di Irene Argentiero
La Difesa del Popolo, 13 giugno 2019
"Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo" (At 2,1). Inizia così il passo degli Atti degli Apostoli con cui si apre la liturgia della Parola nella domenica di Pentecoste. E si sono ritrovate "tutte insieme nello stesso luogo" le 120 persone che hanno deciso di trascorrere la Pentecoste nel "cenacolo" del "Due Palazzi". Con loro anche una trentina tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria e volontari del carcere di Padova. "Tutti insieme nello stesso luogo", persone di nazionalità, cultura e storie diverse, dalle 8 alle 15, senza contatti con il mondo esterno, senza cellulari, pc o tablet.
"A pranzo in carcere", il titolo dell'iniziativa nata dalla collaborazione tra la direzione e la parrocchia del carcere "Due Palazzi", l'associazione "La Difesa s'incontra" e la cooperativa Work Crossing. "La nostra Pentecoste con voi", annunciava nei giorni scorsi dalla sua pagina Facebook l'associazione (emanazione del settimanale diocesano "La difesa del popolo"), rilanciando un post de "Sulla strada di Emmaus".
"È un'iniziativa semplice - racconta don Marco Pozza, parroco del "Due Palazzi" - nata per far conoscere la realtà del carcere e per dare la possibilità, a chi vuole, di verificare se quello che si conosce o si sa del carcere corrisponde veramente alla realtà". Un'iniziativa semplice, che ha riscosso fin da subito grande consenso. "Per ragioni organizzative si è trattato di una proposta a numero chiuso - spiega don Marco -. Il termine per le adesioni era stato fissato per i primi di maggio. Più di 60 le persone che sono rimaste in lista d'attesa".
Tre i momenti che hanno scandito la Pentecoste nel "cenacolo" del "Due Palazzi". La giornata è iniziata coi racconti e le testimonianze sul e dal carcere. Due ore di dialogo con chi oggi si trova nel "Due Palazzi" per scontare una pena. Ma non solo. Due ore per confrontarsi anche con quei pregiudizi che - prima di scoccare come frecce appuntite dall'arco delle nostre certezze - non tengono quasi mai conto delle storie di vita (tutt'altro che semplici) di chi oggi si trova in carcere. Il dialogo, fatto di parole, si è poi aperto e confrontato con la Parola, durante la celebrazione della messa nella cappella del carcere. Dalla mensa eucaristica si è passati, quindi, alla mensa del "Due Palazzi", per continuare - uno accanto all'altro - il dialogo e la condivisione. Per ascoltarsi e comprendersi, com'è capitato alla gente che - così raccontano gli Atti degli Apostoli - giunta al Cenacolo, sente i discepoli colmi di Spirito Santo parlare nella propria lingua.
"Lo Spirito Santo ci ricorda che Cristo è all'opera anche là dove non si pensa", commenta don Marco Pozza. Una Pentecoste, quella nel "cenacolo" del "Due Palazzi" di Padova, vissuta da "reclusi" dietro le sbarre, ma nella libertà di chi osa andare oltre le barriere della paura e del pregiudizio.
di Francesco Abate
L'Unione Sarda, 13 giugno 2019
E se la Lapponia diventasse la Sardegna e l'ispettore della polizia segreta Jalmari Jyllänketo si chiamasse invece Gianchetto Lodé? Ecco che il romanzo "La fattoria dei malfattori" di Arto Paasilinna (Iperborea) diventa l'ispirazione perfetta per un gruppo di detenuti reclusi nella Casa circondariale di Uta Ettore Scalas, impegnati nella scrittura di un romanzo collettivo.
Dopo aver partecipato al laboratorio di lettura e scrittura creativa portato avanti dalle associazioni Tusitala e Terra Atra, venerdì mattina presenteranno il lavoro finale al resto della popolazione carceraria, agli educatori e psicologi, all'area educativa e al personale del carcere. Il testo verrà poi presentato e distribuito attraverso il Sistema bibliotecario cagliaritano e nel circuito dei Festival letterari sardi.
