idea solo considerando insieme quanto deciso sia in sede europea che in quella dello Stato membro. Questo è il caso di un tema delicato come quello della pena massima attribuita dal sistema penitenziario: l'ergastolo.
today.it, 2 gennaio 2020
In calo anche il numero degli stranieri detenuti nelle carceri italiane. Il problema del sovraffollamento resta irrisolto: cosa dice l'ultimo rapporto di Antigone. Il numero dei detenuti nelle carceri italiane è in costante crescita. Secondo l'ultimo rapporto di Antigone, al 30 novembre 2019 erano infatti 61.174, circa 1.500 in più della fine del 2018 e 3.500 in più del 2017.
di Vittorio Supino
La Discussione, 2 gennaio 2020
Voci autorevolissime nel mondo della Giustizia Italiana quali Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, ieri come oggi sulla stessa lunghezza d'onda, sono d'accordo nel ritenere che il mero aumento delle pene non serva a scongiurare la commissione dei reati che più toccano nel profondo il senso del sentire di ogni comunità ed in particolare la nostra.
In epoca non troppo recente tutti ricorderete la recrudescenza per i reati di sequestro di persona e di usura, oggi quasi scomparsi i primi e del tutto ignorati, anche dal Legislatore, i secondi nonostante si siano registrate sentenze di condanna anche nei confronti di vertici bancari e delle banche.
di Stefano Galieni
Il Riformista, 2 gennaio 2020
Quella dei Centri di "accoglienza" per migranti è una storia ventennale sanguinosa: anni di suicidi, morti violente e soprusi però non ci hanno insegnato nulla. Anzi il modello è stato peggiorato. Prima da Minniti e poi da Salvini.
Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lotti e Nasim, sei nomi che oggi forse non dicono nulla. Erano i nomi di 6 ragazzi tunisini rinchiusi nel dicembre 1999 nell'allora Centro di Permanenza Temporanea ed Assistenza, (Cpta), "Serraino Vulpitta" a Trapani, un mini carcere ricavato da un'ala di un vecchio ospizio. Stavano per essere rimpatriati, tentarono la fuga il 28 dicembre, vennero presi e rinchiusi insieme ad altri due connazionali.
di Paolo Flores d'Arcais
La Repubblica, 2 gennaio 2020
Giustizia sociale, cioè aggressione efficace, costante, progressiva, contro le diseguaglianze di ricchezze, reddito, potere, la cui hybris grida sempre più vendetta agli occhi di Dio e degli uomini. E giustizia nei tribunali, eguaglianza dell'ultimo degli emarginati e del primo dei ricchi-e-potenti di fronte alla violazione della legge. Cioè aggressione efficace e incalzante contro tutte le forme di impunità, a cominciare dalle più gravi, secondo caratura di violenza, prepotenza, opulenza di chi se le riesce a garantire.
di Giovanni Fiandaca
Il Foglio, 2 gennaio 2020
La politica ha delegato le scelte ai giudici e le élite non hanno cultura giuridica. Con ripetuti interventi sul Corriere della Sera Angelo Panebianco insiste nel tematizzare il problema dello squilibrio tra politica e giustizia.
Questa insistenza è opportuna, e lo è anche perché gli spazi di operatività della macchina giudiziaria sono destinati a dilatarsi ulteriormente a causa l'entrata in vigore, col nuovo anno, della riforma Bonafede che, com'è noto, blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Eppure si ha l'impressione che, di fronte all'incombere di una giustizia penale invasiva al di là di ragionevoli limiti, prevalga nella maggioranza delle persone un atteggiamento, se non di entusiastica approvazione come accade ai non pochi adepti del fanatismo punitivista, di accettazione quasi rassegnata del presente andazzo iper-repressivo.
Nei suoi articoli più recenti (rispettivamente, del 9 e 27 dicembre scorsi) Panebianco, da politologo, prospetta ipotesi interpretative che fanno appunto leva sulle cause politiche della situazione attuale. In sintesi, l'idea di fondo è questa: l'enorme e abnorme crescita del fenomeno punitivo, con il connesso estendersi del diritto penale quasi a ogni aspetto della vita pubblica e privata, non sarebbe stato possibile se, specie da un certo punto in poi (com'è intuibile, ci si riferisce alla rivoluzione giudiziaria di Mani pulite e alle sue perduranti ricadute distorsive), non fosse avvenuto "un radicale ribaltamento dei rapporti di forza fra potere politico-rappresentativo e potere giudiziario".
