Adnkronos, 4 gennaio 2015
L'immagine e la voce ufficiale del progetto dedicato a polizia penitenziaria e detenuti è quella del cantante Hervè Olivetti, un ex modello, che destinerà i proventi del suo singolo "Diavolo di un Angelo" ai vari istituti di pena che prendono parte all'iniziativa. Dj Mitch e il cantautore Hervè Olivetti lunedì prossimo porteranno "Evasione Totale" all'interno del Carcere di Monza con uno spettacolo dedicato alla Polizia Penitenziaria, con l'intento di offrire un aiuto morale rispetto alle difficili condizioni nelle quali gli addetti lavorano. Un'occasione nella quale non mancheranno doni per i figli dei poliziotti in vista della Befana.
I proventi delle vendite del brano "Diavolo di un Angelo" di Hervè Olivetti, attualmente in radio e disponibile sugli store digitali, saranno poi raccolti e destinati alle varie Carceri che ospitano il tour di "Evasione Totale" a sostegno della formazione e del reintegro dei detenuti.
Per raggiungere questo obiettivo è stata appunto scelta la musica, linguaggio universale e strumento capace di favorire la comunicazione, l'aggregazione e l'integrazione fra tutti gli addetti ai lavori che ruotano attorno ai penitenziari italiani: associazioni, volontari, agenti di polizia penitenziaria ed educatori. A capo dell'iniziativa ci sono il Presidente dell'associazione 'L'Arte di Apoxiomenò nonché l'Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, Orazio Anania, un uomo da sempre sensibile all'impegno sociale, e l'Associazione Les (associazione no profit che si occupa di tutte le problematiche relative alla sicurezza).
Il Presidente dell'associazione "Apoxiomeno" ha costruito una squadra che si avvale di una serie di professionisti, cantanti, musicisti, animatori, che da sempre sono vicini al lavoro delle forze dell'ordine e che con la musica vogliono offrire una opportunità di svago e socializzazione per i detenuti con lo scopo di sensibilizzare la pubblica opinione su una particolare tematica sociale e umana quale è quella dei diritti dei detenuti.
Il dj Mitch, speaker, musicista e produttore, ex appartenente alle forze dell'ordine, ha subito sposato il progetto dell'associazione Apoxiomeno e, vista la difficoltà nel riuscire a lavorare con lingue, culture e religioni differenti - problema che emerge negli Istituti penitenziari a causa delle diverse etnie presenti - ha inserito nel progetto un suo artista internazionale, il cantante e ballerino cubano Leo Diaz. L'immagine e la voce ufficiale del progetto è invece affidata al cantante Hervè Olivetti: "È importante - dice - far capire alla società che la persona vale di più di qualsiasi reato commesso e che, offrendo al tempo opportunità e fiducia, è possibile aiutare anche chi dovrà rifarsi la vita e i sogni".
www.studiocataldi.it, 4 gennaio 2015
Che il fumo faccia male si sa. Ma non sempre, purtroppo, viene riconosciuto il danno per l'esposizione al fumo passivo. Torna a far discutere, quindi, l'emblematico caso di un agente penitenziario esposto alle indesiderate inalazioni delle sigarette fumate dai detenuti nelle loro celle.
L'esposizione al fumo e il danno non patrimoniale conseguente diventa, così, oggetto della recente sentenza della seconda sezione del Tribunale Amministrativo regionale per la Toscana nr. 2025 dell'11 dicembre 2014.
La pronuncia trova coinvolto, suo malgrado, un agente penitenziario che aveva richiesto il risarcimento dei danni non patrimoniali per la sua esposizione al fumo delle sigarette dei detenuti. Dopo un'attenta analisi documentale ed istruttoria, il Tar Firenze si è espresso non riconoscendo alcun danno non patrimoniale all'agente penitenziario ricorrente causato dall'inalazione del fumo delle sigarette che i detenuti fumavano in cella quotidianamente.
La motivazione della sentenza si è basata essenzialmente su due punti.
A parere del tribunale fiorentino adito, l'esposizione al fumo passivo, per dare origine ad un'eventuale responsabilità patrimoniale risarcitoria in favore dell'agente penitenziario, non doveva limitarsi alla sua sporadica ed occasionale presenza nei corridoi della prigione. Inoltre, risultando a norma la dotazione degli impianti antifumo delle carceri, il Tar ha ritenuto di poter ragionevolmente escludere la sussistenza di ogni tipo di danno non patrimoniale all'agente ricorrente.
recensione e intervista di Stefano Vaccara
Notizie Radicali, 4 gennaio 2015
Quella che segue è un'intervista, curata dal direttore de la Voce di New York Stefano Vaccara al giornalista-scrittore siciliano autore del recente "Dormono sulla collina", una "Spoon River" italiana, che ridà la parola ai morti della Repubblica tra gli anni di Piazza Fontana fino ad oggi. Un libro "folle" di oltre mille pagine, che racconta una (in)edita storia d'Italia.
Per mestiere si deve leggere di tutto, spesso anche certi libri che poi ti accorgi che non ne avresti mai sentito la mancanza. Ma tanto si dovrebbe leggere, che non si ha mai il tempo di finire neanche i bei libri. Così quando Giacomo Di Girolamo, il giornalista marsalese titolare sulla Voce della column "Cosa Grigia" (che è il titolo del suo precedente libro sulla nuova mafia) e autore nel 2010 di una biografia sul boss della mafia ancora latitante Matteo Messina Denaro, ci ha annunciato che avrebbe presto pubblicato per il Saggiatore Dormono sulla Collina, ci preparavamo a leggerlo con tanta curiosità e un po' d'apprensione per come trovare il tempo per farlo. Di Girolamo, direttore di Marsala.it e vincitore quest'anno del Premiolino, il più prestigioso dei riconoscimenti giornalistici italiani, da tempo sospettiamo sia il più promettente dei giornalisti-scrittori italiani della nuova generazione. Ma appena saputo del numero delle pagine (oltre mille) del suo libro, siamo stati presi dal panico: come potere affrontarne la lettura con tutti gli impegni accavallati negli ultimi mesi?
Il volume di Di Girolamo è una sfida colossale: l'autore prova ad immaginare una storia d'Italia degli ultimi quarantacinque anni facendo parlare direttamente i morti della Repubblica, e come scrive Giacomo "coloro che in alcuni casi l'hanno fatta, la storia, in molti casi subita, sicuramente vissuta". Di Girolamo per questa "folle" avventura, sceglie una data di partenza, il 12 Dicembre 1969, quella della strage di Piazza Fontana, a Milano, il luogo che lui chiama "il nostro Ground Zero". E da quella data, si arriva fino ad oggi, ricostruendo come un effetto domino, gli eventi che sono accaduti in Italia negli ultimi quarantacinque anni raccontati dalla voce di chi li ha vissuti e li racconta dall'aldilà.
Quando abbiamo iniziato a leggere i morti scelti da Di Girolamo che parlano invece di continuare a dormire sulla collina, non ci siamo fermati più. Il libro "folle", è inspirato dall'americano Spoon River Anthology, la raccolta di poemi di Edgar Lee Masters, scritto nel 1915 e in cui l'autore raccontava vite e pensieri dei morti di una cittadina di provincia dell'Illinois attraverso i loro epitaffi (il libro ebbe grande successo in Italia grazie alla traduzione di Fernanda Pivano e per l'album di Fabrizio De André Non al denaro non all'amore né al cielo del 1971). Un avvertimento: leggendo Dormono sulla collina, un cittadino italiano che ha vissuto anche solo parte degli ultimi 45 anni in Italia, cambierà sentimenti sulla storia del proprio paese. Leggere questo libro è come ascoltare l'Italia assistendo al suo racconto mentre lei, "la Repubblica", sta distesa su un lettino di un analista.