Dallo scorso febbraio sono stati coinvolti più di quaranta detenuti, di età, nazionalità e culture diverse grazie al lavoro dei volontari Carlo Birocchi, Maddalena Brunetti, Raffaele Cattedra, Rosi Giua, Francesca Mulas e Margherita Riva. A fine giugno partirà il secondo laboratorio del progetto "Narrazioni Scatenate", a cui le associazioni affiancheranno l'attività di cineforum e l'organizzazione di incontri: sono attesi Uliano Lucas, Cristiano Cavina e Gianni Stocchino.
La Nuova Sardegna, 13 giugno 2019
Questo è l'obiettivo della mostra che si terrà nello spazio Faber dal 17 al 22 giugno. Protagonisti i detenuti di Nuchis, autori di dipinti, sculture e opere di artigianato ispirate agli scatti di alcuni fotografi che attraverso le loro immagini hanno portato il mondo esterno all'interno del carcere. "Il varco nel muro" è il titolo della mostra nella quale saranno esposti sia i lavori dei carcerati che le foto dei fotografi.
"L'arte come ponte fra il dentro e il fuori - spiega Edy Baldino, garante dei diritti dei detenuti nel comune di Tempio che ha organizzato l'evento in collaborazione con l'area educativa del carcere di Nuchis e l'autorizzazione e supervisione della direzione penitenziaria.
Il progetto nasce dall'idea di utilizzare l'arte per creare un collegamento fra le persone detenute e il territorio circostante. I detenuti hanno potuto vedere fuori dalle sbarre attraverso gli occhi di fotografi locali, riproducendo, poi, ognuno secondo la propria sensibilità artistica, le immagini più significative del nostro territorio, tanto sotto l'aspetto paesaggistico quanto sotto quello antropologico. Come recita il titolo della mostra, l'arte diventa così un varco nel muro".
Direttore artistico è il fotografo di Tempio Massimo Masu. Hanno collaborato i fotografi Franco Pampiro, Antonello Naitana, Giuseppe Goddi. L'evento è patrocinano dal Comune, dai Lions di Tempio, e dalla coop "Il piccolo principe" di Tempio.
di Valentina Stella
Il Dubbio, 13 giugno 2019
La vita di Radio Radicale si deciderà nelle prossime 48 ore. Tutto dipende da quello che accadrà nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, da cui uscirà il testo del decreto crescita che giungerà lunedì in aula per essere sottoposto alla fiducia richiesta dal Governo. Ieri pomeriggio i lavori nelle commissioni sono stati sospesi perché, come ha spiegato il presidente della Bilancio Claudio Borghi, la sospensione "servirà per vedere di risolvere la questione". La strada più percorribile potrebbe essere quella di un emendamento presentato dal relatore del decreto crescita, il leghista Centemero.
Proprio il leader del Carroccio, Matteo Salvini, qualche ora prima aveva dichiarato: "Su Radio Radicale non cambio idea rispetto a quanto ho detto prima delle elezioni: non si cancella l'esistenza di una radio con un emendamento e con un tratto di penna. Il mandato a nome della Lega in Commissione è di lavorare affinché questa voce ci sia". Intanto ieri pomeriggio Radio Radicale, Fnsi e Partito Radicale hanno tenuto alla Camera una conferenza stampa: una delegazione dell'emittente radiofonica e del partito di Pannella hanno consegnato alla cancelleria della Presidenza del Consiglio le oltre 170.000 firme raccolta a favore di Radio Radicale su change.org.
Diversi i parlamentari presenti alla conferenza stampa: Laura Boldrini, Renato Brunetta, Graziano del Rio, Luca Paolini, Stefano Fassina, Fabio Rampelli, Federico Mollicone, e Roberto Giachetti, in sciopero della fame da 27 giorni che ha precisato: "se si tagliano i fondi a Radio Radicale si stabilisce a priori che non la si vuol fare partecipare alla gara del servizio". Tutti gli esponenti politici, insieme a Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi, si sono trovati d'accordo nel dire che quella per Radio Radicale è una battaglia costituzionale per la libertà di informazione, sui cui deve essere il Parlamento ad esprimersi. Ha chiuso l'incontro Giovanna Reanda, del cdr di Radio Radicale: "Qualsiasi cosa accadrà in questi giorni, noi non la finiamo qui, noi non abbiamo intenzione di morire in silenzio".
di Eleonora Martini
Il Manifesto, 13 giugno 2019
Vito Crimi si impunta. Salvini: "Su Radio Radicale non cambio idea rispetto a quanto ho detto prima delle elezioni: non si cancella l'esistenza di una radio con un emendamento e con un tratto di penna". Nulla come la battaglia per tenere viva Radio Radicale riesce ad unire l'Italia politica.
