di Fausto Cerulli
Ristretti Orizzonti, 15 gennaio 2015
Ho ascoltato le parole di uno degli avvocati della famiglia Cucchi, dopo la sentenza di assoluzione, sia pure per insufficienza di prove, pronunciata dalla Corte di Appello di Roma: "lo Stato ha preso in consegna Stefano vivo, e lo Stato lo ha restituito morto".
Parole precise, che dicono di una giustizia che merita di essere condannata per abbondante sufficienza di prove. É vero che nelle motivazioni della sentenza si legge che gli atti vengono rinviati alla Procura della Repubblica per ulteriori indagini; ma francamente sembra di assistere ad una sorta di balletto intorno ad un cadavere.
I giudici della Corte di Appello, bontà loro, affermano in motivazione che Cucchi non può essersi ammazzato da solo. E tutti abbiamo in mente le foto agghiaccianti del volto tumefatto di Stefano, e tutti ricordiamo come le forze dell'ordine, prima i Carabinieri, poi le Guardie Penitenziarie abbiano provato a sostenere in maniera quasi infantile se non fosse cinica, che Cucchi era scivolato, che si era procurato per propria colpa le ferite che dovevano portarlo alla morte. Una sorta di Pinelli, insomma.
Una sorta di suicidio di Stato, se è permesso dirlo. La sorella di Stefano, la coraggiosa ed ammirevole Ilaria, ha sostenuto che in ogni caso la sentenza costituisce una vittoria della giustizia giusta. Credo che si sia lasciata trascinare da un eccessivo entusiasmo per alcune affermazioni della sentenza: quelle, appunto, che sanzionano come il Cucchi non possa essersi procurato da solo le ferite mortali. diciamo pure che si tratta di un passo avanti, ma di un passo da lumaca. Perlomeno, la sentenza di
primo grado aveva condannato qualcuno, sia pure in modo lieve, per non turbare troppo. Da una sentenza di condanna si passa ad una sentenza di assoluzione con la formula cosiddetta dubitativa. E la morte di Stefano Cucchi resta avvolta, almeno per i giudici dell'appello, in una cortina fumogena di dubbi. La Corte, non riuscendo a squarciare la cortina fumogena del dubbio, ha deciso di rinviare gli atti alla Procura, altro giro altro regalo.
Poi interverrà magicamente la prescrizione a seppellire i dubbi e le incertezze che avvolgono il caso. Ho avuto modo di conoscere il giudice che ha presieduto la Corte di Appello, e lo considero uno dei pochi magistrati che sanno fare il proprio mestiere: e dunque penso che gli sia costato molto il dover pervenire ad una sentenza come quella che ha sancito la maestà del dubbio. on Mi considero da sempre un garantista, e dunque dovrei concordare con la decisione dei giudici. Ma credo che anche Cucchi, in qualche modo, debba essere garantito.
Mettiamoci anche quanto dichiarato dal Presidente della Corte di Appello di Roma, che ha tenuto a precisare di non aver fatto parte del collegio giudicante (excusatio non petita) per poi esprimere qualche dubbio sui dubbi dei giudici giudicanti, per concludere infine che il nostro codice prevede che un giudice non possa condannare se non si è raggiunta una certezza oltre ogni ragionevole dubbio.
Ragionevole dubbio: una formula paradossale, perché un dubbio non dovrebbe essere ragionevole. E allora prendiamocela con il nostro codice di procedura penale, e plachiamoci la coscienza, se coscienza abbiamo, pensando che Cucchi è morto per i colpi inferti dal codice. La patata bollente passa di nuovo alla Procura, che dovrà ricominciare da capo a scottarsi le dita, cercando un colpevole che non possa ammantarsi di dubbio.
Un colpevole che possa spiegare come mai Cucchi, per riprendere le parole dell'avvocato della famiglia, sia stato preso in consegna da uno Stato che lo ha restituito morto. In questo cinico carosello una sola certezza, che lascia comunque incerti: Cucchi è stato ammazzato.