Per spiegare questo incredibile libro, abbiamo pensato che la formula migliore per i nostri lettori fosse quella di intervistare direttamente l'autore. Ma preparatevi: per le domande a Di Girolamo non ci siamo posti limiti, perché Dormono sulla collina è senza limiti. Quindi, se non avete tempo, non leggete l'intervista. Ma quando lo troverete quel tempo, pensiamo che ne varrà proprio la pena.
Scrivi che il tuo libro è anche letteratura. Finalmente. Perché, scrivi, libri veramente libri non se ne fanno più e poi figuriamoci di letteratura... Spiega meglio e soprattutto con chi ce l'hai?
Dormono sulla collina è un libro. E basta. Questa verità, così semplice, oggi è quasi rivoluzionaria. In tempi in cui i libri li fanno un po' tutti, i comici, i calciatori, gli attori, oppure vengono pubblicati libri per fare i film o le fiction o per una passerella da qualche parte, Dormono sulla collina è un libro folle, di oltre 1000 pagine. oltre ogni immaginazione, come devono essere davvero i libri, perché raccoglie una sfida ai limiti dell'impossibile: provare a raccontare una storia d'Italia, dal 1969 ad oggi, raccontata dalla voce dei morti, di coloro che la storia l'hanno vissuta, subita, fatta, attraversata.
Già, la letteratura, che appunto scrivi che deve essere destabilizzante.... E tu con questo libro cosa vorresti "destabilizzare"? Quale tra questi "morti che parlano", alla fine dice la verità più "destabilizzante"?
È destabilizzante l'idea stessa alla base del libro. Perché i morti, nel loro raccontare la storia d'Italia dai loro mille punti di vista, ci dicono che la storia non esiste più, e non può che essere raccontata oggi affidandosi alle loro voci. Non esiste più sia perché l'Italia è una Paese senza verità (Piazza Fontana, Ustica, la strage di Via D'Amelio...), sia perché oggi non esiste più l'attenzione, e senza attenzione non c'è memoria.
Dici che ci raccontano una storia, la nostra storia, ma una storia che non esiste più.... Non esiste più la storia degli italiani?
La storia non esiste, non possiamo raccontarla, perché non abbiamo verità oggettive sui cui poggiarla, circa i grandi fatti del nostro Paese, e perché non c'è un'opinione pubblica in grado di "gestirla", cioè di accoglierla, farla propria. Il primo episodio che apre Dormono sulla Collina è la strage di Piazza Fontana. Ancora oggi, 45 anni dopo quel 12 Dicembre 1969, non sappiamo chi ha messo quella bomba a Milano, perché, e soprattutto per ordini di chi. Nella mia immaginazione, allora, l'unica voce che può raccontare la strage di Piazza Fontana è la bomba stessa, che io chiamo la "sorella maggiore d'Italia", perché fu l'inizio della strategia della tensione.
Indro Montanelli disse che gli italiani continueranno ad avere una storia, ma non l'avrà più l'Italia. Per lui gli italiani nel vivere la contemporaneità, non conoscono e non tengono conto della loro storia e quindi il loro paese finirà. Un libro come il tuo serve a far conoscere questa storia prima che sia troppo tardi?
Per essere tardi, è troppo tardi, se no non avrei avuto l'idea di fare questo libro. Ma quando penso ai personaggi di Dormono sulla collina penso a dei razzi di segnalazione lanciati nel nero della notte italiana. Ci illuminano per qualche attimo, con la speranza che qualcosa rimanga, che la loro posizione venga individuata, raccolta da qualcuno...
Nella tua collina, ci sono oggetti con punti di vista. Parlano pure le bombe... Per prima quella di Piazza Fontana, che apre proprio il libro. Fai parlare le cose per poter dare il "tuo" punto di vista a certi eventi, invece che dover immaginare quale sarebbe quello dei morti?
Faccio parlare le cose perché la collina del Paese che chiamiamo Italia non può non essere popolata anche di cose. Ci sono oggetti, luoghi, spettacoli, che sono entrati nel nostro quotidiano per un periodo, poi sono scomparsi, e anche loro devono stare in questo racconto, sia perché alcune sono icone pop, sia perché, come dicevo nel caso di Piazza Fontana, paradossalmente, il punto di vista delle cose - inedito - diventa un racconto che supera il limite della verità che non c'è e produce una specie di corto circuito.
Morti che parlano e che raccontano il romanzo storico degli italiani dal 1969 ad oggi. Ma un morto che parla, dice sempre la verità?
No. Assolutamente. I morti, qui, parlano di tutto. Alcuni raccontano verità inattese, altri raccontano la loro vita, altri continuano a prenderci in giro come hanno fatto in vita. Anche per questo il mio non è un libro sulla storia, ma sulla fine della storia.
Quale morto hai dimenticato e per il quale ora ti senti in colpa per non averlo fatto parlare? E cosa avrebbe potuto dire?
"Mi sento in colpa per tutti coloro che, per ragioni di spazio, abbiamo dovuto tagliare. Soprattutto per alcune vittime minori della mafia e del terrorismo che non sono riuscito a salvare....
Quale personaggio non hai affatto dimenticato, ma non c'è nel libro semplicemente perché non lo hai voluto: ecco perché quel morto non lo hai fatto parlare?
No, ho fatto parlare tutti quelli che potevo, senza preferenze, cercando di capire, per ognuno, che tipo di riverbero potevano darmi, quale era la loro corda. Non ero alla ricerca di una morale, ero alla ricerca di storie, lampi, voci.
Esiste in Italia oggi qualche "vivo" che di questi tempi parla in un modo che potrebbe essere come quello dei tuoi morti sulla collina?
I morti, nella mia collina, hanno tutti gli occhi aperti. E parlano, sembrano vivi. Si confondono, anzi, con i vivi. Se prendiamo per buono quella teoria della fisica che sostiene che tutto l'universo è una rappresentazione, anche la vita potrebbe essere una rappresentazione della morte....
Come abbiamo detto la prima voce sulla collina non è una persona, non è un morto, ma appunto una bomba, quella di Piazza Fontana.... Scrivi: "E io sono, in tutti i sensi, la sorella maggiore. L'inizio di una strategia. Il peso di una verità negata che lo Stato italiano ancora oggi porta dentro di sé". Verità negata da chi? Secondo te, uno come Renzi che diventa presidente del Consiglio a 39 anni e senza vincere una elezione politica, verrà a sapere la verità? Chi va al potere diventa automaticamente custode e insabbiatore? Insomma ci spieghi come si tiene ancora nascosta la verità su Piazza Fontana e le sue "sorelle"?