Neppure il 25 aprile o la Festa della Repubblica, si potrebbe dire con una bestemmia. E così, dopo che una delegazione "multipartisan" di parlamentari ha consegnato alla Cancelleria di Palazzo Chigi le oltre 167 mila firme raccolte in calce alla petizione lanciata su Change.org dal Partito Radicale, è andata in scena la migliore convergenza politica degli ultimi tempi. "Ci appelliamo alla Lega, che quando vuole si impegna sulle sue battaglie", ha detto Laura Boldrini (Leu) ai colleghi del Carroccio durante la conferenza stampa tenutasi nel pomeriggio. Ed è tutto dire.
Ma ha fatto bene, l'ex presidente della Camera. Perché mentre nella sala stampa di Montecitorio si susseguivano gli interventi di tutto l'arco parlamentare tranne il M5S (tra gli altri, Luca Paolini della Lega; Stefano Fassina e Federico Fornaro di Leu; Mauro Del Barba, Graziano Delrio, Roberto Giachetti (in sciopero della fame), Filippo Sensi, Stefano Ceccanti, Ivan Scalfarotto e Giuditta Pini del Pd; Fabio Rampelli e Federico Mollicone di FdI; Renato Brunetta di FI e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei giornalisti e dell'Fnsi), nelle commissioni Bilancio e Finanze della Camera le impuntature del Movimento 5 Stelle riuscivano a bloccare perfino i lavori sul Dl Crescita.
È in quella sede, infatti, che si attende il provvedimento che potrà prolungare la vita dell'emittente fino a nuova gara, come previsto dalla stessa maggioranza di governo. Ed è l'ultima chance, perché in Aula sul provvedimento è già prevista la fiducia. E di tempo, Radio Radicale non ne ha molto, a tre settimane dalla scadenza della convenzione con il Mise.
Ma ad un Matteo Salvini che ancora ieri ribadiva: "Su Radio Radicale non cambio idea rispetto a quanto ho detto prima delle elezioni: non si cancella l'esistenza di una radio con un emendamento e con un tratto di penna", spiegando di aver dato mandato in Commissione "di lavorare affinché questa voce ci sia", ha risposto un astioso Vito Crimi.
"Ricordo, per mero dovere di cronaca, che nell'anno 2019 Radio Radicale ha maturato il diritto a percepire 9 milioni di euro, sottolineo 9 milioni di euro", sono i conti del sottosegretario con delega all'Editoria. Un'erogazione che, secondo l'esponente grillino, "dovrebbe rassicurare anche la Lillo Spa che fattura 2,3 miliardi di euro, socio al 25% della Spa che controlla la radio di partito".
Naturalmente Crimi sa bene che questi numeri non vogliono dire molto, di per sé. E soprattutto sa che "per l'anno 2019, ad oggi, Radio Radicale non ha ancora incassato nulla", come ricorda in una nota l'emittente (tecnicamente una Spa al 64% della Lista Marco Pannella, al 6% del Centro di produzione, al 25% della catena di discount della Lillo e al 5% della commercialista Cecilia Angioletti, partecipazioni queste ultime di carattere filantropico, ottenute nel 2000 a seguito di uno dei tanti appelli fatti nel corso degli anni da Pannella per salvare Radio Radicale).
"Nei prossimi giorni - si legge ancora nel comunicato della radio - dovremmo incassare il corrispettivo per il primo semestre 2019 della convenzione con il Mise pari ad euro 4.098.000. La differenza di euro 902.000 viene versata direttamente dal Mise all'Agenzia delle entrate in base alla normativa sullo Split Payment. L'importo che incasseremo è stato anticipato dalle banche per consentirci di svolgere l'attività nel primo semestre di quest'anno. Il contributo per l'editoria di 4 milioni di euro per l'anno 2019 verrà incassato a dicembre 2020 in base al regolamento in vigore su tali contributi". E, come sempre in questi casi, l'emittente potrà ricevere un anticipo della somma "di circa 1,6 milioni dal settembre 2019" solo "se le banche saranno disponibili".
