Nova, 14 gennaio 2014
Il presidente della Repubblica tunisino, Beji Caid Essebsi, ha concesso la grazia a 2.135 detenuti in occasione della Festa dei giovani e della rivoluzione. La decisione è stata presa durante una riunione presieduta dal ministro della Giustizia, Hafedh Ben Salah.
La grazia prevede una limitazione delle pene detentive che per 1.322 detenuti garantirà la scarcerazione immediata. La grazia si basa sul principio di uguaglianza fra i detenuti, la natura del reato, il tempo trascorso in carcere e il comportamento dei detenuti e non riguarda persone colpevoli di crimini di grave entità, terrorismo e incitamento all'odio.
Nova, 14 gennaio 2015
Il presidente egiziano, Abdul Fatah al Sisi, intende rilasciare quanto prima alcuni giovani detenuti nelle carceri del paese. Secondo fonti della stampa egiziana, decine di giovani, in particolare gli studenti delle università del Cairo di Al Azhar ed Ein Shams, sono stati arrestati per i disordini e gli atti di vandalismo durante le dimostrazioni dello scorso anno, mentre alcuni giovani attivisti sono in carcere dopo l'approvazione di una controversa legge sulle proteste. Al Sisi, hanno riferito le fonti, sarebbe intenzionato a rivedere e modificare la legge sulle manifestazioni, liberando alcuni dei detenuti in vista delle elezioni parlamentari che si terranno dal 21 al 23 marzo.
Redattore Sociale, 13 gennaio 2015
A Bruxelles si è riunito l'Osservatorio europeo sul carcere, promosso da Antigone, che ha valutato le condizioni di detenzione in diversi Paesi europei. Prendendo atto che non sempre sono conformi alle regole penitenziarie.
Redattore Sociale, 13 gennaio 2015
L'analisi del sistema carcerario effettuato dall'Osservatorio europeo sulla detenzione, che fornisce dieci pillole per migliorare gli standard dei diritti umani nei paesi Ue. Monitorare il sistema penitenziario su scala europea.
di Daniele Biella
Vita, 13 gennaio 2015
L'incubo diventa realtà per le 10 cooperative sociali coinvolte nella gestione delle mense carcerarie: smentita l'ipotesi di proroga governativa, dal 15 gennaio stop al servizio. "Non ci sono parole per quanto sta accadendo, doveva essere il governo più vicino al sociale, si dimostra il peggiore dell'ultimo decennio", denuncia Silvia Polleri.
www.ilsussidiario.net, 13 gennaio 2015
Via le cooperative sociali dalle carceri. Il governo tira dritto, e a quanto pare non è intenzionato a rinnovare l'affidamento del servizio per la fornitura di pasti ai detenuti. Con il provvedimento andrà perduta l'opportunità, per i detenuti che aderiscono al progetto, non solo di lavorare in carcere, ma anche di imparare un lavoro, in modo da essere pronti al "dopo", a quando saranno in libertà. Un duro colpo alla loro dignità, a quella riscoperta di sé come uomini che viene dal lavoro.
Redattore Sociale, 13 gennaio 2015
Il 15 gennaio le dieci cooperative che hanno in gestione le mense di nove carceri italiane dovranno restituire le chiavi. La Cassa delle Ammende non ha approvato la proroga fino al 31 gennaio dei progetti. Il Dap però incontrerà nei prossimi giorni i responsabili delle cooperative.
Ansa, 13 gennaio 2015
"Anche il carcere è luogo sensibile, da monitorare costantemente, per scongiurare pericolosi fenomeni di proselitismo del fondamentalismo islamico tra i detenuti presenti in Italia. La Polizia Penitenziaria, attraverso gruppi selezionati e all'uopo preparati, monitora costantemente la situazione, ma non dimentichiamo che oggi è ancora significativamente alta la presenza di detenuti stranieri in Italia. Rispetto agli oltre 53.600 presenti alla data del 31 dicembre scorso, ben 17.462 erano stranieri e di questi circa 8mila di Paesi del Maghreb e dell'Africa".
