di Valeria Chianese
Avvenire, 14 gennaio 2015
Un anno, il 2015, che vedrà finalmente conclusa la riforma della giustizia. L'annuncio è del Guardasigilli Andrea Orlando che, soddisfatto dei risultati raggiunti finora e fiducioso in quelli che verranno, da Napoli, dove ha partecipato a un convegno sul tema della salute nelle carceri, ha ricordato che l'altro ieri "il presidente della Repubblica ha firmato gli ultimi due disegni di legge. Ne resta uno, quello sul processo civile, dopo di che saranno stati incardinati tutti". Il ministro si è anche detto certo che il Parlamento "licenzierà già ai primi di febbraio la riforma della responsabilità civile dei magistrati".
Il 2015, nei desiderata di Orlando, sarà anche il tempo per avviare "il ripensamento complessivo di esecuzione della pena" ossia della struttura carceraria e su questo tema saranno convocati gli Stati generali per raccogliere proposte e opinioni da vari soggetti, dall'intellettuale al volontario. E anche per dare un messaggio chiaro: "Il carcere - ha precisato - non è il luogo dove si esorcizzano le paure della società, va invece inteso come pezzo della società, per questo occorre costruire un fronte comune per cominciare una battaglia culturale nella società".
Un primo tassello pare già pronto con il progetto lavorativo destinato ai detenuti, e non solo, che sarà presentato in occasione della prossima visita di Papa Francesco a Napoli, il 21 marzo.
L'iniziativa in preparazione al ministero della Giustizia, cui ha fatto cenno il ministro Orlando durante l'incontro in Curia con l'arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe, subito dopo aver lasciato il convegno, sarà finanziata con i fondi ministeriali della Cassa ammende e fa parte del nuovo corso che il governo intende dare al sistema carcerario, tra cui rientrano il reinserimento sociale a pena conclusa e soprattutto, punto focale, le pene alternative alla detenzione.
Anche se finora il rovescio della medaglia è la chiusura da domani degli appalti alle mense a 10 coop sociali in altrettanti penitenziari. Segnale di ritrovata attenzione è stato proprio il convegno di ieri nel carcere di Poggioreale, promosso dalla Comunità di Sant'Egidio e dal Provveditorato dell'Amministrazione penitenziaria della Campania sulla riforma carceraria avviata dal decreto del 1° aprile 2008, che segna il passaggio di competenza dalla sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale.
Ne è risultato un quadro tra luci e ombre: alla riforma si sono allineate tutte le regioni italiane, tranne la Sicilia, ma ancora molti sono i problemi irrisolti, dai figli in carcere alla mancanza dei dati sulle tossicodipendenze in riferimento anche alle possibilità d'ingresso in comunità, alla scarsa percezione del problema sulle condizioni sanitarie in carcere, alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari il 31 marzo e alle ancora incerte alternative.
Il processo sanitario dietro le sbarre va messo a sistema: ritardi, risorse carenti, locali inidonei, tecnologia obsoleta rallentano il percorso. I detenuti presenti nei 202 istituti di pena italiani sono 53.623 contro gli oltre 64mila di un anno fa, ma la diminuzione del numero - sebbene siano cresciuti i servizi sanitari, in particolare quelli di prevenzione, e siano stati aperti nuovi reparti dedicati - non ha risolto il problema primario. Il carcere resta un luogo che produce depressione e disagio psichico. Anche per questo è in corso il procedimento per violazione dei diritti umani contro l'Italia presso la Corte europea di Strasburgo.
di Pietro Vernizzi
www.ilsussidiario.net, 14 gennaio 2015
"Quando ho visitato il carcere di Padova, sono rimasta colpita dalla dignità e dall'entusiasmo con cui i detenuti parlavano del loro lavoro. E soprattutto ho scoperto che l'incontro con Dio che ho fatto 42 anni fa, quando mi hanno detto della morte di mio marito, era lo stesso che hanno fatto queste persone in carcere".
Sono le parole di Gemma Calabresi, vedova del commissario Luigi Calabresi, ucciso da esponenti di Lotta Continua il 17 maggio 1972. Abbiamo sentito Gemma Calabresi a proposito del fatto che domani rischia di essere l'ultimo giorno di lavoro per i detenuti di dieci penitenziari coinvolti in un progetto realizzato da cooperative sociali e durato dieci anni. Un'opportunità importante per rieducare e riscattare chi in passato si era macchiato di crimini anche gravi. L'affidamento del servizio è scaduto a fine 2014, e per ora il ministero della Giustizia ha deciso di prorogarlo solo fino al 15 gennaio 2015.
Che cosa ne pensa della decisione di sospendere questo progetto?
