di Marina Castellaneta
Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2018
Corte di giustizia Ue, Raccomandazioni all'attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale. Protezione dei dati personali rafforzata nei procedimenti pregiudiziali dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea. Con le nuove "Raccomandazioni all'attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale" (pubblicate sulla Gazzetta ufficiale dell'Unione europea C 257), che sostituiscono quelle del 2016, la Corte è intervenuta a rafforzare la cooperazione tra giudici interni e giudici Ue anche nel segno della tutela dei dati personali e di una maggiore digitalizzazione nel procedimento.
In particolare, nel fornire le indicazioni pratiche sulla forma e sul contenuto delle domande pregiudiziali, sono state interpretate le regole per favorire una maggiore tutela dei dati personali, tenendo conto che, in base all'articolo 23 del Protocollo n. 3 dello Statuto della Corte Ue, la decisione di Lussemburgo deve essere pubblicata in tutte le lingue ufficiali dell'Unione. Di qui una maggiore tutela delle persone fisiche coinvolte.
Di conseguenza, il giudice nazionale che solleva la questione pregiudiziale e che "è il solo a disporre di una conoscenza integrale del fascicolo trasmesso alla Corte" deve farsi carico degli obblighi di protezione dei dati e procedere all'anonimizzazione "dei nomi delle persone fisiche menzionate nella domanda o interessate dal procedimento principale, nonché a occultare gli elementi che potrebbero consentire di identificarle".
La necessità di un obbligo a monte, a carico dei tribunali interni, è dovuta - scrive la Corte - alla circostanza che le tecnologie dell'informazione e il ricorso costante ai motori di ricerca renderebbero "priva di utilità un'anonimizzazione effettuata dopo il deposito della domanda di pronuncia pregiudiziale e, a fortiori, dopo la notifica di quest'ultima agli interessati di cui all'articolo 23 dello Statuto e alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea della comunicazione relativa alla causa considerata".
Questo porterà anche a una rivoluzione nel tradizionale metodo di citazione della causa perché, se coinvolte persone fisiche, non potranno più essere indicati i nomi delle parti ma solo le iniziali. Una limitazione che, invece, non si applicherà alle persone giuridiche. Precisato che spetta al giudice nazionale - che si trova nella posizione migliore per valutare in quale fase effettuare il rinvio - decidere il momento più idoneo per rivolgersi a Lussemburgo, la Corte ha evidenziato che, per gli effetti della pronuncia, spetta, in ogni caso, al giudice del rinvio "trarne le conseguenze concrete, disapplicando all'occorrenza la norma nazionale giudicata incompatibile con il diritto dell'Unione".
Tra i suggerimenti per assicurare una corretta amministrazione della giustizia è richiesto che il rinvio pregiudiziale sia deciso dopo un contraddittorio tra le parti. Le raccomandazioni contengono un allegato con l'individuazione degli elementi essenziali per la domanda in via pregiudiziale, che potrà essere trasmessa per via telematica o per posta.
di Francesco Machina Grifeo
Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2018
Corte di cassazione -?Sentenza 2 agosto 2018 n. 37558. Rischia di perdere il credito la banca che abbia accordato un mutuo fondiario su di un immobile poi confiscato perché appartenente a un soggetto condannato per usura.
Non basta infatti la regolarità formale delle procedura o l'assenza, al momento, di condanne penali per ritenere assolti gli stringenti obblighi di verifica sulla "affidabilità" e "solvibilità" dei clienti che gravano su di un operatore professionale qualificato come la banca. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 2 agosto 2018 n. 37558, accogliendo il ricorso dell'"Agenzia nazionale per l'amministrazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata" contro l'ordinanza del Gip di Siracusa che invece aveva ammesso l'istituto al pagamento del credito ipotecario residuo (nella misura di 47mila euro sui centomila complessivamente erogati).
Secondo l'Agenzia infatti l'istruttoria bancaria, e poi il provvedimento del Gip, avrebbero dovuto "cogliere l'inadeguatezza dei redditi leciti dichiarati in rapporto alla sopportazione del mutuo e all'obbligo della sua restituzione nei tempi e con le modalità concordate". La banca si è difesa sostenendo che si era trattato di una "regolarissima operazione di finanziamento fondiario" e sottolineando l'"adeguatezza" della somma erogata rispetto al valore dell'immobile.