È la denuncia del segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece. Capece ricorda come: "indagini condotte negli istituti penitenziari di alcuni paesi europei tra cui Italia, Francia e Regno Unito hanno rivelato l'esistenza di allarmanti fenomeni legati al radicalismo islamico, che anche noi come primo Sindacato della Polizia Penitenziaria abbiamo denunciato in diverse occasioni.
Tra questi fenomeni, vi è la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, i quali, pur non avendo manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell'entrata in carcere, sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l'influenza di altri detenuti già radicalizzati. Un po' come accadde ai tempi del terrorismo, quando la consistente detenzione di molti terroristi - in particolare delle Brigate Rosse - portò delinquenti comuni ristretti in carcere ad abbracciare la lotta armata in carcere".
Il Sappe evidenzia infine che "nel periodo giugno-settembre 2004 l'Ufficio per l'Attività Ispettiva e del Controllo dell'Amministrazione Penitenziaria ha effettuato un primo monitoraggio, teso a verificare la possibilità e le modalità d'incontro, sia di natura casuale (rientrante nella normale vita d'Istituto) sia quelli finalizzati alla professione della fede religiosa, costituzionalmente garantita, il cui esito ha permesso di venire a conoscenza che il carcere rimarcava fedelmente la realtà geografica strutturale esterna. E le regioni con una maggiore concentrazione di ristretti musulmani sembravano essere quelle del Nord e la Campania o comunque altre località le cui realtà esterne rilevavano una forte presenza della comunità islamica rappresentata da centri islamici e Moschee.
Questo fa comprendere il gravoso compito affidato alla Polizia Penitenziaria di monitorare costantemente la situazione nelle carceri per accertare l'eventuale opera di proselitismo di fondamentalismo islamico nelle celle, anche alla luce dei tragici fatti di Parigi. Ma per fare questo, servono anche fondi per la formazione e l'aggiornamento professionale dei poliziotti penitenziari nonché per ogni utile supporto tecnologico di controllo, fondi che in questi ultimi anni sono stati invece sistematicamente ridotti e tagliati dai Governi che si sono via via succeduti alla guida politica del Paese.
di Damiano Aliprandi
Il Garantista, 13 gennaio 2015
La stretta repressiva invocata da Alfano esiste già. Basta essere musulmani e sospettati di terrorismo per vedere i proprio diritti negati.
Leggi speciali, ritiro del passaporto e applicazione di misure antimafia a sospetti terroristi. Questo è ciò che prospetta il ministro degli interni Angelino Alfano come reazione all'attentato jihadista al Charlie Hebdo, a Parigi. Ancora una volta lo stato di diritto vacilla e c'è un'attenzione particolare alle nostre disastrare carceri. Che l'istituzione carceraria rischi di diventare una fabbrica di nuovi terroristi è una realtà più che concreta.
Un ragazzo musulmano che entra in carcere per un furtarello, corre il pericolo di subire un lavaggio del cervello dai fanatici religiosi e magari essere reclutato per entrare a far parte di una cellula terroristica. Ma il reclutamento viene facilitato proprio dalla repressione che avviene all'interno delle carceri e che Alfano vorrebbe accentuare ancora di più in nome della lotta al terrorismo.
La Guantánamo italiana
Fino a qualche tempo fa l'Italia aveva una piccola Guantánamo, ovvero il carcere "speciale" sardo di Macomer che provocò numerose proteste da parte dei detenuti islamici - la maggior parte di loro in attesa di giudizio - per presunte persecuzioni religiose e civili nel regime di massima sicurezza. L'associazione Antigone denunciò i maltrattamenti a cui sarebbero stati sottoposti i presunti terroristi fin dal loro arrivo nel carcere, Presunte violenze confermate anche all'avvocato Rainer Burani, legale di numerosi imputati di 270bis.
"I detenuti mi hanno riferito di non poter comprare le medicine, che costano molto, perché non hanno le possibilità economiche e il carcere non le passa. Inoltre non hanno la possibilità di lavorare in prigione", raccontò il legale. "Bisogna tener conto che molti di loro non ricevono soldi né pacchi dalle famiglie, anche perché spesso si trovano in Italia da soli". Particolarmente dure le condizioni di carcerazione: "Mi hanno detto che vivono in isolamento continuo, con il passeggio attaccato alla cella di sette metri quadrati e la porta sempre chiusa - proseguiva Burani -. Inoltre non possono avere vestiti personali né possono contattare i volontari, anche per motivi religiosi". "Questi detenuti sono sottoposti in modo quasi burocratico all'isolamento", spiegò un altro avvocato specializzato della difesa dei presunti terroristi, Luca Bauccio.