Sono molto dispiaciuta e penso che sia veramente una decisione sbagliata. Vorrei invitare queste persone, che avranno certamente delle buone motivazioni, a farsi un giro in una di queste dieci carceri. Quando sono stata a Padova e ho parlato con i detenuti, mi hanno parlato del loro lavoro con una dignità e un entusiasmo tali che ho capito quanto il lavoro sia importante per l'uomo. Papa Francesco del resto parlando al Parlamento di Strasburgo lo ha detto chiaramente: "Quale dignità potrà mai trovare una persona che non ha il cibo o il minimo essenziale per vivere e, peggio ancora, il lavoro che lo unge di dignità?".
Qual è stata la sua esperienza incontrando i carcerati di Padova?
I detenuti che ho incontrato mi hanno detto: "Al mattino ci alziamo contenti perché andiamo a lavorare". Questo poi vuol dire che fanno 50 metri di corridoio, perché tutto si svolge in carcere, ma ciò che conta è il fatto di essere utili, occupati, di fare qualcosa per la società e di avere un po' di indipendenza economica.
Vada avanti a raccontare, signora.
C'è chi assembla biciclette, chi valigie, chi fa il catering, chi lavora nella mensa interna. Quando ho visto, ho pensato che a fare questo non dovrebbe essere solo un gruppo di carceri sperimentali, ma tutti i penitenziari. Sono convinta con decisione che la persona che è in carcere debba lavorare, avere una sua dignità e fare delle cose utili per la società. Ritengo che si debba arrivare proprio a un'autogestione della pulizia interna e del servizio mensa in tutti i penitenziari.
Lei com'è venuta a contatto con il progetto di Padova?
Ero stata invitata nel carcere perché quel giorno tre persone avevano fatto la scelta di aderire alla fede cattolica, e quindi si festeggiava. Uno riceveva il sacramento del battesimo, uno della comunione e uno della cresima. Quello che ho scoperto in quell'occasione mi ha veramente cambiato la vita.
Perché?
Ho capito che l'incontro che io ho fatto con Dio, lo stavano facendo anche i detenuti. Nel 1972, dopo che mi diedero la notizia che mio marito era stato ucciso, sentii la forte presenza di Qualcuno che veniva in mio aiuto. Per assurdo in quel momento avvertii un'enorme pace interiore, una forza enorme dentro di me e sentii che non ero sola. Ed è così che ho ricevuto il dono della fede da parte di Dio stesso.
Che cosa è cambiato in lei da quel momento?
Da allora ho sempre pensato che Dio aiuta le vittime, le persone che hanno subito un'ingiustizia e che vivono una grande sofferenza. Ma non mi era mai venuto in mente che Dio aiuta anche coloro che questa l'hanno provocata. Visitando il carcere di Padova mi si è aperto un mondo.
In che senso?
Queste due persone con cui ho parlato a lungo, e che erano lì perché giudicate colpevoli di omicidio, mi hanno raccontato il loro incontro con Dio descrivendo esattamente le stesse sensazioni provate da me il 17 maggio 1972 quando mi hanno detto della morte di mio marito. È stata un'impressione incredibile. Ecco perché oggi mi sento molto in sintonia con Papa Francesco, quando invita a pregare per i terroristi francesi. La gente è rimasta un po' stupita, mentre bisogna pregare lo Spirito Santo perché illumini anche chi ha ucciso e faccia capire loro l'errore enorme di uccidere delle persone.
Ansa, 14 gennaio 2015
"Le cooperative che lavorano in carcere rischiano di dover licenziare il 30% del loro personale. Una vera iattura per tanti progetti di recupero, che così verrebbero vanificati, con relativo spreco delle risorse economiche già impegnate". Lo afferma il deputato del Pd Edoardo Patriarca, componente della Commissione Affari Sociali.
"Le coop - spiega l'esponente del Pd - hanno comunicato agli istituti penitenziari i fabbisogni per il 2015, basati sui detenuti già in forza e su quelli di prossima assunzione in base alle commesse acquisite. Il Dap si è così accorto che l'ammontare complessivo richiesto, circa 9 milioni di euro, era superiore del 34% a quanto previsto nel fondo a disposizione: poco più di sei milioni di euro le risorse destinate al credito d'imposta per l'anno 2015, poi ridotte a quasi 5.900.000 euro - continua Patriarca. Dopo la chiusura delle cucine in dieci istituti, ora sembra che ci sia la volontà di abolire il lavoro nei penitenziari. Si è intrapresa una strada pericolosa, che non garantisce né i detenuti né i cittadini. Più lavoro, infatti, significa meno recidive".
Padova: Cooperativa Giotto invita Renzi per stop pasticceria
"Domani invitiamo formalmente il premier Renzi a Padova. Venga qui e dia un segnale, ci dimostri che non vuole far tornare l'Italia indietro a prima di Cesare Beccaria". Nicola Boscoletto, responsabile della Cooperativa Giotto, lancia da Padova l'appello del tavolo di lavoro "Emergenza lavoro carceri".
