di Ketty Volpe
articolo21.org, 7 maggio 2019
La cella è un luogo desolante. Degradato. Ha odore acre che resta pregno su pelle, abiti e capelli. Si tira su con le narici, anche quando si vien fuori dalla galera. Nella cella le peggiori ore della vita. Si fa quasi tutto lì. Si mangia, si dorme, si cucina, si usa il water, si scrive, si sogna, si racconta di sé, si lava la biancheria, si guarda la tivvù, si ascolta la radio, si gioca a carte, si prepara il caffè, si ricorda, si fa finta di vivere, si vegeta.
di Alfredo Mantovano
Il Foglio, 7 maggio 2019
Il caso Noemi ricorda che nella lotta contro il crimine i guai dipendono dai tempi lunghi fra reato e avvio della repressione. La cronaca di ieri ci riporta ancora notizie drammatiche sulla piccola Noemi, la bambina di 4 anni ancora in prognosi riservata ferita per errore qualche giorno fa in un agguato di camorra nel centro di Napoli.
Sul tema del contrasto alla camorra ci sarebbero molte cose da dire. Limitiamo le considerazioni al profilo del contrasto. Non perché le iniziative di prevenzione non siano importanti; anzi, sono decisive. È che però una situazione come quella di Napoli esige una radicale bonifica dai personaggi più pericolosi.
Napoli ha svariati problemi quanto a repressione penale. Il principale - non esclusivo del capoluogo campano, ma lì fortemente condizionante - è la gran quantità di criminali a piede libero, benché individuati come presunti autori di gravi delitti. Come mai?
Quando la polizia giudiziaria conclude una indagine e deposita l'informativa contenente la richiesta all'autorità giudiziaria di emettere ordinanze di custodia cautelare, già è trascorso un certo tempo rispetto al fatto illecito che l'ha originata: un tempo tanto più lungo quanto più l'indagine è stata difficile e complessa. Dal deposito dell'informativa al momento in cui il pubblico ministero presenta al Gip la richiesta del provvedimento restrittivo trascorre altro tempo, mediamente da uno a due anni. Dal momento della richiesta del P.M. al momento dell'ordinanza del Gip si aggiunge un ulteriore segmento temporale, spesso prossimo ai due anni. Tirando semplici somme aritmetiche, che cosa significa?
Che, anche a fronte di un crimine serio, i suoi responsabili possono restare in circolazione indisturbati fino a cinque anni. E non è detto che alla fine l'ordinanza venga emessa: se le esigenze cautelari che motivano la custodia in carcere si fondano sul rischio di ripetizione di reati della stessa specie, uno degli elementi di valutazione previsto dal codice di procedura è la distanza temporale dal fatto; non è così semplice motivare sul pericolo di tornare a commettere i medesimi delitti quando il reato per il quale si procede risale a un lustro prima. Finora ho parlato della fase cautelare: il giudizio vero e proprio ha tempi ordinari ancora più lunghi prima di giungere alla sentenza definitiva.
Nelle more scadono i termini di custodia cautelare e gli imputati tornano in libertà, benché magari processati e condannati per omicidio o per associazione camorristica, o per entrambi: se gravitano nell'area della camorra è facile immaginare che cosa riprendano a fare, una volta usciti dal carcere. Chi ha responsabilità di governo, nazionale e del territorio, e di esercizio della giurisdizione a Napoli non può eludere questo nodo. Che non è nuovo, ma che non si risolve da solo. Intervistato domenica scorsa da Repubblica, il Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho, che ben conosce Napoli per essere stato lì per anni Procuratore della Repubblica aggiunto, ha proposto una riedizione del c.d. modello Caserta: alla fine del 2008, a fronte dell'esplosione criminale nell'area del Casalese, fu istituito un tavolo che per due-tre anni si è riunito con cadenza mensile nella prefettura di Caserta, composto dal ministro dell'Interno - all'epoca Roberto Maroni, che affiancavo o all'occorrenza sostituivo essendo sottosegretario all'Interno con delega alla sicurezza - dai vertici nazionali delle forze di polizia, in primis Antonio Manganelli, che promosse l'iniziativa, dai vertici territoriali delle stesse forze di polizia e della magistratura inquirente.