Ed a Cucchi dobbiamo un minimo di garanzia che qualcuno paghi per quella morte. Anche se, a conti fatti, e per restare in tema di dubbio, dubito molto che la Procura possa fare luce: sarebbe comunque una luce che accecherebbe una qualche porzione di Stato. E forse finiremo per dover dire che quello che è Stato è Stato, con le maiuscole.
di Gianluca Perricone
L'Opinione, 15 gennaio 2015
È grave? Secondo noi sì. Perché un essere umano che è afflitto da "grave decadimento cognitivo e sindrome ipocinetica, dovuta a sindrome extrapiramidale ed agli esiti di una devastante emorragia cerebrale, neoplasia prostatica in trattamento ormono-soppressivo", proprio bene quell'uomo non dovrebbe stare. Poi arrivano altri medici specialisti ed accertano che lo stesso soggetto ha uno stato cognitivo "gravemente ed irrimediabilmente compromesso" e che lo stesso, di fronte agli specialisti, "è risultato risvegliabile ma sostanzialmente non contattabile, con eloquio privo di funzione comunicativa, probabilmente confabulante, incapace di eseguire ordini semplici".
E se poi "tale condizione risulta di fatto evoluta in senso peggiorativo rispetto a quanto descritto nella valutazione neuropsicologica dell'aprile del 2014" qualcosa bisognerebbe pur chiedersela. E se poi ancora il soggetto è detenuto in un carcere italiano, sarebbe altresì il caso di dare un'attenzione maggiore alle condizioni di salute dello stesso anziché farlo stare in isolamento al 41bis (sia pure in ospedale) perché - incredibile ma vero - un tribunale ha deciso che un essere umano così malridotto può ancora impartire ordini a qualche suo sodale: incapace di coordinare anche se stesso, ma in grado di interloquire con altri! La giustizia riesce a sostituirsi anche ai medici e così facendo rischia (?) di uccidere definitivamente lo stato di diritto.
Eppure - ogni tanto è bene rammentarlo - la Costituzione (ancora vigente e talvolta fin troppo "maltrattata") prevede la punibilità di ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità: anche se il detenuto si chiama Bernardo Provenzano.
di Stefano Anastasia (Associazione Antigone)
www.internazionale.it, 15 gennaio 2015
Domenica scorsa, in data certa, Frank Van Den Bleeken avrebbe dovuto essere un uomo morto. Privilegi dell'eutanasia, e della pena di morte. Dell'una e dell'altra, nel caso in questione. Van Den Bleeken è detenuto a Bruges. Lo è da quasi trent'anni.
"Stupratore seriale e assassino", così lo presentava l'agenzia di stampa che ce ne ha fatto conoscere il nome. E poco importa che all'epoca dei fatti avesse appena vent'anni: quello che era è. "Recidivo e conscio di esserlo aveva chiesto al ministro della giustizia belga di essere mandato in un centro di cure specializzato nei Paesi Bassi o, in alternativa, di essere ucciso con l'eutanasia". Al ministro non sembrava possibile la prima e non gli era rimasta che la seconda soluzione, ai sensi della molto liberale normativa belga in materia: sarebbe stata soddisfatta la sua libera scelta.
In Italia, invece, per farla finita bisogna ancora appendersi alle sbarre, inalare il gas dal fornelletto o tagliarsi con sapienza. Lo hanno fatto in quarantatré nel 2014: non pochi, ma meno che in passato. Possiamo esser contenti? Come, forse, lo sarà stato qualche zelante funzionario belga per aver potuto accondiscendere alla "libera scelta" di Van Den Bleeken? Naturalmente no. E non perché a Van Den Bleeken, così come ai quarantatré in Italia si debba vietare di congedarsi dal mondo quando e come ritengano più opportuno, ma solo perché non si può che diffidare di quella "libera scelta", e anzi bisognerebbe prendersene tutte le responsabilità. Nell'uno come negli altri casi, la condizione detentiva non consente una "libera scelta": non c'è un altrove verso cui dirigere la propria vita, quanto meno per provarci. Questo avranno pensato Frank e i suoi fratelli, un attimo prima di decidersi. E quella mancanza di alternative è responsabilità nostra.
di Beniamino Migliucci (Presidente dell'Unione Camere Penali)
Il Manifesto, 15 gennaio 2015
Le motivazioni della sentenza di appello che ha assolto tutti i dodici imputati, nel processo per la morte di Stefano Cucchi, rappresentano una conferma di quanto avevamo sempre sostenuto e di quanto, con grande dignità, avevano segnalato Ilaria Cucchi e la sua famiglia. Il problema era nelle indagini.