Noi siamo arrivati in un punto, in Italia, in cui è impossibile su alcuni fatti, come Piazza Fontana, accertare la verità, ad di là della volontà di insabbiare o meno. Perché troppo tempo è passato, e troppe cose sono successe. Tra l'altro in Dormono sulla collina, ad un certo punto compare proprio la "verità", che muore il 1° Agosto del 1985. Ecco cosa dice: Si, lo so, sono morta tante volte. Ma se devo scegliere una data, un anniversario, scelgo il giorno in cui la Corte d'assise d'appello di Bari assolve dal reato di strage Freda, Ventura, Valpreda e Merlino per insufficienza di prove. Di quale strage stiamo parlando? Piazza Fontana, naturalmente: 12 Dicembre 1969. Il mio de profundis lo ha fatto un protagonista della vita politica italiana, sempre ben informato: Rino Formica. Ha detto: "C'è un metodo assai collaudato quando vengono consumate stragi e delitti: immediatamente si alimenta quella che è una giusta esigenza, sapere la verità, indicando le mille possibili verità. Poi inizia il depistaggio scientifico. E così si guadagna il primo tempo, prezioso, che serve ad eliminare le impronte digitali. Poi si guadagna altro tempo, con l'aiuto di un'opinione pubblica nauseata dal bombardamento di verità contraddittorie. E in questa fase vengono soppresse le prove e qualche volta, è successo, i testimoni. Poi, dopo un certo numero di anni, la questione si ripropone, perché qualcuno pensa di poter offrire una verità accettabile. Ma nel frattempo sono state fatte sparire le tracce e ci si avvita nuovamente. Il caso emblematico è Piazza Fontana: dopo aver indicato piste di ogni colore, la Corte d'appello di Bari ha assolto tutti. L'unica cosa che non hanno potuto cancellare è la strage.
E se piazza Fontana è "la sorella maggiore", una strage come quella di Portella della Ginestra, in Sicilia, che nel tuo libro non c'è perché avviene 22 anni prima del '69, come la chiameresti, la nonna di tutte le stragi?
E la strage di Ciaculli, allora? Non è l'inizio dell'ascesa dei Corleonesi? Purtroppo era necessario mettere un inizio, in quest'opera mastodontica, e l'inizio è Piazza Fontana. Ma forse hai ragione tu, se i proiettili di Portella potessero parlare racconterebbero, con un accento un po' siculo, un po' americano, che è stato un colpo di tosse in una dialogo - che altri chiamano "trattativa" - sempre presente tra mafia e apparati dello Stato che della mafia si sono serviti.
A proposito di Portella della Ginestra e i misteri d'Italia: Gregorio De Maria, l'"avvocaticchio" di Castelvetrano che ospitava Salvatore Giuliano durante l'ultimo periodo della latitanza prima di essere ucciso proprio a casa sua, muore novantenne nel 2010 e proprio nel suo paese natale. Coincidenza vuole che Castelvetrano sia anche il paese dell'attuale capo Mafia, Matteo Messina Denaro, il latitante che tu conosci, hai fatto conoscere e che ti conosce bene...Eppure l'"avvocaticchio" nel tuo libro non c'è! Chissà che avrebbe potuto dire, su Giuliano, su Matteo....
Si, è uno di quelli che avrei voluto mettere e che non ho messo per non caratterizzare in maniera troppo "siciliana" un lavoro che invece vuole raccontare il Paese. Credo che comunque l'avvocaticchio sarebbe stato di poche parole....
Ennio Flaiano, muore il 20 novembre 1972, e come leggiamo nel tuo libro, ci dice che sul Corriere della Sera aveva scritto pochi giorni prima: "Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? È improbabile. L'età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo Paese che amo non esiste semplicemente la verità". Ma esiste la verità di cui parla Flaiano, e cosa è?
No, non esiste. E tra l'altro questa citazione di Flaiano è una delle poche pagine del libro che ho scelto di leggere in pubblico, proprio perché ne condivido la forza dirompente, la civile disperazione che l'attraversa.
Pier Paolo Pasolini ci dice: "Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che vuole il potere è completamente arbitrario, o dettato dalle sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune". L'anarchia del potere rende irraggiungibile la verità?
"Rende quasi impossibile seguire le trame, gli intrecci, cercare una logica, un senso alle cose. L'ultimo personaggio a parlare, in Dormono sulla collina, è la collina stessa. Che ad un certo punto dice, mettendo i rassegna i morti assassinati: "....Chi è stato ucciso, per un motivo valido: ma sono pochi. Molti sono stati uccisi inutilmente, assolutamente per nulla. Si va sempre in cerca di un significato, per giustificare la loro morte. E si dice: l'ideologia, l'odio, la vendetta, la famiglia, la reazione ad un torto, il pane. Ma non ci sono significati. Non c'è senso alla storia, qui, sulla collina. Non c'è verità. Non c'è decenza.
Tra tutti i personaggi in cui ti sei immerso dentro il loro pensiero, chi è quello che ti somiglia di più? Che non hai dovuto cercare di sforzarti di pensare come lui avrebbe pensato perché, hai capito, che bastava pensare come avresti fatto tu.
In realtà non ho fatto un lavoro di immedesimazione. È stato un procedimento diverso, un po' più laterale, e che mi è venuto più immediato, per ragioni legate al mio lavoro quotidiano, con i personaggi legati alle storie di mafia. Ho lavorato sui margini, sulle sfumature. Anche se, devo ammettere, Falcone e Borsellino sono stati tra i personaggi più difficili da scrivere. E a loro ho affidato forse uno dei messaggi più disperati rispetto a tutta la retorica del movimento antimafia.
Ci sono nomi di gente che nessuno riconosce: come li hai scelti? Come li hai trovati?
Ho studiato tanto, un anno, leggendo non solo libri di storia, mai i giornali dal '69 ad oggi, i settimanali, segnando le cose che mi avevano colpito. Poi, quando ho finito, ho cominciato a dimenticare. Quando tutto era dimenticato, quello che restava erano le storie, e i personaggi che mi erano rimasti impressi erano quelli che sarebbero finiti nel libro. La memoria è quello che rimane quando cominci a dimenticare.
Adolfo Parmaliana, 2 ottobre 2008. Nome sconosciuto agli italiani. Perché lo svegli con gli altri nella collina della storia d'Italia?
Perché è una di quelle persone che non puoi non dimenticare. Professore universitario, militante del Pd, Parmaliana aveva denunciato le malefatte degli amministratori di Terme Vigliatore e di altri comuni del Messinese. Le sue denunce erano cadute nel vuoto ed era stato chiamato in giudizio per calunnia per suoi attacchi ai politici della zona. Si suicida gettandosi da un ponte, facendo in modo che il luogo sia vicino la sede di un altro Tribunale, Patti, per lanciare un ultimo disperato appello. I fatti gli daranno ragione. Solo che in vita Parmaliana, come accade spesso in Sicilia, era stato preso per pazzo.
I figli non si giudicano dai padri: ma i padri si possono giudicare da come hanno trattato i figli? Hai fatto parlare Aldo Togliatti, 16 luglio 2011....
Aldo Togliatti è il figlio "pazzo" e segreto di Togliatti, morto nel 2011 nella clinica dove aveva sempre vissuto. Mi ha suscitato sempre curiosità vedere come i potenti, in questo caso, Togliatti, abbiano nelle loro vite, a volte pieghe mostruose, scarti di senso, perché il potere prevale anche sugli affetti e sulla logica. Il figlio di Togliatti dice, rivolto ai genitori: "Forse mi sono ammalato perché non mi avete mai amato. Era la ragion di partito che ve lo imponeva: si ama il popolo, compagno Togliatti, con certo i figli!".
Aldo Moro dice: "Con me muore ignominiosamente la Repubblica". Cioè dal 1978 abbiamo vissuto sotto dittatura? La sua morte è stato un colpo di stato? Spiegaci meglio cosa volesse dirci Moro.
"Muore ignominiosamente la Repubblica" è la citazione di una delle più belle poesie civili del '900, scritta da Mario Luzi. Moro sa che su di lui c'è "un patto del silenzio, della reticenza e dell'oblio, tra le autorità governative italiane, le gerarchie vaticane, il fronte brigatista. Un patto che dura ancora oggi.