Il coordinamento è composto da tutte le cooperative che operano a livello nazionale nelle carceri ed è nato per contrastare la decisione del governo di concludere le esperienze di gestione da parte delle stesse cooperative delle cucine sorte all'interno degli istituti di reclusione e che impegnano i detenuti. Una decisione, che dovrebbe avere come data di entrata in vigore il 16 gennaio, che per Padova si tradurrebbe in un addio alla famosa pasticceria gestita dalla cooperativa, quella che per anni ha sfornato dolci e panettoni finiti tra i regali di papi e capi di Stato. Domani al carcere di Padova la cooperativa ha organizzato il "penultimo pranzo" (già oltre 150 le adesioni).
"Si tratta della sconfitta della società civile - ha continuato Boscoletto - domani si scrive una pagina buia della storia italiana, un pagina che assume risvolti inquietanti. A noi non resta che sperare che qualcuno alla fine non voglia firmare questa decisione. Si tratterebbe di una firma che non è una condanna per i detenuti ma una condanna per l'intera società, una condanna a pagare senza avere nulla in cambio se non vedere restituite delle persone peggiori di quelle entrate negli istituti carcerari".
di Valeria Di Corrado
Il Tempo, 14 gennaio 2015
Un esercito di auto blu costate un milione e mezzo di euro. Per la procura Corte dei conti del Lazio l'acquisto da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria di una quarantina di Bmw blindate per il trasporto in sicurezza dei suoi dirigenti ha comportato un danno erariale.
Con questa accusa sono stati citati in giudizio davanti ai giudici contabili il generale Enrico Ragosa, all'epoca dei fatti dg delle Risorse materiali, dei beni e dei servizi del Dap, il generale Alfonso Mattiello, ex presidente della commissione giudicatrice della fornitura di veicoli per il trasporto dei detenuti, e Claudia Greco, per oltre trent'anni direttrice del centro "Giuseppe Altavista", il polo che si occupa della gestione amministrativa del personale di polizia penitenziaria in servizio a Roma, della fornitura di beni e servizi e della manutenzione degli immobili del Dipartimento. Oggi i tre dirigenti si ritroveranno nella veste di imputati davanti alla sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti, nella prima udienza del processo.
"L'acquisto delle Bmw è stato deciso da due uffici che non dipendono funzionalmente dalla struttura diretta a suo tempo da Ragosa - spiega l'avvocato Gianfranco Passalacqua, legale del generale in pensione - Si tratta di atti imputabili ad altri dirigenti dell'amministrazione.
Il generale si era limitato a istituire una commissione per valutare la congruità del prezzo: stabilito in circa 40-50 mila euro a macchina. In nessun provvedimento compare la firma di Ragosa. Anzi, dopo che la Corte dei conti aveva rifiutato il visto, aveva chiesto l'annullamento dell'acquisto". Secondo l'accusa, nelle commesse per il noleggio delle auto blindate e nel loro acquisto successivo, i dirigenti dell'amministrazione penitenziaria avrebbero commesso degli illeciti che hanno comportato un inutile esborso di soldi pubblici.
"La contestazione del danno in un milione e mezzo di euro - conclude l'avvocato Passalacqua - è generica, perché basata solo sul valore delle Bmw, ma non implica che l'acquisto abbia comportato un danno all'erario". "L'amministrazione non solo non ha subito danni, ma ha conseguito consistenti vantaggi da quell'operazione - fa eco l'avvocato Maria Immacolata Amoroso, legale del generale Mattiello - Il mio assistito non ha comunque alcuna responsabilità. L'unico legittimato a eseguire quel genere di provvedimenti era Ragosa".
Non è la prima volta che al generale Ragosa, noto per aver affiancato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nelle indagini contro Cosa nostra e per aver fondato il Gruppo operativo mobile del Sismi, viene contestato dalla Corte dei conti un nocumento per l'erario.
La Procura contabile lo scorso ottobre l'aveva citato in giudizio per aver utilizzato indebitamente, dal 2009 al settembre 2011, le auto blu per il trasporto di mobili e bagagli e i suoi uomini di scorta per trasportare suoi familiari. L'accusa è di aver causato un danno di 390.214 euro al ministero della Giustizia, dato dalla somma di stipendi e indennità di missione per gli autisti e il costo del carburante e delle riparazione per le vetture del Dap.