Quando non si conoscono gli atti di un procedimento non è corretto trarre delle conclusioni categoriche ma, grazie alle motivazioni della sentenza, è possibile svolgere alcune considerazioni di fondo.
La prima: Stefano Cucchi non è morto per il freddo. Scrivono i giudici di appello: "Le lesioni subite sono necessariamente collegate ad un'azione di percosse e comunque ad un'azione volontaria", il che come giustamente ha commentato il Presidente della Corte d'Appello di Roma Luciano Panzani, significa che "qualcuno lo ha picchiato o forse spinto ma non si è procurato le lesioni da solo". Quanto precede costituisce un primo elemento di ineludibile chiarezza, che non può essere trascurato nella ricerca della verità.
La seconda considerazione: in questi processi non è facile fare emergere la verità. Indagare sugli apparati dello Stato è, talvolta, complicato per atteggiamenti omertosi e per un malinteso senso di appartenenza a una Istituzione. Si rifiuta il controllo e la critica esterna per il timore di una delegittimazione della struttura alla quale si appartiene e perché ci si sente dalla parte del bene e della ragione nei confronti di chi è deviato e per questo non merita rispetto.
La terza: sforzo e tensione investigativi non sempre sono appropriati e adeguati per le ragioni indicate in precedenza.
La quarta: la dignità delle persone e i diritti dei più deboli non sempre vengono considerati quando si è sottoposti al controllo e alla custodia della pubblica autorità. Eppure, custodire significa sorvegliare e vigilare allo scopo di preservare l'essere umano nella sua dimensione fisica e psichica, ciò che uno Stato democratico dovrebbe sempre essere in grado di garantire.
La quinta: in questa vicenda è stata riaffermata l'importanza e l'imprescindibilità del giudizio di appello, che qualcuno vorrebbe eliminare. Si è assolto chi non aveva responsabilità certe e si è fornita indicazione per nuovi spunti di indagine. Il doppio giudizio di merito riduce la possibilità di errori e consente di avvicinarsi maggiormente alla verità.
Un'ultima riflessione merita la necessità di introdurre, in tempi brevi, il reato di tortura che deve essere però reato proprio, ovvero che possa essere commesso solo dal Pubblico Ufficiale o dall'Incaricato di Pubblico Servizio e che si concentri su di una condotta qualificata dall'esito della inflizione di una intenzionale sofferenza fisica o morale a chi venga privato della libertà personale. Tale prospettiva, lungi dall'intento di colpevolizzare, come taluno ritiene, in modo indiscriminato le forze di Polizia, ne esalterebbe l'autorevolezza quando ne venga correttamente esercitata la funzione.
L'Unione delle Camere Penali Italiane è in genere contraria alla ipertrofia legislativa e alla creazione di nuove norme penali, ma in questo caso, il reato di tortura rivelerebbe la consapevolezza da parte dello Stato che certi fatti avvengono e che non possono essere tollerati.
Ordine Medici Roma: su caso Cucchi ristabilita verità
"Quando il 31 ottobre scorso era stato reso noto il dispositivo della sentenza della Corte di Appello chiamata a riesaminare le responsabilità del decesso di Stefano Cucchi, l'Ordine provinciale di Roma dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri aveva sottolineato la necessità di attendere le motivazioni che, in tale pronuncia, avevano determinato l'assoluzione di tutti i soggetti chiamati a rispondere della morte del giovane: primi tra tutti i medici dell'Ospedale "Sandro Pertini". Motivazioni che ora hanno evidenziato come "L'attività di medici e infermieri su Stefano Cucchi non è stata di apparente cura del paziente ma di concreta attenzione nei suoi riguardi". Così in una nota l'Ordine dei Medici di Roma Omceo.