Per la Suprema corte, però, "omettendo di considerare le ragioni poste a fondamento del sequestro e della successiva confisca", l'ordinanza con cui il giudice dell'esecuzione ha disposto l'ammissione al passivo della banca "ha del tutto astratto dall'analisi dei pertinenti profili patrimoniali e della proporzionalità tra i redditi del condannato e del coniuge e gli esborsi rateali per il pagamento del mutuo". Aggiungendo che "se è evidente che l'istituto di credito non è titolare di autonome prerogative investigative, la dimostrazione, di cui lo stesso è onerato, attiene alla verifica svolta in ordine alle caratteristiche soggettive della parte richiedente l'erogazione del mutuo, e segnatamente, nella specie, con riguardo alla sua affidabilità e solvibilità derivante dalla capacità produttiva di un reddito lecito".
Mentre, prosegue la decisione, la compatibilità tra il valore dell'immobile e la cifra erogata "non assicura affatto che attraverso l'erogazione del mutuo non si realizzi un fenomeno di sostanziale ripulitura di capitali di provenienza illecita utilizzati al fine di sostenere le obbligazioni nascenti dal contratto". Inoltre, l'ordinanza fondando "il giudizio positivo relativo alla buona fede della Banca creditrice", unicamente "sul rispetto delle procedure tipizzate per la concessione dei finanziamenti, non si è confrontata con il tipo di attività svolta dal terzo creditore, che, tenuto ad attenersi alle specifiche direttive emanate dagli organi di vigilanza, è soggetto a particolari obblighi di diligenza professionale qualificata per la peculiare posizione rivestita per la gestione del credito nel sistema socio-economico". Il rispetto di tali obblighi, che l'Agenzia ha tradotto in qualcosa di più della semplice "assenza di anomalie", conclude la Corte, avrebbe richiesto la dimostrazione che "la erogazione del mutuo era avvenuta in presenza di un reale controllo della capacità finanziaria e delle condizioni patrimoniali del richiedente e della famiglia e della sua affidabilità soggettiva, anche alla luce dei rapporti pregressi o pendenti".
di Patrizia Maciocchi
Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2018
Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 2 agosto 2018 n. 37589. Non rientra nella concussione ma nell'induzione indebita tentata, la richiesta di denaro da parte del poliziotto, all'esercente del bar per evitare la multa per occupazione di suolo pubblico, se la vittima finge solo di accettare il "ricatto" mentre ha già deciso di denunciare.
La Cassazione, con la sentenza 37589, accoglie il ricorso di funzionario di polizia di Roma capitale, condannato per concussione nei precedenti gradi di giudizio. L'imputato aveva chiesto 1500 euro alla proprietaria di un bar che aveva messo sul marciapiede tavolini e sedie, avvertendola che l'abuso di "ampliamento delle superficie di vendita" era sanzionabile con 3000 euro. Il pubblico ufficiale si era detto disponibile a lasciarla tranquilla, almeno per un anno, se avesse versato nelle sue "tasche" la metà. Alla fine la cifra incassata dal poliziotto in denaro "fac simile" e alla presenza di poliziotti in borghese, era stata di 1310 euro.
La Cassazione accoglie però la tesi della difesa che non di concussione si trattava, ma di tentativo di induzione indebita. E chiarisce perché. La signora avrebbe conseguito comunque un vantaggio illecito nell'accettare il patto, perché la multa la rischiava davvero, sebbene non per ampliamento dell'attività. Ma questo, all'epoca, il pubblico ufficiale non poteva saperlo perché la questione era ancora controversa, anche tra gli addetti ai lavori.
Solo nel 2014 è arrivato un chiarimento con il quale il governo ha precisato che l'occupazione di suolo privato con tavoli e sedie non comporta l'ampliamento dell'attività, ma solo una violazione del codice della strada soggetta a sanzione pecuniaria. In più, rispetto a quanto avviene per la concussione, non c'era stata un'intimidazione di intensità tale da incidere pesantemente sulla libertà di autodeterminazione del destinatario.