Si individuavano gli obiettivi e si mettevano a disposizione gli strumenti per raggiungerli, e all'incontro successivo si verificava quali risultati si fossero conseguiti, rettificando - se del caso - il tiro con mezzi differenti o rivedendo le priorità. Quel contrasto, coordinato e agganciato al territorio, diede frutti importanti per lo meno sul piano della stretta repressione, permettendo la cattura dei latitanti, la disarticolazione di non pochi clan, il sequestro e la confisca di molti dei loro patrimoni.
Per carità, oggi vanno bene i poliziotti in più che il ministro dell'Interno sta inviando a Napoli; ma quando si combatte una guerra - quella alla camorra ha certamente talune caratteristiche di un conflitto bellico, se pur asimmetrico - è pregiudiziale identificare il nemico e le sue modalità operative, e comprendere le ragioni per le quali continua a essere a operativo. E questo non lo fai da solo, pur se sei istituzionalmente autorevole e dotato di mezzi: hai bisogno di condividere con chi è sul posto come indirizzare quei mezzi in modo mirato per coprire le effettive necessità.
I tempi intollerabilmente lunghi fra un evento criminale e l'avvio della sua repressione, e quindi la conclusione dell'eventuale giudizio, vanno affrontati non col tratto polemico della critica alla Procura che ci mette tanto o ai Gip che non danno risposte rapide, ma con la concorde identificazione delle cause per le quali ciò avviene. Se si recupera il metodo del lavoro concorde di un decennio fa, si potrebbe scoprire che il primo ufficio che necessita rinforzi non è tanto la Questura, bensì quello del Gip: e qui l'intervento compete al ministro della Giustizia e al Csm, da coinvolgere nel tavolo comune.
Si constaterebbe che uno dei limiti delle informative di reato è che spesso esse consistono in malloppi di centinaia, se non migliaia, di pagine, con l'inutile trasposizione al loro interno del contenuto di conversazioni telefoniche, senza un minimo di sintesi e di rielaborazione critica; poiché col meccanismo del "copia e incolla" larga parte di quelle informative sono trasferite pari pari nelle richieste del P.M. e nelle ordinanze del Gip, alla fine del percorso cautelare si hanno provvedimenti illeggibili e scarsamente comprensibili, che rischiano la censura nei gradi successivi di impugnazione.
Inviare a Napoli polizia giudiziaria che formi a redigere in modo più efficace le informative - investire personale in questa direzione - serve più che mandare un centinaio di uomini aggiuntivi che operino per strada. Quel che rammarica per Napoli è che la realtà camorristica, oggi molto più che nel passato, appare tutt'altro che invincibile, e lo Stato non parte da zero.
Servono però non le urla, gli slogan, la propaganda, lo scarico strumentale di responsabilità, bensì il governo continuativo del contrasto al fenomeno criminale. "Governo" chiama in causa il soggetto che opera e l'atto costante e fattivo del governare.
di Gianfranco Viesti
Il Messaggero, 7 maggio 2019
I tragici fatti di Napoli ripropongono ancora una volta il problema della sicurezza e della legalità in tutto il Paese, ma in particolare in alcune aree del Mezzogiorno. La diffusione di piccole e grandi forme di criminalità non è solo un dramma per chi è coinvolto, una ferita molto grave per la convivenza civile e una forte riduzione della qualità della vita per le comunità: con effetti profondi sulle scelte familiari, professionali, di mobilità che poi si compiono.
Ma anche un vincolo forte allo sviluppo di attività di impresa; un ostacolo di primaria importanza allo sviluppo economico. Quanti ragazzi e ragazze giovani lasciano silenziosamente le città e le regioni più difficili in cerca non solo di occasioni di lavoro, ma anche di una maggiore tranquillità e qualità di vita? Quante imprese rinunciano ad investimenti nelle aree più problematiche, proprio per la difficile tutela della legalità?