"Fin dall'inizio della vicenda - che ora vedrà nuove indagini per individuare i responsabili delle percosse evidentemente subite da Cucchi - l'Ordine aveva affermato, e più volte ribadito, la propria, salda, convinzione della totale estraneità del personale sanitario nelle cause che portarono alla morte del giovane nella sua situazione di detenuto. Una convinzione obiettiva - prosegue la nota - scaturita dall'attento esame svolto dall'apposita Commissione prontamente istituita all'interno dello stesso Ordine, con esperti indipendenti incaricati di esaminare ogni aspetto medico legato al decesso. Già dalla relazione di tale Commissione non era emersa alcuna negligenza od omissione, proprio come ora chiarito dalle motivazioni della sentenza di appello. Pertanto, sulla base di tali riscontri oggettivi e clinici, l'Ordine - pur attendendo doverosamente le conclusioni della Magistratura - non ha mai esitato a esprimere fiducia e solidarietà ai quei suoi iscritti coinvolti nei procedimenti giudiziari e subito esposti negativamente all'opinione pubblica dai media, infine assolti in appello".
"L'Ordine non è una corporazione ma un'istituzione, un organo ausiliario dello Stato, posto a tutela del cittadino: per primo ha il dovere di accertare eventuali comportamenti non deontologicamente corretti o addirittura negligenti e omissivi delle cure cui ha sempre diritto un paziente, non importa se detenuto. Per primi, quindi, abbiamo voluto fare luce sull'operato dei medici chiamati in causa", sottolinea il presidente dei camici bianchi capitolini, Roberto Lala.
"Accuse frettolose e lanciate come pietre in una sorta di lapidazione mediatica, si sono dimostrare infondate e ingiuste. Ora è stata ristabilita la verità.
Sarebbe bene che questa vicenda, davvero triste, facesse riflettere sulla leggerezza con cui i medici vengono ormai sempre additati preventivamente come colpevoli in ogni situazione clinica avversa, anche se indipendente dal loro operato e dalla loro dedizione".
di Emanuela D'Arcangeli
Il Garantista, 15 gennaio 2015
Non è facile dire grazie. Non è facile dirlo, soprattutto a chi fa parte di un sistema, che raramente mi ha ispirato riconoscenza. Ma quando è giusto, è giusto. Rachid ancora non ci vede bene, ha un ginocchio fuori uso e probabilmente ancora dei lividi. Ma se alcuni agenti hanno impresso quei segni sul suo corpo; il colloquio con lei, ne ha impressi altri nella sua anima.
"Dio l'ha messa sul mio cammino", sono le parole esatte di Rachid. Questa lettera è ancora per lei, dottoressa Giampiccolo e ancora parla di riconoscenza, ma non col sapore ironico di quella che l'ha preceduta, questa volta è riconoscenza vera. Perché ha accettato di parlare con Rachid, ha capito le sue ragioni e si è impegnata affinché venisse trasferito nel carcere di Volterra, un carcere che "nonostante sia in Italia, rispetta la legge e la Costituzione" (il titolo di un articolo trovato on line).
Quel richiamo alla legge ed alla Costituzione, è la radice del nostro sdegno e della nostra rabbia, da sei anni a questa parte: sono passati otto carceri, ma se non fosse per il tragitto che cambia e per i giorni di colloquio diversi, direi che Rachid non è mai stato trasferito.
Tutti e otto gli istituti si confondono nella mia memoria e così le facce di chi ci lavora, le cose che sono accadute, l'aspetto stesso dei luoghi. Il tempo che in carcere già non ha un gran valore, nel nostro casosi è proprio fermato, in un unico lunghissimo attimo, dove dentro c'è tutto.
C'è uno degli ultimi colloqui ad Asti. Me lo condussero ammaccato, pieno di lividi, con la stampella. Andai di corsa dai carabinieri a sporgere denuncia, per sentirmi rispondere che la polizia penitenziaria è una polizia a tutti gli effetti e che potevano tranquillamente raccoglierla loro, quella denuncia. C'è Napoli, quando a più di ottocento chilometri di distanza, gli diedi la notizia della morte di sua madre. Dovette riceverla e superarla da solo. L'esperienza peggiore, più di tutte le botte prese, prima e dopo. La brutale natura del carcere, che accompagna tutto e non ha pietà nemmeno per i momenti più tragici, come la perdita di una madre.
C'è Parma e non sto nemmeno a contare le volte che tra botte, scioperi della fame e "incidenti" vari, ho visto Rachid sempre più umiliato, distrutto fisicamente, ma mai prostrato d'animo. Lo vidi passare dalle stampelle alla sedia a rotelle, perché così era più pratico portarlo in giro. Poi Prato. La mia discussione accesa con la comandante, che di fronte a Rachid e alla sua faccia insanguinata, continuava a sostenere che la polizia non c'entrava nulla e che quelle ferite poteva essersele procurate da solo.