"Il dramma è che si è passati da una politica emergenziale a una normalizzazione dell'emergenza. I 270bis sono trattati con un automatismo burocratico - che prevede l'isolamento e altre misure - senza che alla base ci sia una valutazione reale dei rischi e della loro pericolosità". Nel 2009 i detenuti musulmani sottoposti al regime duro al carcere di Macomer inviarono una lettera descrivendo la loro condizione, esordendo con queste parole di denuncia. "Vogliamo raccontare alla associazione gli abusi di potere contro i prigionieri islamici che si verificano al carcere di Macomer (Nuoro). Una piccola Guantánamo nell'isola di Sardegna. Però adesso i prigionieri di Guantánamo stanno meglio di noi che siamo chiusi in questo lager". Oggi il carcere in questione è stato chiuso, e i detenuti sono stati trasferiti in altre carceri speciali.
Livello di sicurezza AS2
Per i detenuti musulmani accusati di terrorismo, nel 2009, è stato creato appositamente un nuovo livello sicurezza, denominato Alta sicurezza secondo livello (As2), con particolari caratteristiche: isolamento dagli altri reclusi, colloqui e telefonate in numero ridotto (quattro al mese invece di sei), ora d'aria da svolgersi in aree particolari, porta della cella blindata sempre chiusa. E inoltre niente radio né televisione, divieto di leggere giornali arabi, libri e vestiti centellinati, posta controllata e fornelli del gas consegnati giusto il tempo necessario per cucinare e subito ritirati.
Ma soprattutto nessuna possibilità di entrare in contatto con gli altri detenuti, anche per evitare il rischio di proselitismo tra gli islamici imputati di reati comuni. In pratica un circuito speciale all'interno del circuito speciale ad alta sicurezza e ovviamente i detenuti considerano questo modo di procedere una ghettizzazione e un'etichettatura ingiusta, subita per di più prima ancora di essere stati condannati. Quanti di essi poi, per reazione, rischiano davvero di diventare terroristi veri? Attualmente sono circa una quarantina, tutti maschi, i detenuti islamici rinchiusi nelle prigioni italiane e accusati di terrorismo internazionale, il reato previsto dall'articolo 270 bis del codice penale. E questo reato - utilizzato recentemente anche per accusare i tre ragazzi No Tav, recentemente assolti - è un regalo di Al Qaeda.
Nella sua versione attuale venne infatti istituito dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 alle Torri gemelle, quando la situazione politica internazionale, con le guerre in Iraq e Afghanistan, radicalizzò ulteriormente l'attività dei gruppi islamici. La conseguenza fu quella di estendere un reato che puniva gli atti di violenza compiuti contro lo Stato italiano anche a quelli mossi in atto contro altri paesi. Per molti avvocati penalisti, si tratterebbe di una mostruosità giuridica. "È chiaro che lo Stato deve difendersi, ma ho forti dubbi che gli episodi che ci troviamo a trattare in Italia possano essere inquadrati come terrorismo internazionale", spiegò ad esempio Carlo Corbucci, legale di molti imputati per il 270bis e autore del libro "Il terrorismo islamico in Italia: realtà e finzione". Ma a preoccupare Corbucci sono soprattutto le successive modifiche apportate all'articolo 270: "L'ultima versione, il 270 quinqes, arriva a colpire anche chi scarica materiali, o semplicemente li visiona, dai siti internet considerati vicini ad Al Qaeda".
Il ruolo dei magistrati
Il ministro Alfano ha posto una particolare attenzione alle carceri, nelle quali sono recluse decine di migliaia di stranieri, molti dei quali provenienti dal mondo arabo. E viene rispolverato un dossier redatto nel 2010 dall'allora capo del Dap Franco Ionta, che parlò di circa 40mila detenuti sensibili al richiamo integralista islamico.