Ma è proprio sulla somma che potrebbe essere stanziata nell'emendamento "salva archivio", previsto come contributo per l'Editoria, che si discute in commissione. I lavori riprenderanno dopo che l'Aula avrà affrontato lo "sblocca-cantieri". L'ultima chance per "un unicum, come il Colosseo" (copyright di Paolini, Lega) è la libertà di voto dei deputati a 5 Stelle. Libertà dai diktat ideologici. "Comunque vada, noi andremo avanti - promette Giovanna Reanda, del cdr di Rr - nessuno si illuda che il nostro stile significhi debolezza".
di Giuseppe Caliceti
Il Manifesto, 13 giugno 2019
I bambini ci parlano. "Il razzista vuole una persona lontana da lui perché quella persona non gli piace anche se lei, quella persona, non gli ha fatto ancora niente di male e forse non gli fa male neppure dopo". "Magari quella persona che non gli piace non era per niente cattiva ma era gentile, ha il carattere bello e gentile". "Il razzista è antipatico, per me".
Dopo aver letto questi testi che parlano del razzismo e di come si può fare per combatterlo, mi dite con parole vostre cosa avete capito e cosa ne pensate? "Per me il razzismo è quando una persona mostra schifezza contro un'altra persona non uguale a lui. Cioè, non gli piace e.... Insomma, gli fa schifo". "Per me uno che è razzista si sente superiore a un altro. E anche più bello. Perché lui, allora, non dice va che un altro gli fa schifo!" "Ma lui lo dice perché è razzista, altrimenti non lo diceva, se non era razzista". "Anche per me il razzista si sente una persona superiore a un'altra, più intelligente". "Oppure più furbo". "Il razzista vuole una persona lontana da lui perché quella persona non gli piace anche se lei, quella persona, dico, quella persona, poi, per me non gli ha fatto ancora niente di male e forse non gli fa male neppure dopo". "Magari quella persona che non gli piace non era per niente cattiva ma era gentile, ha il carattere bello e gentile". "Il razzista è antipatico, per me".
"Il razzista non porta rispetto a una persona che non gli ha fatto niente e mostra un sentimento cattivo". "Esatto. Per esempio è entrato nella tua classe qualcuno di pelle diversa, tu lo prendi in giro e dopo lui si ferisce". "Questo per me non si deve fare e non devi sempre avere paura di una persona. Anche se non la conosci. Perché come fai a sapere se è una persona cattiva, se tu non la conosci ancora? Se non sai il suo nome? Se non hai ancora parlato con lui? Almeno aspetta un po' e cerca di saperlo". "Se invece tu dici che lui è cattivo anche se non lo sai, se è cattivo, questo è un pregiudizio". "Per me basta anche un sorriso senza neanche parlargli e lui, per me, è felice. Lui, per me, si sente già meglio". "Anche per me. Non si deve avere sempre paura di una persona!"
Cosa vuol dire la frase che tutti siamo stranieri? "Vuol dire come c'è scritto sulla lettura del libro.... Vuol dire che se tu vedi una cartina geografica nella nostra scuola, l'Italia è al centro della cartina perché noi siamo in Italia, in una scuola italiana. Ma se noi eravamo dei bambini americani, al centro della cartina geografica c'era l'America. Oppure eravamo cinesi, c'era la Cina, al centro della cartina geografica. Oppure un altro paese e c'era quel paese, al centro della nostra cartina geografica. Ma nessuno è al centro. Tutti siamo al centro. Tutti siamo uguali. Dipende solo da che scuola frequentiamo e dove siamo nati. Dipende da dove andiamo a scuola". "Dipende anche dalla cartina".
"Dipende, perché se tu non ce lo hai nella testa, non diventi mai razzista". "Perché i figli si fidano dei loro genitori, ma non è colpa loro se sono un po' razzisti o anche molto razzisti". "Basta che tu vedi un disabile, per esempio, una persona disabile, che noi abbiamo dei bambini disabili che si vedono anche a scuola, delle volte... E lì hai già finito!" "Perché?" "Ma perché siamo tutti uguali, per me. Ma abbiamo delle caratteristiche diverse. Tipo la pelle. Tipo il carattere. Tipo l'aspetto fisico. Gli occhi. Oppure il colore degli occhi. O la forma. Oppure il corpo più disabile o meno disabile e insomma, si capisce!"