Quante iscrizioni perdono le eccellenti università di Napoli da parte di studenti che hanno timore a spostarsi a vivere in una città così complessa (con tutte le conseguenze che questo ha per le casse e il futuro degli atenei e l'economia della città)? E quanto l'economia sana di quelle stesse aree viene colpita dalle estorsioni e dalla concorrenza sleale di attività sul filo della legalità o apertamente finanziate dalla criminalità? A tutto questo va data una risposta molto più netta di quelle fornite fino ad oggi.
E la risposta deve fornirla lo Stato italiano: in quanto garante dei diritti di cittadinanza di tutti i suoi cittadini, che non possono essere così drammaticamente diversi, a seconda della città in cui si vive, come oggi. Una risposta che non può che avere due volti. Da un lato, quello del ripristino della legalità. Il che significa non solo la repressione da parte delle forze dell'ordine e la condanna da parte della magistratura delle azioni criminali più evidenti; attività che nel tempo hanno ottenuto non pochi successi.
Ma anche, più capillarmente, un controllo più sistematico del territorio; la progressiva eliminazione di tutte le forme di illegalità anche minore. Lo Stato ha il dovere di essere presente per le strade di ogni città; non può tollerare zone franche, aree grigie. Disparità territoriali nel diritto ad una vita serena, civile. Su questo l'impegno richiesto è assai maggiore: e sorprende come a mille allarmi per la "sicurezza" non si accompagnino piani di azione concreti per eliminarle. Dall'altro, quello della progressiva inclusione sociale di ampie fasce di popolazione a rischio. Tema complesso ma decisivo.
Ciò significa una valorizzazione costante delle attività di partecipazione civica che convivono in quei territori insieme alle punte peggiori di degrado. L'ampia area napoletana ospita tanto luoghi del degrado quanto luoghi e attività di costruzione di forme di convivenza. Lo Stato, molto più intensamente e visibilmente di quanto oggi accada, deve schierarsi con i secondi. Significa un progressivo potenziamento dei servizi collettivi di assistenza e di cura; e dei presidi scolastici: l'argine più importante. E politiche di ampio respiro per la creazione di lavoro legale e tutelato: l'enorme scarto nei tassi di occupazione legale fra il Mezzogiorno e il resto d'Europa testimonia della dimensione dell'area grigia della "fatica" sottopagata e sommersa.
Il diritto alla sicurezza e all'inclusione sociale non è una questioni locale, di qualche sindaco. È una grande questione nazionale, unitaria, delle strutture dello Stato e dei prefetti. È bene ribadirlo in tempi di "secessione dei ricchi", nei quali parti di classi dirigenti delle aree più forti pensano esclusivamente in chiave di vantaggi localistici; nei quali le bozze di intesa sulle "autonomie differenziate" ufficialmente disponibili prevedono clausole che porterebbero ad una riduzione della spesa scolastica proprio nelle regioni del Sud, a vantaggio del Lombardo-Veneto, a pagare magari di più chi insegna nei comuni più ricchi rispetto a chi lavora nei territori più disagiati; nei quali le intese sotterranee raggiunte negli scorsi anni sulla perequazione delle capacità fiscali dei comuni continuano a privare proprio quelli più poveri delle risorse per i servizi sociali.
È un grande investimento collettivo, a vantaggio dell'intero Paese. Insomma, curare il Sud sarebbe un modo per curare l'intera Italia. Colpire la criminalità organizzata significa indebolire anche le sue amplissime e ben radicate propaggini nel Nord del Paese; maggiore occupazione regolare al Sud significa maggiore gettito contributivo per le casse nazionali. Voler garantire a tutti i cittadini elementari diritti ovunque vivano, significa puntare a rafforzare la fiducia degli italiani nello Stato: assai di più di quanta, indeboliti e sfiduciati come sono, ne esprimano oggi.
di Gennaro Morra
Il Mattino, 7 maggio 2019
È reduce da una lezione speciale il Maestro Marco Zurzolo, che sabato scorso è entrato nel carcere di Poggioreale, dove ha incontrato 120 detenuti e 70 studenti di giurisprudenza. Un evento previsto nello stage di "Diritto penitenziario e Giurisdizione di sorveglianza" promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi della Campania, "Luigi Vanvitelli", e organizzato con il Garante delle persone private della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello. In quell'occasione il sassofonista ha accompagnato l'attore Pietro Bontempo nell'opera musicale "Costituzione e carcere" dello stesso Ciambriello e Mena Minafra.