Ma a questa progressiva trasformazione della nostra democrazia in una sorta di democrazia giudiziaria non avrebbe contribuito soltanto il forte indebolimento delle élite politiche. Un'altra causa non meno rilevante, sempre secondo Panebianco, andrebbe individuata nel fatto che un ampio segmento del pubblico italiano (comprensivo sia di elettori comuni, sia di consistenti parti delle stesse élite non solo politiche ma anche intellettuali, del mondo della comunicazione ecc.) difetterebbe in realtà di una autentica e matura cultura democratica: da qui una diffusa incomprensione dei princìpi che presiedono al funzionamento di uno Stato di diritto degno di questo nome e, altresì, una altrettanto diffusa insensibilità rispetto all'esigenza garantistica di sottoporre qualunque potere, incluso quello giudiziario, a limiti e contrappesi volti a prevenirne arbitrari straripamenti.
Riguardata con le mie lenti di giurista, e in particolare di penalista, questa analisi di Panebianco mi sembra convincente soltanto fino a un certo punto. Sotto il profilo causale, infatti, si potrebbe per certi versi rovesciare la prospettiva. Nel senso che la progressiva crescita di peso del potere giudiziario è leggibile, piuttosto che come causa principale, anche come effetto di una dilatazione dell'uso del diritto penale a sua volta riconducibile a un insieme eterogeneo di fattori: cioè fattori storici, sociali, culturali, politici e persino psicologici, che stanno a monte o a valle delle dinamiche relative ai rapporti e agli equilibri tra potere politico e magistratura. Insomma, se punire è diventato "una passione contemporanea", per richiamare il titolo dell'ancora recente saggio di Didier Fassin, ciò si spiega sulla base di processi complessi la cui comprensione rimanda a interazioni causali multiple e al tempo stesso circolari.
Ora, tra i fattori storico-politici e sociopsicologici responsabili dell'espansione dell'intervento penale, mi limito qui a menzionare, oltre a una inevitabile crescita delle esigenze di tutela di una società divenuta sempre più complessa, i dati seguenti: la frequente tendenza del potere politico a delegare di fatto al potere giudiziario la soluzione di questioni che esso è sempre meno in grado di affrontare, e la disponibilità per altro verso di una parte almeno della magistratura a svolgere non di rado di propria iniziativa (cioè senza preventive deleghe espresse o tacite) funzioni di supplenza politica e/o compiti di moralizzazione pubblica; l'affermarsi e consolidarsi nella cultura dominante e nella comunicazione mediatica del paradigma vittimario, col conseguente protagonismo delle vittime nella scena pubblica e la loro accresciuta pretesa di ottenere soddisfazione e risarcimenti morali mediante un ricorso il più possibile ampio e rigoroso agli strumenti repressivi; la propensione delle forze politiche non solo a venire incontro alle aspettative delle vittime, ma più in generale a strumentalizzare e manipolare, per facile tornaconto elettorale, i sentimenti e le pulsioni emotive sottostanti ai meccanismi della punizione (alludiamo all'uso politico del diritto penale in funzione di "ansiolitico" collettivo contro l'allarme-criminalità, o di medium anche simbolico volto a canalizzare in forma retributiva o di rivalsa sentimenti di rabbia, frustrazione e rancore socialmente diffusi specie in periodi di crisi come quello in cui viviamo)
E il discorso potrebbe continuare, per cui rimandiamo ad ulteriori spunti di analisi e momenti di confronto anche recenti rinvenibili su questo stesso giornale (cfr. ad esempio le diverse opinioni di qualificati interlocutori riportate da Annalisa Chirico in "Contro la Repubblica dei pm", nel Foglio del 2 dicembre, nonché il dialogo tra Alessandro Barbano e Vittorio Manes pubblicato nell'edizione del 16 dicembre).
Tutto ciò premesso, penso tuttavia che Panebianco abbia senz'altro ragione nel denunciare la scadente cultura democratica di una parte non piccola delle élite del nostro paese. Dal canto mio, aggiungerei che risulta scarsa la cultura (non solo politica, ma) anche "giuridica", oltre che dei ceti dirigenti, dei cittadini in genere. Come ho avuto più volte occasione di sperimentare, molte persone, pure se appartenenti agli strati più colti, non hanno idee chiare sui principi basilari della responsabilità penale, e neppure sulle implicazioni derivanti dal principio costituzionale della divisione dei poteri.