"E allora?" "Poi tu non sai come sono loro che sono diversi da te, perché i razzisti non si interessano mai a loro, non gli parlano, non li conoscono bene, li prendono solo in giro". "Magari non sanno neanche come sono loro nel loro paese. Perché magari loro non hanno l'acqua nel loro paese e sono venuti qui da noi perché da noi c'è ancora l'acqua e noi possiamo anche dargli un po' d'acqua da bere, secondo me". "Per me a questo mondo c'è molto razzismo perché tutti vogliono tutto e nessuno si accontenta. Nessuno non vuole niente".
"Perché tutti vogliono sempre di più Anche se non hanno sete". "Questa cosa nel mondo c'è, però ci sono alcuni razzisti che hanno detto che non lo fanno più perché secondo me lo hanno capito, che così sono molto antipatici e certe cose non si fanno neppure tra bambini perché si deve giocare tutti insieme senza fare differenze. Almeno nella nostra scuola". "Anche secondo me per risolvere il razzismo bisogna mangiare tutti insieme senza darsi delle arie e senza voler vincere".
di Carlo Lania
Il Manifesto, 13 giugno 2019
Nuove accuse del ministro a magistratura e alla ong: Che replica: "Non può calunniarci". Appena il tempo di essere varato dal consiglio dei ministri e il nuovo decreto sicurezza, pensato per colpire le navi delle ong, viene utilizzato come un'arma da Matteo Salvini. Il ministro degli Interni approfitta del salvataggio di 53 migranti compiuto ieri mattina al largo della Libia dalla Sea Watch 3, che accusa di essere una "nave pirata", per tornare ad attaccare la ong tedesca e i magistrati: "È evidente il collegamento tra scafisti e alcune ong - dice.
Probabilmente solo qualche procuratore non se ne accorge, ma i resto del mondo sì". Infine la minaccia di applicare le norme appena varate e che oltre a una multa tra i 10 mila e i 50 mila euro per il comandante prevedono anche il sequestro della nave nel caso dovesse fare rotta verso l'Italia: "Non vediamo l'ora di usare i nuovi strumenti del decreto sicurezza bis per impedire l'accesso alle nostre acque territoriali". Alle parole del leghista ha risposto la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi: "Salvini non ha alcun diritto di calunniarci - dice. Lo fa per via della sua posizione ma dovrebbe assolutamente astenersi da questi commenti".
Ieri sera la Sea Watch 3 navigava ancora in acque internazionali in attesa dell'indicazione di un porto sicuro che difficilmente arriverà in tempi brevi. L'ultimo caso destinato ad aprire uno nuovo scontro tra governo gialloverde e la ong comincia dodici ore prima, verso le 9,53 del mattino, quando l'aereo Colibrì che collabora con la ong tedesca nella pattugliamento del Mediterraneo centrale avvista un gommone carico di migranti e informa le autorità italiane, maltesi, libiche e dell'Olanda, paese di bandiera della Sea Watch 3. Alle 15,30 la nave arriva i prossimità del gommone che si trova a circa 47 miglia al largo di Zawiya, uno dei principali punti di partenza libici del barconi. In piene acque internazionali quindi e non, come affermerà più tardi, "in zona Sar libica". Nel frattempo la Guardia costiera libica aveva comunicato di aver assunto il coordinamento delle operazioni. "Giunti sulla scena, priva di alcun assetto di soccorso - scrive ancora l'ong - abbiamo proceduto al salvataggio, come il diritto internazionale impone". Sea Watch aggiunge che una volta completato il soccorso, e con i 53 migranti già a bordo della nave, è arrivata una motovedetta libica che si è limitata ad osservare quanto stava accadendo. Tra le persone tratte in salvo, la maggior parte delle quali provenienti dall'Africa subsahariana, anche nove donne e quattro minori, due dei quali non accompagnati.