Un'esperienza molto coinvolgente per il musicista napoletano, che ieri ha pubblicato sul suo profilo Facebook una fotografia in cui abbraccia un detenuto presente alla lezione. Un'immagine allegata a un post in cui polemizza con "certi" scrittori di film e fiction, ma anche con i cantanti rap: "A Poggioreale con questi miei amici sventurati, vittime di un sistema malato che tutti denigrano ma nessuno ha veramente interesse a fermarlo. Ormai l'hanno fatto diventare una moda, uno stile di vita. Film, fiction e, soprattutto, scrittori - scrive Zurzolo -. È facile fare l'opinionista stando a casa, senza problemi... E mi fermo qui altrimenti pó...".
Ogni riferimento a Saviano e alla sua opera non è per nulla casuale, considerato che il sassofonista ha già attaccato lo scrittore in altri post pubblicati sul social network di Zuckerberg. Ma in quest'occasione ne ha anche per i cantanti rap: "Rapper che dicono tutti la stessa cosa: cocaina, Rolex, Ferrari e femmine a zeffunn' (come se piovesse, ndr), altrimenti nun si nisciun' - prosegue il post.
E poi chiedono sempre scusa alla mamma per la vita che hanno scelto. Io ho l'impressione che molti di questi rapper non hanno proprio idea di che vuol dire finire a Poggioreale e la sera, quando tornano a casa, abbuscano dalla mamma. Forse perciò chiedono sempre scusa. Spero con tutto il mio cuore che continuano a giocare con le rime, magari scrivendo una canzone che parla di un fratello che ce l'ha fatta". E conclude: "L'abbraccio con questo ragazzo è una delle cose più belle che mi poteva capitare. Vas' riflessivi".
statoquotidiano.it, 7 maggio 2019
Ideato da Daniela D'Elia, con il patrocinio del Comune - Assessorato alla Cultura e con la collaborazione del Csv. "Le vie d'uscita: la poesia e l'arte". Questo il titolo del progetto che inizierà domani, 7 maggio, e vedrà il coinvolgimento dei detenuti della Casa Circondariale di Foggia. L'iniziativa progettuale è stata ideata dall'artista Daniela d'Elia, risoluta nel desiderio di portare "La Voce del mare" anche dietro le sbarre del penitenziario, con l'obiettivo di donare ai ristretti partecipanti la "libertà" che solo la poesia e l'arte riescono a dare.
"Per realizzare questo progetto - spiega Daniela d'Elia - mi sono affidata all'esperienza di Annalisa Graziano, giornalista e responsabile della promozione del volontariato penitenziario del Csv Foggia e alla sensibilità e disponibilità dell'Assessore alla Cultura del Comune di Foggia, Anna Paola Giuliani.
La prima mi ha indicato la strada per entrare in contatto con il mondo carcerario e mi ha fornito preziosi consigli; la seconda ha scelto di patrocinare, con convinzione, il progetto. Entrambe hanno condiviso e supportato con entusiasmo questa iniziativa che porta con sé tanto un'emozione fortissima quanto la profondità d'azione della poesia e dell'arte quali strumenti utili al servizio delle fasce più deboli e delle persone meno fortunate".
Ad affiancare Daniela d'Elia nella prima fase del progetto, dedicato alla potenza dei versi, si avvicenderanno i poeti protagonisti della prima edizione del Festival de "La voce del Mare".