Agnese Borsellino dice che la verità è la fine del mondo... E Giulio Andreotti, che muore il giorno dopo Agnese Borsellino, il 6 maggio 2013, lo fai rispondere con le parole pronunciate nel film Il Divo di Paolo Sorrentino: "Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta e invece è la fine del mondo! E noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta! Abbiamo un mandato noi, un mandato divino! Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch'io." Ma la verità, in Italia, sarebbe proprio la fine de mondo? E poi, solo in Italia o sarebbe così ovunque? Per esempio, uno potrebbe dire che la verità sulla morte dei Kennedy, sarebbe la fine del mondo per l'America.
Sì, la verità, per chi è al potere è la fine del mondo. Di ogni mondo. Da giovane ho frequentato per alcuni anni le stanze del Partito Democratico della Sinistra, la formazione erede del Pci e all'origine del Pd. Facevo politica, a sinistra, a Marsala, la mia città. Avevo vent'anni. È durata pochissimo. Ogni volta che ci imbattevamo in qualche caso che volevamo denunciare (un politico colluso, un'azienda di mafia che vinceva un appalto, parenti di mafiosi dentro cooperative "rosse") ci dicevano sempre di stare muti, perché anche quel mondo, anche quelle piccole miserie, erano rette da un equilibrio basato sull'occultamento della verità, e ci spiegavano che era necessario subire e non parlare e non fare domande, in nome di un "interesse superiore", che non ho mai capito in verità quale fosse se non il fatto di non dover disturbare il manovratore....
È vero che per la Repubblica d'Italia esiste prima e dopo Giulio?
Questo libro doveva finire, nel progetto iniziale, con Giulio Andreotti, un personaggio chiave nella storia d'Italia. Andreotti è morto invece quando Dormono sulla collina era in piena lavorazione, ma mi è sembrato divertente, forte, mettere comunque la parola "FINE" dopo la sua pagina, e fare parlare "un'era", che è il tempo di Andreotti, perché secondo me non esiste una prima o una seconda Repubblica, ma solo un prima e un dopo Andreotti, per i segreti che porta con se e per il tipo di politica (nei riti, nei tempi, nella comunicazione) che comunque rappresentava.
Facendo parlare Carlo Alberto Dalla Chiesa, ricordi cosa disse Andreotti per giustificare la sua assenza al funerale del generale-prefetto ucciso dalla mafia a Palermo nel settembre del 1982: "Andreotti non c'era al mio funerale. "Preferisco andare ai battesimi" rispose al giornalista che chiedeva conto della sua assenza". Pensi che Andreotti abbia fatto uccidere Dalla Chiesa?
Non lo so. Dormono sulla collina non è un libro di certezze, ma di riverberi. Per me era importante fare dire a Dalla Chiesa un'altra cosa: e cioè che lui tra la vita e lo Stato, ha scelto lo Stato, fino in fondo.
Francesco Cossiga lo fai parlare con queste frasi: "Sono stato dalla parte dello Stato. E sono stato un suggeritore dell'Antistato. L'Italia è stata una democrazia incompiuta, ma era l'unico tipo di democrazia possibile per rimanere in Occidente." Pensi che avesse ragione lui?
Cossiga dice una sua verità, che mi sembra di poter condividere. Rispetto ad altri politici italiani Cossiga, forse per questa tara di "eccentricità" del personaggio, non nascondeva nulla dei doppifondi della storia d'Italia, anzi, sembrava quasi divertirsi nel mostrarli a mondo e nel giustificarli a modo suo.
Bettino Craxi dice che l'Italia e gli italiani sono sempre in cerca di un padrone. Chi vuol stare sotto un padrone, che interesse dovrebbe avere alla verità?
Gli italiani sono sempre in cerca di un padrone. E infatti il giudizio che i suoi avversari dell'epoca davano di Craxi e che riporto nel libro ("Vanitoso. Incapace di autocritica. Con una concezione di sé troppo alta. Prepotente. Umorale. Impulsivo. Rancoroso. Vendicativo"), sembrano tarati su misura per Matteo Renzi, oggi. Quando nel 1976 Craxi, a 42 anni, prese il potere nel Psi si parlò di "golpe generazionale". Oggi invece si è usato il termine di "rottamazione". Sotto, da Craxi a Berlusconi a Renzi, c'è sempre la stessa massa di italiani che hanno bisogno di qualcuno che li comandi. Un popolo così non ha interesse alla verità, ovvio, ha interesse solo che a padrone succeda padrone. E soprattutto, ha a cuore non la verità delle cose, ma la popolarità. A noi italiani, credo, non piace stare dalla parte giusta, ci piace stare dalla parte affollata, perché - in fondo - pensiamo che sia quella giusta, e, comunque, c'è una gran compagnia...".
Fai parlare l'ultimo governo Berlusconi. Che si spegne come una tv... Cioè sembra di capire che Silvio Berlusconi se ne sia andato per scelta, per aver capito da showman quando uscire di scena prima che dagli applausi si passi agli ortaggi e peggio.
No. Il berlusconismo si spegne per stanchezza, come accade anche ai migliori programmi televisivi. Dopo anni di successo il pubblico, semplicemente, cambia gusto, e si sposta su un altro canale. È sempre quel concetto di popolarità che dicevo poco fa....
"La Repubblica dei mafiosi" fu il titolo dell'ultimo articolo di Mario Francese, giornalista, ucciso il 26 gennaio 1979. Pensi che avesse capito la "trattativa continua" tra Stato e mafia? O c'era dell'altro?
Aveva capito molto, Francese, giornalista del Giornale di Sicilia, sull'ascesa dei corleonesi in Cosa nostra. Leggere oggi il suo ultimo rapporto (era un maniaco di nomi, date, circostanze) è impressionante. Tutto quello che doveva accadere in Cosa nostra e in Sicilia Francese lo aveva previsto. Una grande lezione di giornalismo, pagata con la vita.
Vito Guarrasi: un avvocato importante, ma nessuno, fuori dalla Sicilia, sarebbe in grado di riconoscerne il nome. Eppure è stato probabilmente la cinghia di trasmissione tra la mafia e la politica... Tu lo fai parlare. Ma chi è stato veramente Guarrasi?
Ci sono una serie di persone, come Guarrasi, o Vito Miceli, Eugenio Henke, "che rappresentano il doppio livello" che ha caratterizzato la storia breve della nostra Repubblica, quell'"anello" che ha messo insieme criminalità, servizi segreti, politici, intermediari di ogni tipo, per decidere davvero le sorti del Paese (anche, lì, in nome di interessi superiori ci hanno detto, per la stabilità politica dell'Italia negli anni della guerra fredda, ma in realtà si ha la sensazione che tutto, da Piazza Fontana in poi, con il tributo di sangue che ha comportato, sia servito solamente a garantire il monolitico governo del Paese e ad impedire ogni forma di alternativa politica che avrebbe comportato anche un totale ricambio della classe dirigente). Comunque, nel libro Guarrasi si racconta in maniera efficace: "Anch'io ero siciliano, ma senza gesti e senza crisi di nervi. Più potente di Enrico Cuccia, più influente di Giovanni Agnelli, più astuto di Giulio Andreotti, più segreto del segreto di Fatima. Mi chiamavano "il ragno". Tra le mie mani è passato di tutto: lo sbarco degli americani in Sicilia, la morte di Enrico Mattei, la scomparsa di Mauro De Mauro, il golpe Borghese, la morte di Roberto Calvi, i cugini Salvo, i rapporti tra la Dc e la mafia. Ma il mio nome non si poteva nemmeno pronunciare. Mai un processo, una denuncia. Mai un esposto, e mai esposto. Si diceva nei bar di Palermo: "Se il Palermo vince, in schedina scrivi uno. Se perde scrivi due. Se pareggia scrivi Guarrasi".