Si rischia così nuovamente - al livello istituzionale - di equiparare la fede religiosa islamica al terrorismo. Il dossier in questione è composto da 136 pagine e spiega in maniera dettagliata il rischio potenziale del reclutamento jhadista. Per arrivare a compilare la lista dei possibili reclutatori la polizia penitenziaria ha monitorato "i normali aspetti di vita quotidiana" di centinaia di carcerati: "flussi di corrispondenza epistolare, colloqui visivi e telefonici, somme di denaro in entrata e in uscita, pacchi, rapporti disciplinari, ubicazione nelle stanze detentive, frequentazioni e relazioni comportamentali".
Informazioni che confermano quanto avevano segnalato i servizi segreti con un rapporto nel quale indicavano "un'insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta da "veterani", condannati per appartenenza a reti terroristiche, nei confronti di connazionali detenuti per spaccio di droga o reati minori". In realtà i dati non sono attendibili perché si rifanno agli atti giudiziari che hanno portato in carcere i presunti terroristi. Ciò significa che l'analisi si è fatta in base alle accuse ancora non confermate dalla Cassazione. Dagli atti sono state identificate varie sigle che ipoteticamente ricercano nuovi affiliati: si tratterebbero del Gruppo Salafita per la predicazione ed il combattimento (Algeria); Gruppo islamico combattente marocchino; Ansar ai-Islam (Medio Oriente); Hamas ) e naturalmente al Qaeda.
"L'elemento psicologico ed emozionale di cui l'individuo è vittima entrando nel sistema carcerario - segnala il rapporto del Dap - è divenuto col tempo un fertile terreno per i reclutatori delle organizzazioni estremistiche islamiche, che nell'ambito del sistema carcerario hanno saputo col tempo costruire una poderosa rete di controlla e manipolazione". Ma il rapporto dimentica di citare le condizioni dure cui l'istituzione carceraria sottopone i detenuti in attesa di giudizio di fede musulmana e accusati di terrorismo. È elemento psicologico "perfetto", supportato dallo Stato.
Italpress, 13 gennaio 2015
"Sulla questione delle cucine nelle carceri chiederò al ministro Andrea Orlando di valutare approfonditamente l'opportunità di procedere al rifinanziamento di una sperimentazione che ha avuto risultati positivi in tutta Italia. I numeri parlano chiaro: chi tra i detenuti ha avuto la possibilità di imparare un mestiere durante la detenzione, una volta libero, commette nuovi reati solo nel 2 dei casi".
Lo afferma il senatore e vicesegretario vicario Udc Antonio De Poli, che presenterà un'interrogazione parlamentare indirizzata al Guardasigilli con cui si chiederà di affrontare il problema delle cooperative sociali che gestiscono il lavoro in 10 strutture penitenziarie.
"Il lavoro in carcere non può essere considerato un optional. I detenuti assunti dalle cooperativa, stando ai risultati diffusi dal Ministero stesso, hanno avuto modo di acquisire professionalità decisive per il loro reinserimento sociale".
De Poli cita tra tutti il caso di Padova dove "si trova un'eccellenza con i panettoni (donati anche a Papa Francesco) prodotti da un laboratorio pasticceria che si trova all'interno del carcere Due Palazzi".
"Il 15 gennaio scade la convenzione nelle 10 strutture penitenziarie - sottolinea. La notizia informale di venerdì è che non è stata concessa un'ulteriore proroga per 16 giorni, fino al 31 gennaio, come avrebbe comunicato il ministro Orlando in un incontro avvenuto il 30 dicembre a Roma. Da qui la decisione dei direttori delle 10 cooperative sociali coinvolte di inviare un'altra richiesta di incontro urgente con il ministro, il capo di Gabinetto Giovanni Mellilo e con il capo del Dap Santi Consolo. Ora il caso sbarca in Parlamento".
- Giustizia: curarsi in carcere, il diritto del detenuto conviene a tutti
- Giustizia: caso Cucchi; motivazioni sentenza di appello "fu picchiato, ora nuove indagini"
- Giustizia: un anno in cella da innocente, il vero rapinatore confessò ma non gli credettero
- Massa: i detenuti potranno scegliere il medico di fiducia (tra quelli operanti in carcere)
- Giustizia: caso Loris; l'avvocato di Veronica Panarello "attendiamo ancora esiti esami Dna"