"Alcuni - spiega l'ideatrice del progetto - giungono persino da lontano, commossi ed entusiasti di essere coinvolti in questa iniziativa, consapevoli che dietro questo dare si celi un grande dono, quello di un'esperienza forte che permetterà loro di conoscere vite e storie di una umanità sofferente, costretta in tempi e spazi differenti". Animeranno gli incontri nell'Istituto Penitenziario foggiano Salvatore Ritrovato da Urbino, Rossella Tempesta da Formia, Vincenzo Mastropirro da Ruvo di Puglia e poi Maria del Vecchio da Lucera, Raffaele Niro e Lucio Toma da San Severo e i foggiani Alfonso Graziano e Giuseppe Todisco.
I componimenti dei detenuti partecipanti saranno poi declamati durante la seconda edizione del Festival "La voce del mare", che si terrà a settembre prossimo. Il progetto dedicato all'arte prenderà, invece, il via in autunno e ad affiancare Daniela d'Elia sarà la creativa Luisa Sabba; a conclusione dell'iniziativa verrà allestita una Mostra al Palazzetto d'arte "Andrea Pazienza". "Ringrazio la Direzione, l'Area Trattamentale e la polizia penitenziaria per aver accolto la nostra proposta - conclude Daniela D'Elia - un'idea nata con l'obiettivo di regalare, attraverso i componimenti poetici, momenti di "evasione" e analisi introspettive che possano favorire nei detenuti una valutazione critica del vissuto e del proprio operato".
di Fabrizio Ferrante e Sarah Meraviglia
ntr24.tv, 7 maggio 2019
Giovedì scorso, 2 maggio, una delegazione dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo si è recata in visita presso il carcere di Benevento. L'iniziativa faceva parte di un ciclo di ingressi in carcere che ha incluso anche Bellizzi Irpino e Sant'Angelo dei Lombardi, mentre il prossimo 18 maggio sarà la volta di Ariano Irpino.
Il carcere di Benevento, diretto da Claudio Marcello, ospita al momento 402 detenuti (in circa 450 posti) di cui 5 semiliberi, 22 giovani adulti, 60 in attesa di primo giudizio, 40 in attesa di appello, 27 ricorrenti, 226 definitivi e 48 con una posizione giuridica mista, 85 donne e 37 con tossicodipendenze certificate (alcuni in terapia con il Sert). Il 65% dei detenuti si trova recluso a causa di reati collegati all'art.74 del testo unico in materia di stupefacenti.
Punto dolente è il rapporto dei ristretti con la magistratura di sorveglianza, non presente spesso in istituto e anzi a tal proposito i detenuti lamentano la totale assenza dei magistrati. A parziale scusante, va ricordato che la magistratura competente oltre ad occuparsi dei detenuti di Benevento ha in carico le carceri di Avellino, Lauro, Ariano Irpino e Sant'Angelo dei Lombardi, è evidente dunque che vi siano enormi difficoltà su questo fronte.
Gli educatori presenti in istituto sono sei, un buon numero se comparato alla media degli educatori presenti in altre strutture detentive ma di gran lunga non sufficiente. Il direttore Marcello, che ha iniziato la sua carriera nelle carceri italiane prima da educatore e poi da direttore, tiene in maniera particolare a queste figure, presenze assolutamente non marginali ma fondamentali in carcere. In molte strutture detentive l'educatore viene declassato (talvolta anche per volontà sua) a mero animatore, una persona che si fa carico del compito di intrattenere i detenuti.
Ma la normativa in realtà dice tutt'altro sul conto del mestiere-missione di costui: egli ha il compito di seguire il detenuto nel suo percorso rieducativo, osservando e certificando come il piano trattamentale offerto dall'istituto influisca sul soggetto. Il direttore Marcello sogna un carcere con almeno un educatore per reparto (se non due) in maniera tale da consentire un contatto più diretto tra detenuto ed educatore, circostanza che permetterebbe al primo di essere seguito da una figura professionale alla quale ha diritto e all'altro di svolgere in maniera piena la propria professione.