Appreso del salvataggio, Salvini parte all'attacco: "Non rispettando le indicazioni della Guardia costiera libica è l'ennesima atto di pirateria di un'organizzazione fuorilegge", dice il ministro dimenticando che la ong tedesca opera in legalità e che la nave è stata dissequestrata il 1 giugno scorso dalla procura di Agrigento. Una possibilità che adesso, stando a quanto previsto dal nuovo decreto sicurezza bis, potrebbe non ripetersi visto che eventuali sanzioni contro la ong, nel caso entrasse in acque territoriali italiane senza il permesso del Viminale, verrebbero decise direttamente dal prefetto. Resta da vedere quindi cosa deciderà adesso la ong, se forzare la mano e dirigere verso un porto italiano, con le conseguenze che questa scelta comporterebbe, o restare in attesa in alto mare.
Intanto si è riacceso lo scontro politico: "Mentre dal Veneto alla Sicilia si allungano ogni giorno di più le ombre sulla Lega e sui suoi rapporti opachi - accusa Nicola Fratoianni, di Sinistra italiana - il ministro dell'Interno non torva di meglio che scatenare anche oggi la sua dose di accuse strampalate e di parole velenose verso quelle organizzazioni che nel Mediterraneo salvano i migranti".
Ieri, infine, Medici senza frontiere e Sos Mediterranée hanno comunicato il numero dei migranti morti da quando, un anno fa, il governo gialloverde ha annunciato la chiusura dei porti: "Almeno 1.151 persone, uomini, donne e bambini vulnerabili, mentre oltre 10 mila sono state riportati forzatamente in Libia, esposte a ulteriori e inutili sofferenze", hanno denunciato le due ong.
di Luca Ricolfi
La Stampa, 13 giugno 2019
La preoccupazione per il destino della democrazia liberale presente in molti degli interventi del dibattito aperto dal Messaggero nei giorni scorsi e sicuramente giustificata. Sì, effettivamente social media e nuove tecnologie stanno sconvolgendo il funzionamento della politica. La mancanza di mediazioni rende più incerto che in passato il confine fra vero e falso.
Immense praterie si aprono a quanti intendono sfruttare la credulità popolare per i propri fini. Tutto questo è reale, ma è davvero una novità del presente? La mia impressione è che le radici di quel che oggi inquieta tanti di noi siano antiche, e poco abbiano a che fare con l'irruzione dei social media nella vita politica. Prendiamo, ad esempio, l'evoluzione della leadership, ovvero la tendenza dei capi a saltare la mediazione degli apparati.
La vera rottura è avvenuta fin dal 1994, con la discesa in campo di Berlusconi, ma è difficile non vedere che quella rottura avveniva su un terreno, quello della comunicazione diretta fra il leader e le masse, che era stato ampiamente arato da Sandro Pertini e Karol Wojtyla, assurti insieme l'uno al vertice della Repubblica l'altro a quello della Chiesa fin da11978, ossia 16 anni prima dell'ingresso in politica di Berlusconi.
Noi oggi siamo impressionati da Salvini che posta su internet una foto mentre addenta pane e Nutella. Ma forse dovremmo chiederci perché mai, se il Papa twitta, conversa con i giornalisti in aereo, e telefona a Uno Mattina, i politici dovrebbero osservare un contegno più sobrio. Un discorso analogo si potrebbe fare per la presunta democrazia diretta della piattaforma Rousseau, che affida a poche decine di migliaia di iscritti decisioni politiche cruciali.
Sembra un modello nuovo, ma in realtà è la riedizione della democrazia assembleare di mezzo secolo fa, quando un manipolo di studenti politicizzati (circa un giovane su 10, secondo le ricostruzioni statistiche) pretendeva di parlare a nome di tutti, perché solo le avanguardie contano, e perché "gli assenti hanno sempre torto".
Mi si potrebbe obiettare che il vero problema, oggi, è che il desiderio di contare, di essere qualcuno o "qualcunismo", si è trasformato nella credenza di essere alla pari con esperti, studiosi, tecnici e competenti in genere. L'utente della rete non riconosce alcuna gerarchia di conoscenza, pensa di poter esprimere opinioni su qualsiasi materia, senza complessi di inferiorità verso chicchessia. È vero, ma la mia domanda è: ve ne accorgete solo ora? E credete davvero che la colpa sia della Rete?