Per gli stessi fatti, sul fronte penale, deve rispondere dell'accusa di truffa, peculato, abuso d'ufficio e falsi. In particolare, gli viene contestato di aver fruito delle prestazioni lavorative di 12 agenti del Dap nelle missioni da Roma a Genova "per ragioni falsamente attinenti alla sua tutela", dal momento in cui spesso il generale restava nella Capitale. Quando poi effettivamente si metteva in viaggio verso il capoluogo ligure, usava due auto: una per sé e l'altra "per il trasporto di bagagli, effetti personali e masserizie". La Corte dei conti, con ordinanza del 25 settembre 2014, ha sospeso questo giudizio in attesa della sentenza di primo grado del Tribunale di Roma e ha ordinato alla Procura un supplemento istruttorio sulla quantificazione del danno.
di Errico Novi
Il Garantista, 14 gennaio 2014
Dalle motivazioni della sentenza Cucchi, depositate ieri, arriva una svolta clamorosa: la Corte d'Assise che in Appello ha assolto tutti gli imputati spiega perché nessuno di loro può essere condannato per la morte di Stefano, ma chiede nello stesso tempo alla Procura di Roma di riaprire l'inchiesta e valutare le responsabilità dei carabinieri. Finora nessun militare dell'Arma è stato chiamato in giudizio per la morte di Cucchi, eppure secondo i giudici "le lesioni sono necessariamente legate a un'azione di percosse", e l'ipotesi secondo cui a compierla sarebbero stati i carabinieri che hanno avuto in custodia la vittima "non è un'astratta congettura". C'è un passaggio molto esplicito: "Non può essere definita un'astratta congettura l'ipotesi emersa in primo grado secondo cui l'azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che hanno avuto in custodia Cucchi".
Nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 31 ottobre ha assolto tutti gli imputati del processo per la morte di Stefano Cucchi, la Corte d'assise d'Appello di Roma chiede di aprire una nuova inchiesta. Nelle 67 pagine depositate ieri mattina si trovano da una parte le ragioni dell'assoluzione per le tre guardie carcerarie e per medici e paramedici dell'ospedale Sandro Pertini, dall'altra i giudici affermano che un pestaggio vi fu di sicuro, e che i responsabili andrebbero cercati tra i militari dell'Arma. Cioè tra coloro che tennero in custodia la vittima nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009.
I giudici rimettono dunque gli atti alla Procura e di fatto la obbligano a riaprire l'inchiesta. È uno sviluppo clamoroso. Che si ricongiunge con le parole pronunciate due mesi fa dal procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone: "Rileggeremo gli atti per capire se è possibile riaprire le indagini". Subito dopo, lo scorso 5 novembre, la famiglia di Stefano aveva presentato un esposto contro il professor Paolo Arbarello, perito chiave del processo.
Un atto che ha determinato l'apertura di uno specifico fascicolo da parte della Procura. Adesso i pm romani dovranno avviare un'ulteriore inchiesta sulla scorta delle motivazioni della Corte d'Assise. A questo punto la verità processuale affermata in Appello cambia radicalmente il quadro della vicenda. Perché appunto viene affermata come indiscutibile la circostanza del pestaggio, pur rimasto finora senza colpevoli, perché vengono avanzati pesanti sospetti sui carabinieri e anche per i passaggi con cui viene spiegata l'assoluzione di medici e infermieri.
Secondo il collegio presieduto da Mario Lucio D'Andria - composto dal giudice a latere Agatella Giuffrida e dai membri della giuria popolare - l'attività svolta dal personale dell'ospedale Pertini non è stata di apparente cura del paziente "ma di concreta attenzione nei suoi riguardi". Se il 22 ottobre del 2009 Stefano Cucchi morì fu perché era stato ricoverato in condizioni già gravissime. E "le lesioni subite da Cucchi", si legge nelle motivazioni, "sono necessariamente collegate ad un'azione di percosse e comunque a un'azione volontaria che può essere consistita anche in una semplice spinta che abbia provocato la caduta a terra con l'impatto sia del coccige, sia della testa contro una parete o contro il pavimento".
E che a colpire o spingere Stefano possano essere stati i carabinieri lo lasciano ipotizzare "concrete circostanze testimoniali" dalle quali emerge che "già prima di arrivare in Tribunale Cucchi presentava segni e disturbi che facevano pensare ad un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte". L'ipotesi di un coinvolgimento dei militari dell'Arma è stata avanzata tra gli altri anche da uno dei tre agenti di polizia penitenziaria finiti a processo, Nicola Minichini.
In alcune interviste la guardia carceraria invita a indagare proprio sull'intervento dei carabinieri di due diverse caserme di Roma. Nella sua dichiarazione al processo d'Appello, l'ultima prima della camera di consiglio, Minichini però si guardò dal sostenere queste ipotesi e disse che "i lividi sotto gli occhi di Stefano di sicuro non erano segno di percosse".