Per quanto riguarda la sanità, l'impressione è sempre la stessa rispetto a quanto emerso in altre visite, come nel carcere di Bellizzi Irpino ma anche altrove: infatti, a Benevento l'Asl sembra considerare la sanità penitenziaria come un compito ingrato e proprio per questo motivo, molto spesso i responsabili degli istituti si trovano a dover dare agli stessi medici indicazioni sul da farsi e sugli standard minimi che vanno rispettati (compito che attualmente non spetterebbe al direttore). In questa struttura, che presenta anche un'articolazione di salute mentale, gli specialisti ci sono e si fa in modo che questi effettuino visite frequenti, con cadenza almeno settimanale. Tuttavia ciò non sempre è possibile e talvolta si sono verificati periodi di forte carenza di specialisti.
Qualche mese fa, ad esempio, per quasi tre mesi è mancata in struttura la figura del ginecologo, situazione chiaramente inaccettabile in un istituto di pena che conta ben 85 signore. Lo psichiatra risulta presente in struttura tre volte la settimana, in ordine ai disturbi psichiatrici la responsabile dell'articolazione di salute mentale del carcere di Benevento ci racconta che il 70% dei disturbi presenti tra i detenuti sono qualificabili come "borderline", disturbi cioè non necessariamente psichiatrici ma comportamentali, spesso nati proprio dalla ristrettezza della vita carceraria.
In seguito alla chiusura degli Opg, molti detenuti con patologie psichiatriche borderline sono stati ritenuti idonei alla vita carceraria, il problema è proprio questo: il carcere è concepito come una discarica sociale. Infatti le Rems sono troppo poche e i detenuti che non riescono ad essere gestiti lì vengono rispediti in cella, contemporaneamente neanche le articolazioni di salute mentale sono sufficienti (sebbene qui in Campania ve ne sia una per provincia). Per risolvere questo problema e per tutelare la salute di questi detenuti ancora più vulnerabili, servirebbe l'implementazione di misure alternative al carcere, affermano all'unisono dottori e direttore.
Il carcere di Benevento risale agli anni 80 e, sul piano strutturale, è composto da: il reparto giudiziario che prevede quattro piani in cui figurano altrettante sezioni di detenuti in alta sicurezza, due sezioni di detenuti in media sicurezza (i cosiddetti comuni) l'articolazione psichiatrica e l'infermeria. In un'ala a parte sono presenti invece il reparto femminile, quello dei sex offender e quello dei detenuti semiliberi lavoranti ex art 21.
La struttura prevede il regime delle celle aperte per più di otto ore al giorno durante le quali i detenuti hanno la possibilità di spostarsi da una cella all'altra e di recarsi presso la sala di socialità del proprio reparto (una sorta di saletta giochi, con tavoli da ping pong, tavolo e sedie in plastica, in cui i detenuti possono chiacchierare e intrattenersi). L'istituto presenta inoltre sei stanze adibite a palestra, pur se con pochi macchinari a disposizione dei detenuti.
L'offerta del carcere di Benevento sul piano culturale e formativo spazia su più campi: i detenuti hanno infatti la possibilità di frequentare l'istituto alberghiero, percorso scolastico particolarmente utile (soprattutto al Sud) ai fini della ricerca di un impiego una volta ottenuta la libertà. Questo percorso scolastico impegna al momento 100 detenuti. Vi sono poi corsi di alfabetizzazione per italiani e stranieri e corsi di teatro. Per le detenute è previsto un corso di scuola superiore indirizzo arte e moda. La struttura offre inoltre ai detenuti un singolare corso di copisteria musicale che prevede la trascrizione al computer di spartiti musicali, quest'attività occupa al momento sei detenuti e prevede un corso di formazione della durata di due anni con successivo impiego entro le mura carcerarie.