Questa ignoranza giuridica di fondo spesso induce a considerare "giusta" anche in diritto la soluzione desiderata in base ad aspettative politiche o a premesse morali; oppure, ad esempio, a considerare normale, anzi meritorio che un pubblico ministero occupi la scena politico-mediatica come un tribuno del popolo e simili. Così stando le cose, si comprende bene allora come le contrapposte tifoserie pro-giudici e anti-giudici abbiano potuto prendere il piede che hanno preso per lo più sulla scorta di motivazioni per dir così eteronome, cioè che nulla o poco hanno a che fare con il diritto o la giustizia in sé considerati.
In conclusione riterrei, dunque, che un recupero dei principi della democrazia liberale abbia tra i suoi presupposti un miglioramento qualitativo sia della cultura politica, sia delle conoscenze giuridico-costituzionali dei ceti dirigenti (e - direi - dei cittadini in genere).
Da professore ormai di lungo corso, vagheggio da tempo l'idea che le stesse università dovrebbero farsi carico di rendere obbligatorio per tutti gli studenti - a prescindere dallo specifico indirizzo di studio prescelto - l'apprendimento dei principi di fondo del sistema costituzionale e dell'intero ordinamento giuridico, compresi - e non ultimi - quelli relativi alla materia dei delitti e delle pene (che ve ne sia estremo bisogno possiamo tra l'altro desumerlo dall'increscioso scivolone in cui è incappato persino il ministro della Giustizia Bonafede, il quale nel corso di una trasmissione televisiva ha mostrato di non conoscere elementari regole di disciplina relative al dolo e alla colpa!).
Antidoto efficace o misura illusoria? Forse, varrebbe la pena discuterne. Ma credo che sia necessario, soprattutto, sviluppare la discussione pubblica sulle cause e sui rischi della gravissima nevrosi punitiva che da tempo ci affligge e che purtroppo minaccia di aggravarsi. In mancanza di analisi sempre più approfondite, da condurre secondo prospettive disciplinari differenti e concorrenti, risulterà più difficile escogitare terapie idonee a farci raggiungere l'obiettivo cui dovremmo responsabilmente tendere: bloccare - prima che sia troppo tardi - l'avanzata di una deriva punitivista che, come un cancro produttivo di metastasi in più organi vitali del sistema sociale e politico complessivo, può infine danneggiare in modo irreversibile il funzionamento della democrazia italiana.
di Luigi Ferrarella
Corriere della Sera, 2 gennaio 2020
Si moltiplicano le normative che entrano in vigore anche un anno dopo l'approvazione e ora pure quelle dove l'assegno normativo si rivela "scoperto" allo scadere dell'annata.
Dalla "legge postdatata" alla "legge cabriolet". Il Capodanno 2020, con l'entrata in vigore della nuova prescrizione dei processi, lungo la scala del progressivo scadere di qualità dell'iter legislativo scende l'ulteriore gradino del passaggio appunto dalla "legge postdatata" - cioè approvata il 9 gennaio 2019 ma, proprio come per l'incasso degli assegni problematici, rinviata di 12 mesi nell'entrata in vigore - alla "legge cabriolet": quella dove l'assegno normativo si rivela "scoperto" allo scadere dell'annata, non servita (a chi pure l'aveva solennemente promesso) ad approvare intanto la mille volte annunciata riforma parallela della giustizia penale.
Scena tuttavia surclassata dal record assoluto di un'altra legge (quella sulle intercettazioni) che, benché dall'approvazione nel 2017 già rinviata per tre volte nella sua entrata in vigore al primo gennaio 2020, solo 24 ore prima - il 31 dicembre 2019 - ha visto in Gazzetta Ufficiale l'affannata quarta proroga al 29 febbraio: varata dal governo sotto Natale con sprezzo del ridicolo per l'asserita "straordinaria urgenza" (formale presupposto dell'ennesimo disinvolto ricorso allo strumento del decreto legge) di completare in meno di due mesi quelle dotazioni tecnologiche non predisposte in tre anni da tre governi.
"Postdatate" e "cabriolet", a loro modo, sono pure le modifiche ai due cosiddetti decreti sicurezza e al nuovo testo sulla legittima difesa, tuttora disperse a dispetto delle "rilevanti criticità" additate dal presidente della Repubblica ormai 5 e 9 mesi fa. E il baldanzoso azzeramento della riforma dell'ordinamento penitenziario, operato dagli ultimi due governi e sostituito da niente, come risultato ha chiuso il 2019 con sempre più detenuti (61.174) in sempre meno posti (49.476, da cui detrarne 3.000 inagibili). Palla avanti e poi si vede, insomma. Che però di rado è il modulo per vincere le partite.
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