Dopo quest'ultima clamorosa svolta del caso, il senatore Pd Luigi Manconi, tra i più tenaci nella richiesta di giustizia per Cucchi, dichiara che da quelle motivazioni, tra le righe, si deduce come la Procura di Roma abbia "svolto le indagini in maniera maldestra e inadeguata". Ora, dice Manconi, c'è da augurarsi che le nuove "indagini siano condotte da pubblici ministeri coscienziosi e competenti".
di Riccardo Polidoro (Responsabile Osservatorio Carcere dell'Ucpi)
Il Garantista, 14 gennaio 2015
Uno schiaffo alle indagini. Le motivazioni della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello sulla morte di Stefano Cucchi, che il 31 ottobre scorso mandò assolti gli imputati, affermano chiaramente che l'attività svolta dalla Procura della Repubblica è stata carente e insufficiente. I giudici invitano l'ufficio inquirente a "svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse".
Dopo oltre 5 anni, dunque, è necessario ricominciare: le motivazioni della sentenza rappresentano anche uno schiaffo allo Stato. La Corte, infatti, sottolinea che "le lesioni subite da Cucchi sono necessariamente collegate ad un'azione di percosse e comunque ad un'azione volontaria". Con la sentenza di secondo grado viene confermato dunque un unico dato: la responsabilità istituzionale. Ma non vi è certezza su chi materialmente compì quegli atti vigliacchi e disumani su un giovane inerme che, in quel momento, era affidato ad apparati dello Stato. La vicenda giudiziaria si presta ad una serie di riflessioni.
La prima è l'importanza del grado di Appello. Irrinunciabile garanzia in un Paese democratico che vuole effettivamente assicurare ai cittadini un processo giusto che, nel contraddittorio delle parti, accerti la verità dei fatti. Solo il riesame della sentenza di primo grado può consentire di evitare la probabilità di errori e l'avvicinarsi, quanto più è possibile, alla realtà di quanto effettivamente accaduto. Va poi rivalutata e rafforzata l'udienza preliminare, da sempre ridotta ad un mero passaggio di carte tra la Procura e il Tribunale.
L'esame della "richiesta di rinvio a giudizio" da parte del Giudice è, quasi sempre, solo formale e mai sostanziale, laddove innanzi a una richiesta di rito abbreviato il processo viene rinviato per consentire lo studio degli atti. L'udienza preliminare dovrebbe, invece, essere il momento in cui, finalmente, il Giudice terzo valuta il lavoro svolto in solitudine dalla Procura e dice se le indagini sono state ineccepibili, ovvero meritano integrazioni, e se gli imputati devono affrontare il processo o essere prosciolti.
Le considerazioni di diritto devono, però, nel caso di Stefano Cucchi essere messe da parte, perché è prevalente evidenziare che l'iter processuale sino ad ora svolto ci ha lasciato un'unica certezza: si è trattato di un omicidio di Stato. Sia la condanna in primo grado, sia l'assoluzione in secondo, evidenziano tale drammatico dato, dinanzi al quale vi sono evidenti responsabilità politiche.
Da tempo le Camere penali denunciano quanto accade negli istituti di pena e nelle celle di sicurezza dei Tribunali. Innumerevoli sono state le archiviazioni dovute all'impossibilità d'indagare effettivamente, dinanzi al silenzio delle persone e all'impenetrabilità degli spazi. Gli inviti ad una riflessione più ampia sull'uso troppo disinvolto della custodia cautelare e sulla spesso inutile privazione della libertà personale, nonché sull'incapacità delle istituzioni di operare la necessaria sorveglianza sull'integrità fisica di chi è privato della libertà, hanno trovato insormontabili ostacoli dovuti ad una facile vena giustizialista priva di etica e lontana dalla cultura di civiltà, non solo giuridica, del nostro Paese.
Occorre una maggiore trasparenza istituzionale, che consenta di avvicinare i cittadini alle problematiche relative alla detenzione, affinché i diritti di colui che è ristretto siano sentiti come i diritti di tutti e la loro violazione sia fonte di una corale e civile protesta. Riaffermare con forza la centralità del diritto e della dignità della persona è un dovere politico, altrimenti anche l'auspicata introduzione nel nostro ordinamento del delitto di tortura servirà solo ad "accontentare" l'Europa, che la chiede, ma non ad evitare che altri crimini, come quello che ha visto soccombere Stefano Cucchi, restino impuniti.
di Federica Angeli
La Repubblica, 14 gennaio 2015
La procura di Roma potrà riaprire le indagini, si legge nelle motivazioni. Cosa ne pensa?
"Spero che qualcuno finalmente si decida a dirci chi è stato a ridurre così Stefano. Abbiamo questa sentenza che riconosce quel pestaggio e che nega che sia morto di fame e di sete però non c'è nessun colpevole. Da semplice cittadina mi chiedo: quale sarà il passo successivo?".