Per finire l'indebita induzione era tentata perché la donna aveva solo finto di accettare la proposta, mentre aveva già deciso di chiedere l'intervento delle forze dell'ordine. La Cassazione precisa, infatti, che certamente il delitto si consuma con la semplice "promessa" di denaro o altre utilità, ma questa deve essere valida ed effettiva e non "simulata" come avvenuto nel caso esaminato.
di Eleonora Martini
Il Manifesto, 3 agosto 2018
Aveva denunciato di aver subito violenze e aveva paura di morire: lo aveva confidato ad una delegazione del Garante regionale dei detenuti del Lazio andata in visita nel carcere Mammagialla di Viterbo dove era recluso. Le sue dichiarazioni vennero poi riportate, insieme alle denunce di altri detenuti, in un esposto inviato dal Garante alla Procura viterbese il 5 giugno scorso.
Eppure Hassan Sharaf, un detenuto egiziano di 21 anni che avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, il 23 luglio scorso è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Entrato in coma, è morto il 30 luglio nell'ospedale locale di Belcolle. Suicida, secondo le autorità penitenziarie.
A darne notizia è stato lo stesso Garante, Stefano Anastasia, che di Hassan si era già occupato in passato: "Alla nostra delegazione che lo incontrò il 21 marzo scorso - ricorda Anastasia - Sharaf mostrò alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima".
È il terzo detenuto morto dall'inizio dell'anno nella casa circondariale di Viterbo, il secondo suicida in cella d'isolamento, "segno - è il commento di Patrizio Gonnella - di un malessere diffuso le cui cause devono essere portate pienamente alla luce".
Nel caso specifico, sul quale indaga la procura, il presidente di Antigone chiede anche di chiarire "se corrisponda a realtà quanto starebbe emergendo, ovvero che il 21enne fosse in carcere per un reato commesso da minorenne. Se così fosse avrebbe dovuto essere recluso presso un Istituto di pena per minorenni. Anche in questo caso - conclude Gonnella - andrebbe quindi accertato cosa è accaduto".
Secondo quanto riportato da Anastasia, infatti, Hassan Sharaf nell'aprile scorso aveva finito di scontare la pena per un reato commesso da adulto ma avrebbe dovuto trascorrere ancora 4 mesi in carcere per un fatto risalente a quando era minorenne. Per questo residuo di pena, avendo meno di 25 anni, la norma prevede che avrebbe potuto essere trasferito in un istituto per minorenni, a discrezione del magistrato di sorveglianza e del giudice dell'esecuzione minorile, che devono essere avvisati dalla direzione penitenziaria. Cosa che, in questo caso, rimane da accertare sia mai avvenuta.
Comunicato dell'Associazione Antigone
Lunedì scorso nell'ospedale di Viterbo è morto Hassan Sharaf, un ragazzo egiziano di 21 anni, arrivato lì in fin di vita dopo essersi impiccato nella cella di isolamento, dove era stato condotto da poche ore, della locale casa circondariale. "Quello che chiediamo, dopo questo suicidio, è che si faccia un'indagine approfondita anche alla luce di quanto esposto dal Garante regionale sulle presunte violenze che avverrebbero a Viterbo. Quello di Hassan è la terza morte avvenuta in questo carcere nei primi sette mesi dell'anno, la seconda a seguito di un tentativo di suicidio compiuto in isolamento, segno di un malessere diffuso le cui cause devono essere portate pienamente alla luce". A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.
"Nel caso specifico di questo ragazzo poi - prosegue Gonnella - c'è da accertare se corrisponda a realtà quanto starebbe emergendo, ovvero che il ventunenne fosse in carcere per un reato commesso da minorenne. Se così fosse avrebbe dovuto essere recluso presso un Istituto di Pena per Minorenni. Anche in questo caso - conclude il presidente di Antigone - andrebbe quindi accertato cosa è accaduto".
palermotoday.it, 3 agosto 2018
"La stagione estiva tende ad accentuare le difficoltà e i disagi anche di ordine psicologico normalmente connessi alla vita detentiva". "I dati sui suicidi, gli atti di autolesionismo e di tentato suicidio dentro le carceri invitano tutti noi ad aumentare la vigilanza a protezione delle persone più a rischio".