La scelta di inviarle quella lettera ed il "rumore" che nel mio piccolo ho cercato di sollevare, sono nati dal desiderio che questa volta andasse diversamente. Non ho voluto che rimanessimo in silenzio a leccarci le ferite, per archiviare anche questa esperienza, tra le altre, nella speranza di poterle riguardare in futuro, col distacco dei ricordi. Volevo che quelle persone, che lo hanno aggredito e portato in isolamento, non rimanessero chiuse nell'ombra di quelle mura, sicure che niente di ciò che avviene in sezione, esce dai corridoi.
Tutti i nostri sforzi, le registrazioni in carcere, le denunce, il blog servono a questo: a dare il segno, per piccolo ed isolato che sia, che la divisa non può garantire l'anonimato e l'impunità, almeno morale e per pretendere che ogni carcere rispetti la "legge e la Costituzione", nell'interesse dei detenuti e delle loro famiglie, come nell'interesse degli stessi poliziotti. Ai nostri sforzi, si è unita una grande mano, la sua, che pur non conoscendoci, ha colto l'aforisma che spiega tutte le scelte, apparentemente scriteriate, di Rachid: "Se vedi un male, agisci, parla, o almeno non accettarlo nel tuo cuore". Lei aveva il potere di agire e lo ha fatto ed ora Rachid è in una condizione di maggior tutela. Per questo le va la mia riconoscenza ed il mio grazie.
www.cittadellaspezia.com, 15 gennaio 2015
"Non si preannuncia sotto i migliori auspici il nuovo anno per la Polizia Penitenziaria della Liguria. Se il 2014 le carceri liguri sono state contrassegnate da circa 900 eventi critici tra i quali riportiamo ben 27 tentati suicidi, 275 casi di autolesionismo, 230 ricoveri urgenti in ospedale e, purtroppo 2 decessi per cause naturali, il 2015 inizia con ben due casi di aggressione tra detenuti avvenuti con una strana procedura": è il commento della segreteria regionale del Sappe, il maggiore sindacato della Polizia Penitenziaria.
"L'istituto femminile di Pontedecimo si sottrae da un inizio anno senza l'evento critico, parrebbe che una detenuta con il proprio figlio minore di anni tre, appena giunta in istituto, è stata collocata in un reparto comune invece di essere destinata nel reparto per detenute con figli, ovvero la sezione detentiva denominata "asilo nido". Queste strane scelte - afferma Michele Lorenzo - a parte ad avere una ricaduta negativa sul bambino ha una ripercussione sul personale di servizio che deve gestire le esigenze del bambino in un reparto non idoneo".
"C'è bisogno - continua Lorenzo - di rivedere il sistema della sicurezza penitenziaria oggi forse non sottoposto al rapporto numerico dei 1.410 detenuti presenti nelle carceri liguri ma su un sistema, quello della sorveglianza dinamica, che non può definirsi sinonimo di sicurezza a garanzia del personale".
www.latina24ore.it, 15 gennaio 2015
Secondo il dato ufficiale del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) continuano a diminuire i detenuti nelle carceri del Lazio, al 31 dicembre 2014, si rappresenta che i reclusi presenti nei 14 istituti della Regione Lazio risultano essere 5.600 (486 in più rispetto ai 5.114 posti disponibili). Lo afferma in una nota il Segretario Regionale Fns-Cisl Lazio Massimo Costantino. Attualmente gli istituti che soffrono maggiormente il sovraffollamento sono: carceri Cassino detenuti regolamentare previsti 202, presenti 226 (sovraffollamento + 24); Civitavecchia detenuti regolamentare previsti 344, presenti 425 (sovraffollamento + 81); Frosinone detenuti regolamentare previsti 310, presenti 475 (sovraffollamento + 165); Latina detenuti regolamentare previsti 76, presenti 161 (sovraffollamento + 85); Rebibbia detenuti regolamentare previsti 263, presenti 324 (sovraffollamento + 61); Rebibbia detenuti regolamentare previsti 1.235 presenti 1.479 (sovraffollamento + 244); Regina Coeli detenuti regolamentare previsti 642, presenti 813 (sovraffollamento + 171); Velletri detenuti regolamentare previsti 408, presenti 504 (sovraffollamento + 96).