I medici sono stati "attenti nei riguardi del giovane" dicono i giudici.
"Quello che leggo mi lascia senza parole. Abbiamo avuto dei grandi luminari che nel corso del processo facevano dei convegni per dire "come abbiamo risolto il caso Cucchi". Bene: come lo hanno risolto il caso? Posso capirlo anche io?".
L'unica certezza giudiziaria è che Stefano fu picchiato. Quando secondo lei?
"Questo ce lo devono dire loro. Se avessi potuto farlo io non saremmo arrivati a questo punto".
"Si deve indagare sull'operato dei carabinieri". Avevate mai sollevato dubbi in questo senso?
"In realtà noi non abbiamo mai cercato dei capri espiatori. Noi con grande fiducia ci siamo messi nella mani della giustizia, la stessa che aveva ucciso mio fratello".
Quanto al fatto che non vi sia alcuna certezza sulla causa della morte?
"In Italia se si è uno dei cosiddetti ultimi si può morire senza una causa. La sola verità è che se non fosse arrestato non sarebbe morto".
Sulla sua pagina pubblica di Facebook ha attaccato, 12 ore prima delle motivazioni della sentenza, il procuratore Pignatone. Perché?
"Il mio non è un attacco a lui, sono preoccupata e mi auguro che se ora verranno svolte delle nuove indagini non siano mirate a difendere i pm".
In cosa avrebbero sbagliato i pubblici ministeri?
"Hanno sostenuto un processo in cui si voleva dimostrare che Stefano era morto di suo, non ho mai visto la capacità di ammettere che in fondo anche un magistrato può sbagliare e quindi si è andati al massacro, sostenendo che si trattava di lesioni".
Però in fondo hanno istruito un processo per la morte di suo fratello i pm, no?
"Ci dicevano "vedrete che sarete contenti". Ma contenti di cosa: di avere un processo che era già scritto? Il consulente della procura al tg5 prima ancora dell'inizio del processo, a incarico appena ricevuto, già dichiarava che era un caso di colpa medica".
Secondo lei come sono andate veramente le cose?
"Mio fratello è stato arrestato, è stato vittima di un pestaggio e poi del pregiudizio. Non l'hanno nemmeno guardato in faccia all'udienza di convalida. Sa chi è stato il vero assassino di Stefano? L'indifferenza e di indifferenza si può morire".
di Maria Nocerino
www.napolicittasociale.it, 14 gennaio 2015
Il ministro Orlando: "Il governo sta andando nella direzione giusta". "Poggioreale come esempio del superamento dell'emergenza sovraffollamento". Lo ha affermato oggi il ministro della Giustizia Andrea Orlando, presente a Napoli per il convegno promosso dalla Comunità di Sant'Egidio presso la casa circondariale intitolata a Giuseppe Salvia, dal titolo "2008-2014 - Riforma della salute in carcere: analisi, criticità e proposte".
Il carcere di Poggioreale, in effetti, attualmente ospita circa 1.900 persone, comunque di più della sua capienza massima (1.387), ma in numero nettamente inferiore rispetto all'anno precedente, quando si contavano circa 2.700 detenuti.
"Quasi mille detenuti in meno, una situazione impensabile fino a qualche tempo fa", così Orlando ha rivendicato gli ottimi risultati raggiunti in questo anno, a partire dal decreto cosiddetto "Svuota-carceri", per cui il numero complessivo dei detenuti presenti nelle carceri italiane è passato da 65mila a circa 54mila unità.
L'intervento del ministro Andrea Orlando
"Questo non vuol dire che non ci siano realtà in cui è ancora presenti il fenomeno - sottolinea il responsabile di Grazia e Giustizia del governo Renzi - ma per il primo anno nel 2014 la Corte Europea ha riconosciuto il superamento dell'emergenza". Dopo aver ribadito l'equità di diritti e la parità di trattamento e servizi tra persone libere e persone private della libertà personale, il ministro ha annunciato: "Siamo alla vigilia di un profondo cambiamento del sistema, da realizzare attraverso il coinvolgimento attivo di tutte le parti, non solo degli esperti, ma anche di chi si occupa di sociale, lavoro, economia, cultura", convocando per i prossimi mesi degli Sati Generali in materia. La salute, intesa come "stato di benessere psico-fisico", dunque, è in cima alle priorità del governo e non solo, secondo il delegato della Giustizia, deve essere garantita ma anche sostenuta attraverso un ruolo attivo e propositivo di tutti, anche in termini di prevenzione e monitoraggio.