Lo dice il Garante regionale dei diritti dei detenuti Giovanni Fiandaca che denuncia un'impennata dei tentativi di suicidio in Sicilia con l'arrivo dell'estate. "Dall'inizio dell'anno - dice - solo due detenuti sono riusciti nel loro intento di togliersi la vita ma nell'ultimo mese sono aumentati in maniera significativa gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio".
I numeri parlano chiaro: da gennaio 2018 alla fine di giugno gli atti di autolesionismo sono stati in tutta l'Isola 397 mentre da fine giugno ad oggi sono diventati 479. In crescita anche i tentativi di suicidio passati da 42 (dato al 30 giugno 2018) a 54 (dato al 2 agosto 2018). "La stagione estiva - dice Fiandaca - tende ad accentuare, per intuibili motivi, le difficoltà e i disagi anche di ordine psicologico normalmente connessi alla vita detentiva.
Ne deriva, pertanto, un aumento delle situazioni conflittuali, dello scatenarsi di condotte violente e della tendenza al compimento di gesti auto ed etero lesivi, sino alla scelta estrema del suicidio. Per evitare esiti tragici serve una particolare attenzione da parte di tutti coloro che operano all'interno delle carceri: dal personale dell'Amministrazione penitenziaria al personale sanitario, a tutti gli altri soggetti a vario titolo responsabili operanti in Sicilia".
"Pur avendo gli eventi cause molteplici - conclude Fiandaca - e pur non essendo oggettivamente tutto prevedibile e prevenibile, non c'é dubbio che il ricorso ad adeguate misure preventive può ridurre di molto il pericolo di gesti estremi. Come Ufficio del Garante regionale ribadiamo la disponibilità a fornire il nostro contributo nell'ambito di un'articolata strategia di prevenzione".
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 3 agosto 2018
Non si fermano i suicidi in carcere. Al carcere di Udine si è uccisa, nella cella della sezione protetta, una detenuta transessuale. La tragedia è avvenuta martedì, si è impiccata con un lenzuolo nel bagno del carcere. Inutili, purtroppo, i tentativi di soccorrerlo da parte della polizia penitenziaria e dei sanitari.
A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del Segretario regionale del Friuli Venezia Giulia, Giovanni Altomare che ha anche segnalato, sempre nello stesso carcere, un'aggressione di un detenuto con problemi psichici nei confronti dello psichiatra che lo stava visitando.
"Ancora una volta - denuncia il segretario regionale del Sappe -, va pur detto, con la riduzione degli organici e gli accorpamenti triplicati dei posti di servizio è sempre più difficile attuare una sorveglianza adeguata nelle sezioni detentive. Difatti, l'addetto alla sezione del piano terra, luogo del tragico evento, doveva sorvegliare altre due sezioni detentive più la rotonda del piano e il cortile passeggi. Insomma, contemporaneamente ricopriva cinque posti di servizio. Peraltro, attualmente, il carcere di via Spalato è interessato da due piantonamenti in luoghi esterni di cura che incidono ulteriormente sull'organico di Polizia Penitenziaria".
Con l'ennesimo gesto, siamo giunti a 31 suicidi dall'inizio dell'anno, compresa una persona ricoverata in una Rems. Lo stesso giorno in cui si è suicidata la detenuta al carcere di Udine, nella mattinata - come già riportato da Il Dubbio - è deceduto nel reparto di rianimazione del locale ospedale un tunisino di 33 anni che una settimana fa nell'Istituto di La Spezia si era impiccato nella sua stanza. Analogamente, il giorno prima- dopo sette giorni di ricovero in terapia intensiva - era morto un 21enne egiziano, detenuto a Viterbo, che avrebbe finito la pena a settembre.
Si era impiccato con un laccio rudimentale fermato alle grate della finestra il 23 luglio, poco dopo essere stato assegnato al reparto di isolamento per scontare una sanzione disciplinare risalente a un fatto di marzo. Nello stesso reparto del carcere di Viterbo si trovava anche l'italiano che si è tolto la vita il 22 maggio scorso, dopo sette giorni in isolamento. La media dei suicidi, oramai è di uno a settimana e l'estate potrebbe essere destinata a salire.