Per la Fns-Cisl occorrono interventi mirati affinché, negli istituti sopra citati, detto sovraffollamento sia ridotto al fine di migliorare sia le condizione detentiva dei detenuti ma, anche, quella lavorativa del personale. Tale sovraffollamento comporta episodi gravi come quello avvenuto a Frosinone che causano l'aggressione a danni del personale di Polizia penitenziaria. Da segnalare che l'Agente Scelto risulta attualmente ancora ricoverato presso l'ospedale del Celio.
Ansa, 15 gennaio 2015
"L'orientamento delle politiche regionali è fortemente indirizzato al superamento dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino" ma serve una forte "collaborazione inter-istituzionale", senza la quale risulta difficoltoso rispettare "la scadenza del superamento dell'Opg entro il 31 marzo".
Lo ha detto l'assessore al diritto alla salute Luigi Marroni, rispondendo in Consiglio regionale a un'interrogazione di alcuni consiglieri del Pd. Marroni ha ricordato che il programma regionale di superamento dell'istituto prevede, tra l'altro, il potenziamento della rete dei servizi territoriali, l'attivazione delle residenze intermedie e la realizzazione di una destinata ad accogliere i pazienti internati con misure di sicurezza detentiva.
Prevista anche una residenza con sorveglianza intensiva, per la quale "è stata attivata una ricognizione delle strutture già nella disponibilità del Servizio sanitario regionale, al fine di individuare una struttura che consenta di rispondere alle esigenze sanitarie e organizzative di superamento dell'Opg". Per il consigliere Pd Enzo Brogi "la scadenza del 31 marzo potrebbe essere non rispettata e questo è preoccupante". Brogi ha quindi invitato la Toscana ad attivarsi con le altre Regioni e gli altri livelli istituzionali coinvolti per "giungere ad una soluzione veloce, perché l'Opg è un luogo assolutamente inospitale".
Ansa, 15 gennaio 2015
"È opportuno tenere Carminati a Parma? Il problema legato all'impianto di video sorveglianza e video registrazione nel carcere di massima sicurezza di Parma non è stato risolto". Il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia, lo stesso che il 30 dicembre scorso andò a trovare in carcere il presunto boss di Mafia Capitale Massimo Carminati, torna sul rischio blackout nel penitenziario di Parma.
"Il Provveditore regionale - afferma Mattiello - si è senz'altro fatto carico del problema adeguatamente segnalato dalla direzione dell'Istituto, ma non è dato sapere quanto tempo ci vorrà perché ciò avvenga. Non sono, a quanto pare, previste procedure d'urgenza, né l'intervento diretto da parte del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: come io mi sarei aspettato, vista la delicatezza della situazione.
A quanto mi risulta verrà applicata la normale procedura d'appalto". Il rischio di blackout del sistema, fa notare l'esponente del Pd, "aumenta prima di tutto lo stress del personale penitenziario, nello specifico il Gom, che deve essere pronto in ogni momento a sopperire con il controllo a vista, l'eventuale spegnimento delle telecamere, per tutta la durata del blackout stesso, ovviamente".
"Mi chiedo se a questo punto non sia più opportuno spostare in altra struttura, di pari categoria, soggetti come Carminati. Se il trasferimento da Tolmezzo a Parma ha avuto come motivazione il bisogno di assicurare una più adeguata l'assistenza medica, credo che non sia un problema trovare un'altra struttura che possa assicurare la medesima condizione", conclude Mattiello. Massimo Carminati è stato trasferito dal carcere di Tolmezzo (Udine) a quello di Parma, sempre in regime di 41 bis, ovvero il carcere duro, il giorno di Natale. In quel penitenziario è detenuto anche Totò Riina
Sarno (Uil-Pa): tante criticità... a Parma e non solo
"Nel carcere di Parma ci sono tante criticità e purtroppo negli anni sono rimaste inalterate ma non è nulla di nuovo sotto le stelle: il carcere spesso è veicolo di pubblicità e si parla tanto di emergenza ma si sottraggono fondi all' emergenza carceri, non si consentono nuove assunzioni, nel frattempo si aprono nuove strutture e questo in contraddizione con quanto anche in Parlamento si dice di voler fare".