Lo stato dell'arte della riforma della salute nelle carceri
Ma a che punto è l'attuazione della riforma avviata dal decreto del 1 aprile 2008 (che segna il passaggio di competenza dell'assistenza sanitaria dal ministero della Giustizia alle Asl, ndr)? Quello che emerge dall'incontro di oggi è un quadro segnato da luci e ombre: alla riforma si sono sì allineate tutte le regioni italiane (fatta eccezioni per la Sicilia), ma ci sono ancora molti problemi, a partire dalla mancanza di risorse, sia economiche sia umane, da destinare al lento ma inevitabile processo.
"Nelle carceri napoletane ci sono solo due centri diagnostici, a Poggioreale e Secondigliano - ha spiegato Tommaso Contestabile, provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria Campania - ridotti a semplici infermerie. I detenuti se vogliono operarsi devono aspettare liste di attesa di oltre 6 mesi e comunque non hanno a disposizione che pochi posti negli ospedali partenopei". "La prima richiesta che ci fanno i detenuti - ha detto oggi Don Virgilio Balducchi, ispettore dei Cappellani delle carceri - è quella di farmaci, un po' perché ne hanno davvero bisogno, in alcuni casi in sostituzione delle sostanze stupefacenti, in altri come risposta alla depressione che, di per sé, il carcere produce nelle persone".
Le proposte
Una delle proposte venute fuori dal convegno di stamane è quella di prevedere all'interno del nascente Ospedale del Mare un reparto capace di accogliere, in maniera adeguata, la popolazione carceraria di Napoli. Oltre a Contestabile, a parlarne è stata la garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania, Adriana Tocco, che ha anche lanciato un appello "per la sospensione della pena o il ricorso ai domiciliari nel caso di patologie particolarmente gravi, come quello di persone che devono affrontare chemioterapie o dialisi, o che hanno subito un ictus e sono rimaste paralizzate". Un invito a vigilare, invece, arriva dal mondo del volontariato, rappresentato stamattina da Stefania Tallei, della Comunità di Sant'Egidio: "I direttori degli istituti devono monitorare le condizioni di salute dei detenuti, anche se non ne hanno più la stretta responsabilità e competenza".
Il ruolo della Regione Campania
"Il punto non è tanto di chi sia la competenza, ma il modo in cui si garantisce la giusta accoglienza alle persone private della libertà", ha precisato Ernesto Esposito, direttore generale dell'Asl Napoli 1, che ha anche prodotto un opuscolo sul tema (L'offerta assistenziale di sanità penitenziaria in Asl Napoli 1 Centro).
La Regione Campania dal canto suo non può fare molto se non ci sono fondi a livello centrale. A sostenerlo nel corso dell'incontro, moderato da Antonio Mattone della Comunità di Sant'Egidio, è stato il governatore della Campania, Stefano Caldoro: "Come in un sistema di vasi comunicanti, la nostra regione dipende strettamente dalle altre e dal livello di spesa che si decide di destinare al livello territoriale. La popolazione ristretta, come quella carceraria, ha lo stesso diritto alla cura del resto della popolazione e così vive anche gli stessi problemi e le stesse criticità generali".
La Comunità di Sant'Egidio
La Comunità di Sant'Egidio è presente in 17 carceri italiane (Lazio, Campania, Toscana, Liguria, Piemonte). Svolge, tra gli altri, interventi di prima assistenza: distribuzione di generi di prima necessità, divenuti indispensabili e addirittura richiesti dalle amministrazioni, a causa del sovraffollamento e dei tagli; colloqui di sostegno e orientamento, espletamento di pratiche burocratiche, ricerca di lavoro e di sistemazioni alloggiative al momento dell'uscita dal carcere; informazione, orientamento sui contenuti delle normative, degli ordinamenti penitenziari e sulla loro applicazione; animazione culturale e sociale; visite a detenuti e sostegno in regime di detenzione domiciliare; corrispondenza epistolare con circa 500 detenuti in carceri lontane; mediazione culturale e monitoraggio del rispetto dei diritti della persona.
di Claudia Procentese
Il Mattino, 14 gennaio 2015
"Il 2014 è stato l'anno del superamento dell'emergenza sovraffollamento, riconosciutoci dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. A Poggioreale ci sono mille detenuti in meno. Ma il 2015 deve essere l'anno perii ripensamento dell'esecuzione della pena, della concezione di carcere. È una battaglia culturale.
Per questo in primavera convocheremo gli stati generali sulla condizione carceraria per lanciare un messaggio al Paese: il carcere è parte, non un pezzo distinto della società". È l'annuncio fatto ieri dal ministro della Giustizia Andrea Orlando a conclusione dei lavori del convegno, promosso dalla Comunità di Sant'Egidio nella casa circondariale di Poggioreale, sulla riforma penitenziaria che ha visto nel 2008 il difficile passaggio di gestione sanitaria al Ssn, ovvero alle Asl territorialmente competenti.