C'è Michele Sindona che simula, avvelenandosi, l'omicidio in carcere per prendersi gioco di tutti. Spiegaci meglio.
Michele Sindona, il banchiere di mafia e Vaticano, era un'esteta della simulazione. Il suo suicidio, inscenato come un omicidio, bevendo un caffè avvelenato, è l'ultimo spettacolo, il suo capolavoro, quasi un gioco di prestigio. Tanto che ancora oggi c'è chi sostiene che sia stato avvelenato affinché non parlasse. Ma in realtà ci sono pochi dubbi sul suicidio di Sindona, così come sulla sua personalità assolutamente contorta (aveva inscenato anche un finto rapimento, pur di sfuggire alla giustizia).
Falcone e Borsellino, li fai parlare tra loro: dove abbiamo sbagliato, Giovanni? Dove abbiamo sbagliato, Paolo? E poi concludono entrambi con le stesse considerazioni, e adesso si palleggia... nell'ennesimo serial tv... Sono morti per nulla? Eroi sprecati nella storia di un paese che non li meritava?
Più che altro, hanno l'amarezza di essere oggetto di molte cerimonie retoriche e di tante intitolazioni, e poco reale impegno per cambiare le cose. C'è tutto un apparato antimafia che vive di ricorrenze, ma che ha poca preparazione e poca cultura. Ai due magistrati è stato intitolato di tutto, ma in pochissimi ne seguono davvero l'impegno. La foto celebre di Falcone e Borsellino, loro due che parlano e sorridono complici, ormai la vedo appesa dappertutto. Nelle stanze di sindaci condannati per mafia, negli ingressi degli ospedali dove si muore di malasanità, nelle segreterie di politici collusi, nella aule di scuole che cadono a pezzi perché progettate male. E poi, quante intitolazioni. Ormai in Sicilia più un'opera pubblica è una porcata più si cerca il paravento dell'antimafia. Ecco perché Falcone e Borsellino oggi concludono amaramente il loro dialogo dicendo che più che eroi d'Italia oggi sono eroi di Tuttocittà.
Leggendolo il tuo libro, mi ha dato questa impressione: quei morti che parlano sputtanano mezzo secolo d'Italia. Sembra che nessuno dei suoi potenti si salvi: politici, magistrati, imprenditori... Tutti hanno qualcosa da farsi perdonare, anche per quei morti "sconosciuti" sulla collina. Tranne Falcone e Borsellino (e qualche altra eccezione) il potere in Italia ha solo creato mostri?
I libri sono di chi li legge. Accolgo questa osservazione, ma, in sincerità, non ho avuto scopi nella stesura del libro se non quello di fare la Spoon River d'Italia, senza indulgere in retorica o compassione. Tutti abbiamo qualcosa da farci perdonare, certo, ed è vero anche, che il potere genera purtroppo solo mostri...".
Il monumento ai Mille di Garibaldi a Marsala, mai completato, scrivi: "Sono la perfetta sintesi dell'Italia: megalomania, approssimazione, litigiosità, ottusità burocratica, contrapposizione di poteri, indifferenza per i tempi, disprezzo per il buonsenso..." Una sintesi del genere come fa a creare un paese comunque ammirato nel mondo? Come si spiega la "grande bellezza" dell'Italia?
La grande bellezza dell'Italia non esiste. È solo il titolo di un film, che genera un immaginario, che genera un Paese. Perché la società è quella che la narrazione che ne facciamo di essa crea. Da sempre. Il giorno in cui l'Italia vince l'Oscar con la Grande Bellezza, tra l'altro, cade l'ennesimo pezzo di Pompei, a ricordare che in fondo la bellezza che l'Italia racconta al mondo sta tutta, da sempre, nel mostrare al mondo stesso le sue rovine. Non è grande la bellezza, sono grandi le rovine che la raccontano, in secola secolorum.
Dopo questo libro, ti consideri più un filosofo, uno scrittore, un romanziere, o un giornalista?
Io ho vissuto Dormono sulla collina come un'inchiesta nella storia recente d'Italia, un'inchiesta da fermo, fatta entrando nelle viscere del Paese, mettendo in relazioni storie e nomi. Mi considero un palombaro, uno che si immerge nella profondità delle cose.
Ti dico allora io cosa penso di te, Giacomo. Tu per me sei lo scrittore, un po' giornalista un po' romanziere-storico, e qualche volta anche filosofo, che ha preso il testimone di Sciascia, che scriveva dalla e di Sicilia per spiegare l'Italia. Tu sei qua, adesso con questo libro destabilizzante, che esce proprio a 25 anni dalla morte di Leonardo Sciascia, perché così torna anche lui. Anzi, lui in effetti, come gli scrittori immortali, non se ne era mai andato. Nel tuo libro, alla voce Leonardo Sciascia, 20 novembre 1989, si legge: "(....) Avevo già scritto tutto: della mafia e dell'antimafia, del potere malato in Italia, delle verità che non arrivano mai. E tante cose ho scritto che ancora magari non avete letto bene. Il personaggio di un racconto quando muore non ha bisogno di una lapide, perché non è mai esistito. Ma come disse il commissario Cattani, quello della Piovra, prima di essere ucciso: sono qua. Sono qua, ci sono ancora. Un modello irrinunciabile. Sono qua, ci sono ancora. Uno dei pochi con cui vale la pena anche non essere d'accordo". Cosa hai riletto di Sciascia, che magari non avevi letto bene o che magari non eri d'accordo, ma che poi ti ha aiutato a finire questo libro?
Tutto. Leggo e rileggo Sciascia in continuazione. E ho pensato molto ad un suo romanzo del 1971, "Il contesto". Tra l'altro "Il contesto" è uno dei tipici gialli di Sciascia in cui la soluzione è evidente nelle prime pagine, ma viene resa impossibile la scoperta della verità da questioni di "opportunità", trame dei poteri, complotti. Ecco, se vogliamo dare un valore politico a Dormono sulla collina e trarne un paio di tweet, oltre a quella sfida tra popolarità e verità, miseramente persa dalla seconda, un altri messaggio potrebbe essere questo: l'Italia è un "contesto".
Dopo aver letto i tuoi morti che parlano sulla collina, ecco penso che quello che mi ha commosso di più, sia stata Eluana Englaro. Come hai ricostruito quello che le fai dire? Eluana Englaro donna, 9 febbraio 2009: "Morire subito, fulminati, come quel ragazzo, Gatì: il destino opposto al mio. Ho iniziato a morire il 18 gennaio del 1992, anche se il mio certificato di morte porta la data del 9 febbraio 2009. Nel mezzo, la battaglia di mio padre, Beppino, perché avesse fine la mia agonia incosciente. Ha fatto della mia lunga storia di morte la sua ragione di vita. Aveva trent'anni quando sono nata. Ne aveva 51 quanto tutto si è fermato. Per l'Italia ero l'ossessione di quell'unica foto e di un corpo immobile da mantenere a galla nel silenzio della clinica. E mi volevano viva perché mi sapevano morta. E credevano nel mio risveglio impossibile perché ancora meno avevano fiducia nel loro dio poco credibile. Solo tu, contro tutti, hai voluto che morissi, per ricordarmi, e amarmi, da viva. E adesso sono davvero piena di vita, papà".