Per quanto riguarda la detenuta che si è suicidata ieri, rappresenta una delle problematiche specifiche che riguardano le vulnerabilità di gruppi come, appunto, le persone Lgbti, i migranti e le minoranze etniche. Per le detenute transessuali, una osservazione a parte è stata fatta dalla relazione del 2018 presentata in parlamento e curata collettivamente dal Collegio (il Presidente Mauro Palma e le componenti Daniela de Robert ed Emilia Rossi) e dallo staff del Garante nazionale. Si apprende che le persone transessuali, attualmente censite in 10 sezioni specifiche con 58 presenze, sono tutte collocate in Istituti maschili. Si legge sempre nella relazione che Il Garante nazionale ha da tempo espresso l'opinione "che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica".
Nello scorso anno aveva valutato con soddisfazione la stesura di un decreto del ministro che, almeno in via sperimentale, andava in questa direzione e ridefiniva le sezioni destinate alle persone transessuali. Purtroppo il decreto non è stato più emanato e il tema sembra sparito dall'agenda delle urgenze. Per questo, Palma raccomanda che sia almeno riaperta la discussione, "anche al fine di considerare le perplessità che possano averne frenato il percorso". Ribadisce comunque, che anche per tali sezioni, la cui specificità è ineliminabile, valga il principio dell'inclusività nella vita detentiva generale dell'Istituto e che siano predisposte sia attività specifiche, sia attività in comune con altre persone detenute.
di Fabrizio Mattevi
Corriere dell'Alto Adige, 3 agosto 2018
Anche quest'anno le attività e i corsi realizzati nel carcere di Bolzano si sono conclusi con la consegna di diplomi e attestati: un'occasione per mostrare e condividere, anche in modo festoso, quanto realizzato. Tra le alte pareti del cortile interno, sotto lo sguardo vigile della polizia penitenziaria, si è suonato, si sono messi in scena i testi del laboratorio teatrale, si è gustato il buffet allestito dai partecipanti al corso di cucina.
È stato anche distribuito "Voci dal silenzio", pubblicazione annuale della Casa circondariale di Bolzano, curata dalla Formazione professionale, con interventi e testimonianze raccolte durante le esercitazioni al computer. Molteplici sono gli obiettivi e gli intenti delle proposte formative: accrescere l'istruzione, soprattutto linguistica; promuovere il conseguimento della licenza media; ampliare le opportunità occupazionali con i corsi, assai richiesti, per addetto di cucina; offrire momenti di socializzazione e spazi espressivi per occupare il tempo della detenzione e apprendere qualche semplice tecnica artigianale.
Per realizzare simili finalità, direzione del carcere, personale interno, polizia penitenziaria, Tribunale di sorveglianza cooperano con enti e agenzie esterne: Intendenza scolastica, Formazione professionale italiana, Alphabeta, Caritas, La strada-der Weg. L'impegno per la rieducazione e la riabilitazione sociale è faticoso e a volte frustrante.
Tanto più all'interno di una struttura fortemente limitata come quella bolzanina, pressoché priva di locali per attività didattiche e laboratoriali. L'adesione e la partecipazione dei detenuti sono condizionate dall'elevato turnover dovuto a trasferimenti, fine pena, concessione di misure alternative. Interventi e proposte debbono poi fare i conti con la composizione della popolazione carceraria: attualmente, del circa centinaio di detenuti, più o meno l'80% sono stranieri, per due terzi extraeuropei, tra cui una quota di clandestini.
Le storie complesse e tormentate di queste persone, la lontananza dei luoghi di provenienza e spesso delle famiglie, le differenze di cultura, la scarsa conoscenza dell'italiano rendono irta la via del recupero, ma al contempo irrinunciabile per contrastare il ritorno all'illegalità. Perciò l'esito più prezioso perseguito dalle attività interne è la riscoperta del valore di sé. Merita dunque attenzione e sostegno quanto si sta facendo, pur tra ostacoli e fallimenti, affinché la pena detentiva, che comporta ingenti oneri per lo stato, possa essere per davvero proficua, per i singoli e per la collettività.
di Andrea Fantucchio
ottopagine.it, 3 agosto 2018
Novantacinque firme consegnate in redazione. In calce a una denuncia e la storia di un detenuto. Carcerati malati e senza cure. Molti decidono di farla finita: una media di quattro suicidi al mese. Un quadro disastroso, anche ad Avellino. "Qui dentro non possono curarmi. Ho sempre più male alle gambe. Aiutatemi, sono un essere umano anche io". Giovanni Chiodo, 64 anni, in carcere da tre. La sua storia è allegata a quattro fogli di quaderno consegnatici a mano da un detenuto in permesso. Portavoce di 95 carcerati che hanno denunciato gravi carenze nell'assistenza medica nel penitenziario di Bellizzi Irpino.