Anche qui a me pare che i processi che ci hanno portato dove ora siamo, ovvero al rigetto sistematico e generalizzato di qualsiasi autorità e gerarchia culturale, siano ben precedenti alla nascita di internet e alla sua invasione della sfera politica. È dalla fine degli anni 60, in piena prima Repubblica, che le grandi istituzioni che mediavano fra il cittadino e la collettività nazionale hanno progressivamente abdicato ad ogni ruolo di guida, e proclamato quella sorta di egualitarismo culturale di cui ora la Rete si limita a raccogliere i frutti finali.
La giusta esigenza di "ascolto" di chi si trova in qualche senso al di sotto, o al di fuori, o ai margini, si è trasformata progressivamente in una sorta di sdoganamento dell'ignoranza, della volgarità, della presunzione e della prepotenza dei singoli. Vale per la radio, in cui le opinioni più infondate o volgari sono assurte progressivamente a protagoniste legittime, alla pari di tutte le altre; vale per la televisione, quasi completamente trasformata in macchina di intrattenimento; vale per la scuola e l'università, mestamente acconciate ad abbassare drammaticamente gli standard; vale per la famiglia, con la rottura dell'alleanza con la scuola e la trasformazione dei genitori in sindacalisti dei figli. Poteva non accadere lo stesso in politica?
Oggi è facile vedere il disastro, perché l'ideologia secondo cui siamo tutti alla pari, e le competenze non contano, è proclamata ai quattro venti. Ma vogliamo vedere anche come ci siamo arrivati? Fra la dottrina della rottamazione della classe dirigente, che per diversi anni ha imperato nel dibattito pubblico, e l'attuale credenza che chiunque possa fare il ministro, fra l'imbarbarimento dei media e l'irresponsabilità comunicativa dei politici, c'è un filo di continuità che faremmo bene a non nasconderci.
Il guaio dei social media e delle nuove tecnologie è di rendere ancora più facile, quasi più naturale, proseguire sulla strada che da mezzo secolo stiamo percorrendo. Ma è un guaio che, forse, ha il suo lato positivo: oggi i danni e i pericoli dell'egualitarismo culturale, proprio perché sono messi quotidianamente in scena da una politica del tutto priva di freni inibitori, sono più evidenti che mai. Sta a noi decidere se ci va bene così, o se è il caso di cambiare rotta. Sapendo una cosa, però: che siamo arrivati a questo punto, non è colpa di Internet, ma della lunga stagione di irresponsabilità che ne ha preceduto e preparato il trionfo.
di Gianni Riotta
La Stampa, 13 giugno 2019
L'amore per la libertà, il diritto, la giustizia, la libertà di parola, l'uguaglianza della gente semplice davanti al potere assoluto non sono dunque scomparsi in questo XXI secolo di Moloch politici, nichilismo, indifferenza.
Le proteste di queste ore a Hong Kong contro una legge capestro che permetterebbe la deportazione in Cina di ogni cittadino, qualunque passaporto abbia in tasca, e i cortei in Russia a favore del giornalista Ivan Golunov, arrestato dalla polizia per i suoi articoli sulla corruzione del regime del presidente Vladimir Vladimirovic Putin, confermano che il cinismo alla moda non ha vinto per sempre. Nel 2019 studenti, lavoratori, intellettuali, adolescenti, sindacati, giornalisti - colleghi cui va la nostra più affettuosa solidarietà -, dirigenti politici onesti, imprenditori, manager, operai, gente di ogni età, cultura, ceto sociale, come i loro avi nell'Ottocento e Novecento, testimoniano che benessere e quieto vivere poco valgono senza giustizia e libertà.
Che lezione per noi, stanchi, rassegnati, delusi, vedere gli studenti di Hong Kong, con i leader della comunità d'affari dell'ex colonia inglese, affrontare le pallottole di gomma (arma che in passato ha ucciso), i gas della polizia del commissario Lo Wai-Chung, le cariche, le botte. Carrie Lam, capo esecutivo filocinese di Hong Kong, ha pianto in diretta tv "Non venderò Hong Kong", ma non ritira la legge iniqua, sa che il presidente Xi Jinping vuole pugno di ferro contro i barlumi di democrazia, 30 anni dopo le stragi di piazza Tienanmen.