"Il paziente detenuto è un cittadino - ha sottolineato il Guardasigilli - e la tutela della sua salute è compito di chi ha disposto la privazione della libertà personale". "Il diritto costituzionale alla salute risulta difficile da garantire al Sud - ha spiegato il presidente della Regione Stefano Caldoro, intervenuto all'incontro moderato da Antonio Mattone: in Campania il deficit di personale è di 8mila unità, il solo peso pro-capite sul personale medico è di 524 euro, la media nazionale è di 664".
Di qui l'importanza della collaborazione tra Asl e Dap, poiché "non importa chi sia il suo datore di lavoro, il medico deve essere formato all'accoglienza" come ha ribadito Ernesto Esposito, direttore generale dell'Asl Napoli 1 Centro, illustrando i dati sull'offerta assistenziale distribuiti in opuscoli. Insomma, un lavoro inter-istituzionale perché "la cura ricade sulla qualità della pena, ma la pena può ricadere sulla qualità della cura" ha detto il direttore del carcere di Poggioreale, Antonio Fullone, tra i partecipanti al dibattito insieme a Antonio Bonaiuto, presidente della Corte d'Appello di Napoli, al procuratore capo Giovanni Colangelo, e ai relatori (Adriana Tocco, garante dei detenuti Regione Campania, Carmine Antonio Esposito, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Roberto Di Giovanpaolo, presidente nazionale Forum Salute dei detenuti, Liberato Guerriero, direttore dei carcere di Secondigliano, don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, Stefania Tallei della Comunità di Sant'Egidio, Franco Milani del Gruppo tecnico interregionale Lombardia Sanità penitenziaria, Alessandro Barbano, direttore de "Il Mattino").
Tommaso Contestabile, provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria denuncia: "A Napoli abbiamo due centri clinici penitenziari ridotti ad infermerie, lunghe le liste d'attesa per i ricoveri". "Il medico non deve occuparsi solo della prestazione ma di tutto il contesto - ha detto il vice capo del Dap Francesco Cascini - così come il direttore deve vigilare sulla corretta cura ai detenuti. La questione sovraffollamento non si riduce ai metri quadrati, ma investe l'accesso totale ai servizi".
Cura e custodia. Binomio più sofferto nel caso degli Opg. "È l'ultima proroga - ha ribadito Orlando, che al cardinale Sepe ha offerto un finanziamento per un progetto lavorativo da presentare durante la visita di Papa Francesco - e le Regioni che non provvederanno entro marzo alla loro chiusura saranno commissariate. La Campania ha dato una risposta rapida e convincente".
Askanews, 14 gennaio 2015
"Perché Fabrizio Corona è ancora in prigione? Perché? È puro accanimento. Ma di che cosa stiamo parlando? Di un ragazzo che ha fatto qualche fotografia ed è fuggito a bordo di una Fiat 500 in Portogallo? Suvvia. Se non lo liberano, se non gli consentiranno di accedere a misure alternative al carcere, se non avrò la possibilità di ospitarlo nella mia comunità, racconteremo una triste storia della giustizia italiana".
Così, sul numero di "Chi" in edicola domani, Don Antonio Mazzi, fondatore della comunità Exodus, svela un retroscena del percorso giudiziario di Fabrizio Corona, che sta scontando una pena di 9 anni e 8 mesi nel carcere di Opera.
Il prossimo 22 gennaio, infatti, il tribunale di sorveglianza di Milano discuterà l'istanza di detenzione domiciliare presentata dai difensori dell'ex agente fotografico. "Non voglio nemmeno pensare che la richiesta non venga accettata", prosegue don Mazzi.
"Ho visto Fabrizio di recente. Ha attraversato un mare in tempesta. Non sta bene. La magistratura lo ha trasformato in un caso chissà per quali motivi. Non è un terrorista, non è un mafioso. Si sta facendo la galera per un reato morale.
La magistratura è scivolata su una banalità. Io sono incazzato. Nella mia comunità ho ospitato Erika De Nardo, che ha ucciso madre e fratellino (il delitto di Novi Ligure, ndr). Per il duplice omicidio è stata condannata a sedici anni. Due in più di quelli comminati a Corona, che era stato condannato a quattordici anni, ora commutati a nove anni e otto mesi. A Natale, dopo aver celebrato la messa in carcere, non l'ho visto bene.
Sono pronto da anni ad accogliere Fabrizio qui. I magistrati hanno la documentazione in mano che dimostra come la comunità Exodus sia idonea per recuperare il detenuto Corona. Qui da me lo aspetta la palestra. Il suo ruolo sarà quello di far sudare i miei "ragazzi disperati", che non hanno voglia di faticare. Il suo compito è già pronto. Lo aspetto, anzi lo aspettiamo qui".
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