Il caso di Giovanni è emblematico. "Ho il diabete mellito tipo 1. Il dirigente sanitario ha spiegato che il carcere non è attrezzato per curare la mia malattia. I documenti li ho inviati all'Asl di Avellino. Non mi hanno mai risposto". In mezzo, un piccolo giallo. "In una relazione l'istituto scrive che ho rifiutato la mia cura, ma non è vero. Ho solo rifiutato il cambio reparto".
Una storia come tante. I detenuti, nella loro lettera, scrivono che nel penitenziario "Non ci sono medicine adatte a tutte le malattie. Farle arrivare da fuori costa troppo. E mancano gli specialisti come cardiologi e ortopedici. Gli infermieri sono tirocinanti".
L'assistenza precaria in carcere è un problema purtroppo comune in tutta Italia. Basta guardare i numeri relativi ai disagi psichici: più di quarantamila i casi. Oltre il 65 per cento dei detenuti soffre di disturbi della personalità, stati di ansia (12 per cento), disturbi psicotici (4 per cento). L'assistenza è carente. Situazione simile anche per patologie differenti come il diabete. Problemi che, spesso, uniti ad altri disagi sfociano in gesti estremi.
In meno di cinque mesi, dall'inizio dell'anno a oggi, sono più di 30 i decessi in carcere. Ventiquattro i suicidi. Morti inarrestabili e silenziose legate, in molti casi, allo stato delle prigioni sovraffollate. Il decreto "svuota carceri" dell'ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando (2014), ha avuto effetti positivi brevi: più di 55mila i detenuti per 50mila posti a disposizione. Ne hanno parlato anche i sindacati delle guardie carcerarie nei mesi scorsi.
Nel mirino i tagli nelle piante organiche dei penitenziari, le condizioni di insicurezza delle strutture, la mancanza di presidi permanenti di agenti, le liste di scorrimento bloccate che pesano su un personale già ridotto all'osso. Condizioni che aumentano i rischi di aggressioni e disordini in carcere. Senza che si intraveda una soluzione all'orizzonte.
di Lucandrea Massaro
aleteia.org, 3 agosto 2018
"Per me padre Puglisi è tutto" così dice Stefano Taormina, 61 anni e una condanna all'ergastolo. Quando aveva 21 è finito in carcere al prima volta. "Ho iniziato rubando le auto. Poi ci sono state le rapine e gli omicidi".
Oggi è in semilibertà. Esce dal penitenziario al mattino e rientra alla sera, in mezzo la giornata la passa Centro Padre Nostro, nel quartiere Brancaccio di Palermo, una ex (?) roccaforte mafiosa. Il Centro nasce proprio da don Pino Puglisi, il sacerdote beato martire della Mafia. È qui che Stefano cerca e trova redenzione, aiutando i ragazzi del luogo in questo centro polifunzionale in cui si fanno corsi, si tiene l'asilo, ma soprattutto si dà una prospettiva in un pezzo d'Italia che prospettive non ne ha.
"Ho conosciuto il presidente Maurizio Artale - dice Stefano ad Avvenire - durante uno dei suoi colloqui in carcere. Di solito non prende persone che hanno sulle spalle pene da scontare come le mie. Ma si è fidato...". Adesso lui ha scoperto di avere molti talenti, vuole dare una mano e soprattutto non vuole che i tanti ragazzi del quartiere facciano la sua fine
Stefano è stato anche il testimonial del Progetto Pari, un percorso per promuovere "buone relazioni" nelle scuole superiori di Palermo voluto dal Comune con il Centro Padre Nostro. "Agli studenti ho raccontato la mia adolescenza. Perché ci vuole davvero poco a passare dal bullismo alla delinquenza, da una bravata ai reati. Così a loro ripeto: non fatevi ingannare, non cedete ai richiami dei soldi facili".