Lo afferma Eugenio Sarno, segretario della Uil-Pa penitenziari. Per Sarno non è opportuno puntare l'attenzione su Carminati detenuto nel carcere di Parma, come oggi è tornato a fare il deputato Pd Mattiello. "Tutti gli oltre 200 istituti penitenziari - spiega il sindacalista - sono nel merino della camorra, dunque focalizzare l'attenzione su un solo caso è sconveniente.
In carcere ci sono 54 mila detenuti e solo 300 sono "vip", occorre dare attenzione a tutti, non visitare solo i più famosi". Detto ciò Sarno ammette che qualora nel carcere scatti il blackout, come avvenne una volta a Parma, tempo fa, la sorveglianza dei detenuti va fatta "a vista" dal personale penitenziario, "che è ben addestrato a qualsiasi eventualità".
Capece (Sappe): il carcere di Parma non è a rischio
"Il carcere di Parma, come altre strutture detentive, ha oggettive difficoltà strutturali che meriterebbero urgenti interventi di manutenzione da parte dell'Amministrazione Penitenziaria. Ma, e va detto con forza, questo non pregiudica le condizioni di sicurezza dell'Istituto e la dignità della detenzione dei ristretti". Lo afferma Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe.
"A Parma, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato", aggiunge Capece. "La Polizia Penitenziaria che lavora nel carcere di Parma - sottolinea il sindacalista - è formata da persone che nonostante l'insostenibile, pericoloso e stressante lavoro credono nella propria professione, che hanno valori radicati e un forte senso d'identità e d'orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano ogni giorno.
Certo, urgenti interventi e adeguati stanziamenti di fondi sono necessari per garantire migliori condizioni di lavoro. E sarebbero utili l'impegno e le sollecitazioni dei parlamentari che periodicamente vengono in carcere a Parma, se solo avessero il tempo di visitare tutto il penitenziario e non si limitassero a visitare spesso solamente il reparto detentivo dei 41bis che ospita detenuti famosi ed eccellenti. Ma, ripeto, la sicurezza del carcere di Parma non è a rischio", conclude Capece.
di Claudio Lattanzio
Il Centro, 15 gennaio 2015
La scuola allievi di Polizia penitenziaria di Sulmona non sarà soppressa. Lo ha annunciato il sindaco Peppino Ranalli, insieme al comandante del reparto di Polizia penitenziaria della scuola, Roberto Rovello, e al segretario regionale del sindacato di categoria, Sappe, Giuseppe Ninu.
"Nell'ottobre scorso, in nome della revisione della spesa, una circolare del ministero della Giustizia aveva annunciato l'avvio di un progetto sulle scuole di polizia penitenziaria italiane che prevedeva anche la soppressione di alcune sedi", ha detto Ranalli, "per questo ci siamo subito preoccupati che i tagli potessero riguardare anche la nostra scuola. Ho inviato una lettera al presidente della Regione, Luciano D'Alfonso, sollecitandone un interessamento che è stato immediato". I risultati sono arrivati nei giorni scorsi con la comunicazione venuta dal Ministero che ha rassicurato tutti sulle sorti della scuola di Fonte d'Amore ed anzi, come ha precisato il sindaco, "è stato chiesto un potenziamento delle attività della stessa scuola di polizia penitenziaria, ponendo mano ad un progetto di realizzazione di un eliporto, che avrà utilizzo anche per scopi di protezione civile".
Soddisfatto anche il comandante del reparto di polizia penitenziaria della scuola. "Attualmente nell'istituto, si svolgono le attività del 169esimo corso per allievi di polizia penitenziaria", ha sottolineato il comandante Rovello. "Per marzo sono attesi gli allievi del corso successivo, in tutto si tratta di oltre un centinaio di allievi che risiederanno per alcuni mesi in questa città e quindi questa presenza è significativa per Sulmona ed è per questo che appare importante che tutti quanti facciano sinergia, in difesa della scuola".
La stessa sinergia che Ninu ha auspicato a tutela del supercarcere di Sulmona. "Attualmente il comandante è in licenza per motivi personali", ha evidenziato Ninu, mentre il direttore appena incaricato, Sergio Romice, è solo part time. Il carcere più grande e importante d'Abruzzo ha bisogno di avere dirigenti a pieno titolo".
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