"Mi volevano viva perché mi sapevano morta". È questa la verità di Eluana Englaro, secondo me. Sono partito da questa frase, per ricostruire tutto il resto, con rispetto nei suoi confronti e del padre Beppino, che ha dovuto fare una scelta dolorosissima. Fuori dall'ideologia, dalla propaganda, da chi ha usato quel corpo in maniera oscena per le proprie battaglie, quello che resta è la vita".
di Carlo Lania
Il Manifesto, 4 gennaio 2015
L'annuncio del Commissario Avramopoulos. Ma fino a oggi a essere colpiti sono stati i profughi. Sui nuovi drammi dell'immigrazione adesso si sveglia l'Europa.
Come al solito sempre dopo che le cose sono accadute e come al solito facendo promesse che non può e forse neanche vuole mantenere. Come quelle annunciate ieri dal commissario europeo per l'Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, che parlando dei mercantili carichi di disperati arrivati in questi giorni in Puglia e Calabria, ha di nuovo dichiarato guerra alle organizzazioni criminali e annunciato un piano di Bruxelles per un "approccio globale alle migrazioni". "I trafficanti stanno trovando nuove strade in Europa e stanno impiegando nuovi metodi per sfruttare i disperati che cercano di scappare da guerre e conflitti", ha detto Avramopoulos garantendo che l'impegno nel contrastarli rappresenta una "priorità" nei piani dell'Ue. "Dobbiamo agire contro i trafficanti. Non possiamo permettere loro di porre a rischio vite su navi abbandonate in condizioni meteo pericolose", ha aggiunto facendo riferimento alla circostanza - ancora non dimostrata dalle indagini e anzi da molti considerata improbabile - che gli scafisti abbandonerebbero navi e migranti al loro destino una volta giunti nelle acque territoriali italiane.
Di fronte a tanta determinazione, c'è da aver paura. Ovviamente non per le organizzazioni criminali, che hanno più volte dimostrato di saper aggirare qualunque ostacolo messo in atto dalla politiche repressive dei vari Stati continuando a svolgere senza problemi i loro traffici illeciti. No, c'è da aver paura per i migranti. Fino a oggi infatti ogni volta che Bruxelles ha annunciato di voler contrastare i mercanti di uomini, a farne le spese sono state proprio le centinaia di migliaia di disperati che ne sono vittime.
Gli esempi non mancano. Subito dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, dove persero la vita 366 profughi tra uomini, donne e bambini, un vertice Ue si impegnò a "evitare che i migranti intraprendano viaggi pericolosi", e questo per "ridurre il rischio" di nuove tragedie. Parole naufragate ben presto nel niente. Per fortuna l'Italia per una volta non è restata a guardare e ha dato avvio all'operazione Mare nostrum che in 14 mesi ha salvato poco meno di 170 mila profughi. Missione definitivamente chiusa quattro giorni fa dal ministro degli Interni Alfano e dal governo Renzi.
Nel frattempo, però, l'Europa ha continuato a far finta di contrastare i trafficanti. Un altro buon esempio è Mos Maiorum, operazione che ha coinvolto le polizie europee messa a punto dall'13 al 26 ottobre scorsi dall'Italia durante il semestre di presidenza dell'Ue e coordinata dalla Direzione centrale per l'immigrazione e la polizia di frontiera. Due gli scopi dichiarati: indebolire le capacità delle organizzazioni criminali, ovviamente, ma anche raccogliere informazioni sui migranti: nazionalità, genere, età, luogo e data di ingresso nell'Ue, ecc. In pratica una schedatura. La missione aveva contorni un po' misteriosi, tanto che alcuni europarlamentari hanno provato a chiedere spiegazioni e sia il Consiglio Ue che Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere, ne hanno preso le distanze. Difficile dire quali risultati Mos Maiorum abbia raggiunto, soprattutto nello scoraggiare i trafficanti, visto che un rapporto conclusivo dell'operazione, annunciato per lo scorso 11 dicembre, non sembra sia stato mai presentato.
C'è poi Triton, la missione europea che ha preso il posto di Mare nostrum senza però sostituirla. I mezzi di Triton sono attestati sulle 30 miglia dalle coste italiane, molto più arretrati rispetto alle navi della Marina militare italiana e hanno soprattutto il compito di sorvegliare il confine europeo. Da quando è cominciata, il 1 novembre scorso, hanno comunque tratto in salvo migliaia di migranti, ma il direttore di Frontex, da cui la missione dipende, si è già lamentato per i troppi salvataggi "fuori area" eseguiti.
In realtà se davvero Bruxelles volesse salvare la vita dei migranti, ormai quasi tutti profughi in fuga dalle guerre, potrebbe farlo senza problemi andando a prenderli lì dove si trovano. Operazione possibile allestendo uffici dell'Ue e dell'Unhcr, l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, nei paesi di transito dei migranti. Su questo punto, però, finora poco o niente è stato fatto. A dicembre è stata varato il processo di Khartoum, accordo tra Ue e alcuni paesi africani per l'apertura di campi dove raccogliere i profughi in attesa di esaminare le richieste di asilo. Il piano, per ora solo annunciato, potrebbe essere un modo per togliere davvero i migranti dalle mani dei trafficanti. A meno che i campi in questione non diventino un comodo contenitore per tenere i profughi lontani dall'Europa.
di Luigi Offeddu
Corriere della Sera, 4 gennaio 2015
Frank Van Den Bleeken, 52 anni e da 30 in galera: "In carcere soffro troppo". L'esecuzione domenica prossima, ma le famiglie delle vittime protestano.
Ogni notte, i detenuti dalle celle vicine gli gridano o sussurrano nel buio: "Frank, ammazzati! Ammazzati!". Certi, ha rivelato qualche guardiano, prendono un doppio caffè pur di dare il turno agli altri e non lasciare che per quell'uomo trascorra un solo minuto di pace. Così accade da sempre in molte prigioni del mondo, a chi ha compiuto certi atti. Ma lui, Frank Van Den Bleeken, 52 anni e da 30 in galera, detenuto belga condannato per omicidio e stupri seriali, assassino e torturatore di una diciannovenne la cui madre morì più tardi di crepacuore, lui non si è mai ammazzato e la morte l'ha chiesta allo Stato: anzi, la "dolce morte", l'eutanasia, per sfuggire alle "insopportabili sofferenze psicologiche" che afferma di provare.
Le vittime: "Chiede una morte con dignità, quella che non ha concesso ad altri"
Un anno fa, Frank si è accordato con i giudici. E così, venerdì prossimo, sarà trasferito in un ospedale segreto dove potrà stare in pace con i suoi familiari per due giorni. Poi, domenica 11 gennaio, arriverà anche un sacerdote. E infine un medico statale, con un'iniezione pagata dallo Stato, cancellerà la condanna all'ergastolo che quello stesso Stato ha comminato un giorno a quest'uomo. "È una grazia, un premio, una liberazione che risparmierà la pena intera a chi l'ha meritata - dicono indignati alle tv i familiari delle vittime. Lui chiede una morte con dignità, quella che non ha concesso ad altri. Ma non esiste anche la libertà di suicidarsi? E poi, lui stesso dice che ha sempre quelle fantasie atroci, che se tornasse libero rifarebbe tutto...". Le sorelle di Christiane Remacle, la diciannovenne seviziata e strangolata con le sue calze nel 1989, nei boschi vicini ad Anversa, si sono opposte fino all'ultimo alla "grazia": "Lui deve marcire in galera e basta. Per sempre". Non è così, rispondono altri - giuristi, politici e sacerdoti - questo sarà un atto di giustizia e di pietà civile, gli psichiatri hanno certificato i disturbi di Frank e in fondo l'ergastolo non è che una morte legalizzata, una scelta che non ricompensa le vittime e non migliora o recupera i colpevoli.