Quindi rivela: "Già i miei insegnanti mi chiamavano delinquente". Oggi va orgoglioso della sua famiglia. "Mia moglie lavora e abita non lontano da qui. I miei due figli sono già sistemati: lui è un imprenditore, lei ha un ingrosso". Eppure, continua, "le mie notti sono segnate dagli incubi per quello che ho fatto. Non ho mai nascosto gli errori che ho commesso. Infatti sto pagando". Poi la voce si abbassa. "In carcere ho avuto anche un infarto. Il pensiero di aver rovinato un'intera famiglia con le mie mani mi ha talmente tormentato che il cuore ha ceduto. Se sono ancora vivo, lo devo alla polizia penitenziaria che mi ha salvato".
Il suo riscatto è iniziato proprio in cella. "Io, che non avevo mai avuto voglia di studiare, ho preso due diplomi. E ho seguito corsi di computer, idraulica, elettrotecnica". Con i suoi quadri, venduti in una mostra a Torino, ha aiutato anche quattro ragazzi rimasti orfani dopo l'alluvione del 1994 in Piemonte. "Un sogno che ho adesso? Poter stringere la mano a papa Francesco e avere da lui una benedizione. So che sarà a Palermo per rendere omaggio a don Pino. Chissà se ci sarà la possibilità di abbracciarlo...".
di Eleonora Caddeo
La Nuova Sardegna, 3 agosto 2018
Per risparmiare i rubinetti restano a secco dalle 23 alle 6 del mattino Ma le perdite della rete interna cancellano i benefici del razionamento. Da un lato si interrompe l'erogazione dell'acqua per risparmiare, dall'altro non si riparano le tante perdite presenti nella struttura. Al carcere di Massama si raziona l'acqua ma solo a parole, visto gli sprechi. I rubinetti sono chiusi da otto mesi, nella fascia notturna dalle ventitré alle sei del mattino, sia nelle cento ventitré celle, negli alloggiamenti dedicati al personale di polizia penitenziaria, e in tutti gli altri locali, fatta eccezione dell'infermeria.
Al posto dell'acqua a corrente, sono stati acquistati circa duecento bidoni di plastica da venti litri, posizionati nelle celle, uno per ciascun detenuto, più altri condivisi dagli agenti di polizia penitenziaria, da riempire tutte le sere. La scelta di razionare l'acqua, presa dalla direzione della casa di reclusione di Oristano, risponde ad una direttiva ministeriale del 2017, relativa al Piano di contenimento dei consumi idrici. L'ordine di servizio, emanato dalla direzione del carcere già a dicembre, è attivo.
Tutto chiaro? Neppure per sogno. Da un lato vengono chiusi i rubinetti, dall'altro, da altrettanti mesi, c'è uno spreco di acqua a causa di perdite nelle tubature dell'impianto e di malfunzionamenti in alcuni bagni della casa di reclusione. Secondo i sindacati nel seminterrato, le tubature che passano sul soffitto perdono da molti mesi. Per un banale guasto al sifone, uno dei due bagni dell'infermeria, per molti mesi, ha causato una perdita d'acqua pari a diversi metri cubi al giorno, limitata, naturalmente alle diciassette ore di apertura dei rubinetti.
Questo spreco d'acqua potrebbe essere risolto con l'intervento di un idraulico, e con una serie di manutenzioni non certo complesse e costose. Il caso dell'infermeria, solo da poco risolto, non è l'unico: sono tanti i malfunzionamenti tutt'ora presenti e segnalati nelle forme dovute dal personale di sorveglianza. Una carenza di manutenzione, quella della casa di reclusione Salvatore Soro, di cui sono stati informati da febbraio, il prefetto di Oristano, Giuseppe Guetta, il provveditore delle carceri sarde, Maurizio Veneziano, e lo stesso direttore della casa di reclusione, Pier Luigi Farci.
Oltre all'emergenza idrica, il carcere di Massama sembrerebbe presentare altre problematiche legate alla scarsa manutenzione: dai cancelli, molti dei quali andrebbero sistemati, alla video-sorveglianza, che andrebbe potenziata. Necessità importanti ma forse non come lo spreco d'acqua, se si pensa che la struttura detentiva oristanese ha consumi che superano quelli delle limitrofe frazioni cittadine.
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