Hong Kong aveva negoziato uno statuto di autonomia, tornando sotto la madrepatria, ma da allora i margini di tolleranza si sono erosi e, con la legge sull'estradizione, la Cina preoccupa perfino - ha raccontato in un reportage Radio Radicale - i sindacati ufficiali della metropoli asiatica. Mentre i teenager di Hong Kong - i dimostranti han meno di trent'anni - vivevano il loro battesimo nella battaglia senza fine per i diritti umani e civili, a Mosca la polizia caricava i dimostranti solidali con il giornalista Ivan Golunov della testata dissidente Meduza (seguitela via twitter @meduza_en).
Golunov, da tempo, racconta il viluppo tra malaffare e politica della Russia di oggi, ed è stato fatto bersaglio di minacce e malversazioni, come tutti i reporter non allineati alla propaganda del Cremlino. Alla fine, la polizia ha deciso di arrestarlo, accusandolo di tenere in casa un laboratorio per fabbricare droghe.
Davvero ci vuole la rozzezza da chekisti, gli sbirri stalinisti della vecchia Lubyanka, quartier generale di spie e provocatori, per immaginare un cronista dissidente, che si sa controllato giorno e notte e teme per la vita come la Politovskaia, Nemtsov e i tanti oppositori caduti, che si mette a fabbricare stupefacenti in cucina! Dopo le prime proteste, Putin, la più astuta volpe d'Europa, ha capito che stavolta s'era ecceduto e ha fatto rilasciare Golunov, pur picchiato e lasciato senza cibo per ore. Il medico Alexander Myasnikov, sodale del presidente e candidato nelle sue liste, ha rifiutato però a Golunov il ricovero in ospedale, malgrado le ferite al petto e al volto "Non ho simpatia per lui" ha tagliato corto.
Ma la vecchia Mosca anticonformista, stavolta, non ha guardato dall'altra parte. Giornalisti russi e stranieri, studenti, oppositori guidati da Alexey Navalny, gente qualunque, hanno sfidato Putin e miliziani e, per la prima volta dal 2018 quando fu cambiata la legge sulle pensioni, il regime s'è visto contestare da Chistye Prudym, Nordest della capitale, fino al comando della polizia in via Petrovka tra arresti e cannonate d'acqua gelida mentre i giornali economici indipendenti stampavano in prima pagina un identico appello.
Preoccupato, Putin ha incaricato il fido consigliere Anton Kobyakov di provare a risolvere il caso, magari cercando un capro espiatorio tra i poliziotti. I coraggiosi dimostranti di Hong Kong e Mosca non avranno la meglio presto sui colossi che sfidano. Ma, in sole 48 ore, con la nobiltà della loro condotta, han smentito la fola corriva, popolarizzata dai saggi forbiti dello studioso Daniel A. Bell che "un sistema centralizzato possa funzionare meglio delle democrazie", togliendo a noi occidentali pigri l'alibi del "non vale la pena, non c'è nulla da fare, viviamo il tempo polarizzato del nazionalismo".
Con le spalle al muro, con niente in pugno se non la fondamentale dignità umana, Hong Kong e Mosca si stanno battendo anche per noi, ricordandoci quello per cui vale la pena di battersi, sempre. Non lasciamole sole.
agenzianova.com, 13 giugno 2019
Il Difensore civico per i diritti umani della Federazione Russa, Tatjana Moskalkova, ritiene che l'uso della forza contro i detenuti sia indicativo della mancanza di professionalità della polizia. "In qualsiasi caso non si può usare la forza. Quando ciò accade emerge una mancanza di professionalità", ha dichiarato Moskalkova ai giornalisti.
Oggi, nel centro di Mosca, si sono tenute delle manifestazioni non autorizzate dalle autorità a sostegno di Ivan Golunov, il giornalista del portale "Meduza" arrestato nei giorni scorsi per possesso di stupefacenti e scagionato ieri direttamente su mandato del ministero dell'Interno. Secondo il dicastero, 1.200 persone hanno partecipato al corteo e 200 sarebbero state arrestate.
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