Altri 15 detenuti ora hanno già chiesto la "dolce morte"
Ma il vero problema, da domenica in poi, andrà ben oltre la sorte individuale di Frank e già fa tremare i polsi a molti. Sarà un enigma giuridico, etico, sociale, politico, religioso, con 5 risvolti diversi e ugualmente angoscianti. Primo: altri 15 detenuti in varie prigioni hanno già chiesto la "dolce morte" come Frank, adducendo malattie fisiche o gravi depressioni e nessuno sa che risposta darà loro lo Stato. Secondo: in Belgio, dal 2002, il codice consente sì la stessa eutanasia ora in continuo aumento (oltre 1.800 casi nel 2013) ma solo a pazienti terminali, ciò che Frank non è, oppure a persone in preda a "insopportabili sofferenze fisiche o psicologiche" (dal febbraio 2014, primo caso nel mondo, la norma vale anche su bambini e ragazzi senza limiti d'età, purché vi sia il consenso dei genitori). Terzo: lo stesso codice, invece, non prevede la pena di morte per nessun reato.
Quarto: la Costituzione belga sancisce che "tous les belges sont ègaux devant la loi", tutti i belgi sono uguali davanti alla legge, proprio come garantito ai cittadini di tutti i Paesi d'Europa. In questo caso l'obiezione sarebbe: perché solo questa condanna, seppure definitiva, può essere modificata? Quinto e ultimo punto, il Belgio è anche il Paese dove vive un altro ergastolano, Marc Dutroux, il pedofilo e assassino seriale che faceva morire le sue giovanissime prede anche di fame e che potrebbe tornare in libertà condizionata fra un anno o poco più. Alcuni genitori delle vittime attendono da anni quest'uomo alla porta del carcere, certo non per abbracciarlo e oggi promettono a Dutroux che una "dolce morte" non l'avrà mai, se anche dovesse chiederla e se anche lo Stato dovesse concedergliela come ha fatto con Frank.
Quanto a lui, il "graziato", si è appena confidato con una televisione: "Sono un pericolo per la società, lo so. Ma sono anche un essere umano, e qualunque cosa abbia fatto resto un essere umano. Perciò sì, concedetemi l'eutanasia".
di Valter Vecellio
Il Garantista, 4 gennaio 2015
Tu chiamala, se vuoi, "ragione di stato". A metà dicembre l'ex vice-presidente degli Stati Uniti durante l'amministrazione di George W. Bush, viene intervistato dall'emittente televisiva Fox News a proposito del rapporto della Commissione intelligence del Senato sulle torture praticate dalla Cia nei confronti di terroristi o presunti tali. Cheney è un repubblicano rude e spiccio del Nebraska, lo stato "where the West begins".
Non porta pistola e cinturone, ma è come se fosse. Gli chiedono se il presidente Bush era al corrente di quanto accadeva; risponde: "His man knew what we were doing... He authorized it. He approved it".
Poi, certo: sostiene che quel rapporto fortissimamente voluto dalla senatrice democratica Diane Feinstein che parla di disonestà e brutalità" da parte della Cia, è pieno di fesserie (il termine usato è più forte e volgare). L'ex vice presidente repubblicano poi attacca il rapporto definendolo "completamente sbagliato", "pieno di fesserie".
Non è assolutamente vero, sostiene, che la Cia abbia ingannato l'amministrazione sul programma: "L'idea che la commissione sta cercando di far passare che la Cia fosse in qualche modo agendo fuori dalle regole e che noi non fossimo informati, che il presidente non fosse informato, è semplicemente una bugia". Per Cheney Bush "era informato di tutto... sapeva tutto quello che doveva e voleva sapere, conosceva le tecniche, e non c'è stato alcun tentativo da parte mia di tenerlo all'oscuro".
Tutti erano informati, e quello che si faceva non era fuori dalle "regole"; questa la verità di Cheney. Non solo: quelle che i legali dell'amministrazione Bush definiscono eufemisticamente "tecniche di interrogatorio" si sono rivelate efficaci, contrariamente a quel che si sostiene nel rapporto, sono servite a sventare attentati. Se Parigi vale una messa, sventare attentati vale un waterboarding. A muso duro Cheney domanda: "Che cosa siete preparati a fare per ottenere la verità su possibili futuri attacchi contro gli Stati Uniti?".
Il fatto è che la Feinstein si è trovata per le mani materiale (o parte di materiale) relativo a persone arrestate e interrogate per il loro possibile, o probabile, o sicuro coinvolgimento in organizzazioni terroristiche di matrice islamica e attentati. Certamente quel rapporto frutto del suo caparbio lavoro (e sicuramente anche da imbeccate venute dagli stessi ambienti che quegli episodi hanno prodotto, e per ragioni che si possono benissimo intuire) molti avrebbero voluto non vedesse mai la luce; nella "logica" alla Cheney rendere pubblico il comportamento di importanti istituzioni americane con compiti chiave per la sicurezza mentre è ancora in corso la guerra al terrorismo, è qualcosa di assai simile al tradimento; viene in mente l'iroso monologo del colonnello Nathan Jessep interpretato da uno strepitoso Jack Nicholson, nel film Codice d'onore: "Voi vi permettete il lusso di non sapere quello che so io: che la morte di Santiago, nella sua tragicità, probabilmente ha salvato delle vite.
Voi non volete la verità, perché nei vostri desideri più profondi, che in verità non si nominano, voi mi volete su quel muro! Io vi servo in cima a quel muro! ... Io non ho né il tempo né la voglia di venire qui a spiegare me stesso a un uomo che passa la sua vita a dormire sotto la coperta di quella libertà he io gli fornisco. E poi contesta il modo in cui gliela fornisco! Preferirei che mi dicesse: la ringrazio... e se ne andasse per la sua strada. Altrimenti gli suggerirei di prendere un fucile e di mettersi di sentinella. In un modo o nell'altro io me ne sbatto altamente di quelli che lei ritiene siano suoi diritti...".
Per quel che ci riguarda è, però, la tentazione di un attimo: da inguaribili don Chisciotte si continua a credere che per quanto ottimo possa essere un "diritto" dello stato (e una sua ragione), sia comunque preferibile un mediocre Stato di diritto. La domanda cui conviene cercare di rispondere è: l'integrità morale di un paese conta più o meno persino della vulnerabilità fisica dei luoghi e delle persone? Cheney (e Bush), come il colonnello Jessep dicono che l'integrità morale può e deve essere calpestata, se l'emergenza lo richiede. Il presidente in carica, Barack Obama, al contrario dice che "i duri metodi utilizzati dalla Cia sono contrari e incompatibili con i valori del nostro Paese, che le tecniche utilizzate dalla Cia hanno danneggiato significativamente l'immagine dell'America e la sua posizione nel mondo e hanno reso più difficile perseguire i nostri interessi con alleati e partner".
Continuerà, promette, ad usare la sua autorità "di presidente per assicurare che non faremo mai più ricorso a questi metodi".
Peccato che Obama non abbia mosso un solo dito per fare luce sulle ragioni che hanno spinto l'amministrazione Bush a scatenare la seconda guerra in Irak anche quando il "nodo" Saddam, come ci ricorda instancabile Marco Pannella, poteva essere risolto con il suo esilio; invece di questa soluzione pacifica, si è preferita una guerra: pressioni del complesso militare-industriale? Peccato che Obama abbia sostanzialmente "coperto" tutti coloro che hanno mentito adducendo ragioni che si sono rivelate false, basate su prove che non erano tali, per poter condurre questa guerra; peccato che Obama nei fatti abbia "perdonato i Bush e i Cheney, i Donald Rumsfeld e i Colin Powell; e peccato infine che tuttora appaia intenzionato a non aprire casi giudiziari, né a puntare il dito contro l'amministrazione che lo ha preceduto o il direttore della Cia John Brennan, al quale ha rinnovato la sua fiducia.
L'8 gennaio prossimo il rapporto della Commissione Intelligence del Senato americano sulle torture della Cia verrà pubblicato come libro. Gli esperti legali dell'Onu sostengono che gli Stati Uniti hanno l'obbligo derivante dal diritto internazionale, di mettere sotto processo i sospettati di aver praticato le torture, e che i responsabili potrebbero/dovrebbero finire in stato d'accusa all'estero. Al di là delle nobili, infiammate, parole anche per Obama l'integrità di un paese può essere sacrificata, come dicono (e hanno fatto) Bush e Cheney: meglio, insomma, "l'ottima" ragione di stato, che il "mediocre" stato di diritto.
www.ncr-iran.org, 4 gennaio 2015
Negli ultimi giorni 32 detenuti condannati a morte sono stati trasferiti dalla prigione di Ghezel Hessar a quella di Tehran-e Bozorg (la Grande Tehran) ad Hassan Abad, Tehran. I detenuti trasferiti provengono dalla sezione 2 e sono tra quelli che nelle scorse settimane avevano iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le esecuzioni collettive. Per terrorizzare questi prigionieri due aguzzini del carcere, Rajabzadeh e Norouzi, li hanno brutalmente picchiati e torturati appena arrivati alla loro nuova destinazione. Del gruppo fa parte anche Javad Jahani, uno studente di 25 anni, crudelmente frustato e ferito. Javad Jahani è stato arrestato arbitrariamente insieme a suo fratello Abedin Jahani quattro anni e mezzo fa.
La Resistenza Iraniana chiede all'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani e a tutti gli organismi in difesa dei diritti umani di adottare misure immediate ed efficaci per salvare le vite di questi prigionieri e per impedire che vengano minacciati, torturati e giustiziati.
Ansa, 4 gennaio 2015
Un detenuto del carcere di Rikers Island è stato trovato morto nonostante fosse sotto osservazione per il rischio di suicidio. Il caso riapre le polemiche sul carcere di New York, finito nel mirino del Dipartimento di Giustizia, che ha denunciato lo città per abusi sui detenuti. Il sindaco Bill De Biasio ha proposto una serie di cambiamenti, incluse telecamere di sorveglianza, programmi terapeutici per i detenuti e formazione per gli agenti carcerari.
Il sistema carcerario Usa è al centro della polemica anche dopo le accuse rivolte da Ahmed al-Ragye, figlio di Abu Anas al-Libi, morto ieri sempre a New York: "Riteniamo gli Usa responsabili della morte di mio padre. Ha sviluppato un cancro mentre era detenuto in America" ha detto all'agenzia Reuters Ahmed al-Ragye. Ragye ricorda che il padre, ritenuto responsabile degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998, è stato sottoposto a "un intervento chirurgico in un ospedale e rimandato in prigione nonostante le sue condizioni non fossero stabili".
www.pane-rose.it, 4 gennaio 2015
Se usciranno, ma non è affatto scontato, sarà per la decisione dell'emittente televisiva qatarina di voler chiudere Mubasher Masr Channel più che per un gesto di clemenza. Quel canale di Al Jazeera è un coltello nel fianco della casta militare del Cairo e risulta indigesto anche a poliziotti e magistrati. Per i servizi trasmessi i giornalisti australiano Peter Greste, egitto-canadese Mohamed Fahmy ed egiziano Baher Mohamed sono stati condannati chi a sette, chi a dieci anni, inanellando finora 371 giorni di galera. Motivi: concorso in terrorismo, attentato alla sicurezza nazionale e diffusione d'informazioni false, accuse respinte dai tre che sostengono d'aver solo svolto il proprio lavoro.
Fra cui interviste a taluni leader della Fratellanza Musulmana poi arrestati (Mohammed Badie) che non rappresentavano certo un'adesione alla politica della Confraternita come sostengono i pm. Eppure da oltre un anno l'aria di restaurazione, che aveva rovesciato il presidente Mursi e represso le proteste islamiche, non va per il sottile. Dopo i militanti della Brotherhood sono finiti dentro giornalisti, blogger, agitatori di Tahrir, oppositori di varie sponde. Rispetto alla massa degli attivisti incarcerati con numeri che oscillano fino alle 12.000 unità (il governo rigetta queste cifre ma non ne fornisce altre, tanto che da tempo si parla di cittadini desaparecidos), per i tre cronisti il tam-tam di sostegno è stato battente.
Da quello della potente tivù di Doha, a interventi di Amnesty International, interrogazioni di parlamentari europei e canadesi, però la situazione generale è rimasta ostile. La rinuncia a "mettere il naso negli affari egiziani per ordire complotti", che è l'accusa rivolta ai reportages di Al Jazeera, può distendere i rapporti fra Egitto e Qatar e ora i giudici hanno prospettato una revisione del processo. Anche per casi politici alla ricerca della piena legittimazione internazionale, come quello del presidente-generale Al Sisi, il corto circuito che si crea coi lavoratori della comunicazione e della documentazione è crescente. Un decreto emanato in novembre che può applicarsi alla situazione dei tre, ovviamente se un nuovo processo ridimensionerà le accuse, può prevedere l'allontanamento di cittadini stranieri che verrebbero espulsi. Non se ne avvantaggerebbe il cronista egiziano Mohamed.
Negli sviluppi aperti la direzione di Al Jazeera ha dichiarato che le autorità del Cairo "Possono scegliere di continuare a mostrare al mondo il proprio volto peggiore o liberare rapidamente i tre". Una stoccata che non risulterà gradita all'orgoglio del presidente, ma con cui lo staff televisivo qatarino cerca di giustificare la sostanziale rinuncia al principio dell'informazione su cui ha costruito il proprio successo. La partita sui tre è aperta e per nulla scontata. Comunque c'è chi sta molto peggio: per i free lance senza tutele e gli attivisti dell'opposizione islamica e laica la chiave delle celle è stata gettata.
di Davide Illarietti
Corriere della Sera, 4 gennaio 2015
San Quintino, come Alcatraz, non è famosa per il comfort. Al contrario. Per essere una delle prigioni più dure d'America - di sicuro la più tristemente celebrata da Hollywood, per il suo famoso "braccio della morte" - è anche un buon trampolino di lancio. O almeno potrebbe esserlo, per i diciotto detenuti selezionati dal programma "Code 7370".
L'iniziativa ha fatto scalpore oltre Atlantico: all'interno del carcere-simbolo della sedia elettrica, l'anticamera della morte più grande degli Stati Uniti, una classe di detenuti studia informatica e programmazione a livelli da Silicon Valley. "Alcuni dei detenuti di lungo corso non hanno mai usato un computer. Non hanno mai posseduto uno smart phone" spiegano gli ideatori del programma.
"Il reinserimento nel mondo del lavoro può essere estremamente difficile". Dietro le sbarre il tempo si ferma. E dopo due anni come dieci niente è più lo stesso, là fuori, nell'era di internet. Per questo l'associazione no-profit "Last Mile" ha lanciato il corso-pilota di quattro giorni su sette, otto ore al giorno, in cui i detenuti fanno programmazione intensiva con due docenti volontari di Hack Rock, un campus di San Francisco dove tre mesi di lezioni, di norma, costano non meno di 17 mila dollari. "In teoria, una volta fuori di prigione questi detenuti potrebbero guadagnare stipendi a sei cifre nella Silicon Valley" scrive ottimisticamente Ariel Schwartz su Co.Exist.
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