È stato poi attivato un corso di pasticceria, anch'esso finalizzato ad un futuro inserimento lavorativo. Partiranno a breve alcuni corsi di formazione regionale riguardanti l'edilizia e la professione di estetista. Gli altri detenuti si accontentano di lavorare, con turni di sei mesi ciascuno, alle dipendenze della struttura stessa nei ruoli di spazzino, cuoco o addetto alle pulizie. Secondo il direttore - che ha avuto modo di intrattenersi con la delegazione radicale durante la visita - quello di Benevento è un carcere "aperto" verso l'esterno che interagisce piuttosto bene con la società civile e con le istituzioni.
Alla delegazione radicale sono dunque apparse evidenti anche a Benevento le medesime criticità rilevate nel carcere di Bellizzi Irpino (sempre nella giornata di giovedì 2 maggio) e in altre strutture: ovvero, oltre a un rapporto difficile con la magistratura e l'ufficio di sorveglianza, un'offerta formativa e di inserimento occupazionale non ancora in linea con le aspettative dei detenuti, senza dimenticare l'annosa e irrisolta questione della sanità penitenziaria, ben lontana da standard accettabili.
Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2019
Reato - Cause di giustificazione - Legittima difesa - Difesa non proporzionata all'offesa - Esclusione dell'esimente. Non può applicarsi l'esimente della legittima difesa nel caso in cui il soggetto aggredito abbia reagito non a scopo di difesa della propria persona ma con evidente proposito di vendetta nei confronti del soggetto agente, configurandosi una difesa non proporzionata all'offesa. Nel caso in esame l'aggressore era stato condannato dai giudici di merito per il reato di percosse mentre la parte aggredita, con una reazione particolarmente violenta, colpendo più volte, aveva provocato gravi lesioni personali ed era stato dunque condannato per il reato di cui all'art. 582 c.p.
• Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 29 aprile 2019 n. 17787.
Reato - Cause di giustificazione - Difesa legittima - In genere - Volontaria determinazione dello stato di pericolo - Compatibilità con la legittima difesa reale o putativa - Esclusione - Fattispecie. Non è invocabile la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, da parte di colui che abbia innescato o accettato un duello o una sfida, ovvero abbia attuato una spedizione punitiva nei confronti dei propri avversari, mancando, in tal caso, il requisito della convinzione - sia pure erronea - di dover agire per scopo difensivo. (Fattispecie in cui l'imputato, avvertito che fuori dal locale pubblico in cui si trovava lo attendeva un gruppo avversario, pur potendo fare ricorso alle forze dell'ordine per sventare il pericolo di un'aggressione, usciva all'esterno armato di un coltello a serramanico, colpendo all'addome uno dei rivali).
• Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 1° agosto 2018 n. 37289.
Reato - Cause di giustificazione - Legittima difesa - Invocabilità da parte di chi accetti una sfida - Esclusione - Eccesso colposo - Esclusione. Non è invocabile la legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida oppure reagisca a una situazione di pericolo volontariamente determinata o alla cui determinazione egli stesso abbia concorso e nonostante disponga della possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza disonore. Né, in ogni caso, può essere configurato l'eccesso colposo previsto dall'articolo 55 del codice penale, in mancanza di una situazione di effettiva sussistenza della singola scriminante, di cui si eccedono colposamente i limiti.
• Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 19 luglio 2018 n. 33707.
Reato - Cause di giustificazione - Difesa legittima - Necessità di difesa. La configurabilità dell'esimente della legittima difesa deve escludersi nell'ipotesi in cui lo scontro tra due soggetti possa essere inserito in un quadro complessivo di sfida giacché, in tal caso, ciascuno dei partecipanti risulta animato da volontà aggressiva nei confronti dell'altro e quindi, indipendentemente dal fatto che le intenzioni siano dichiarate o siano implicite al comportamento tenuto dai contendenti, nessuno di loro può invocare la necessità di difesa in una situazione di pericolo che ha contribuito a determinare e che non può avere il carattere della inevitabilità.
• Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 14 gennaio 2000 n. 365.
napolivillage.com, 7 maggio 2019
Dopo la positiva esperienza dei precedenti anni, si ripete la sfilata di moda nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, con le detenute che indosseranno in passerella gli abiti di stilisti d'eccezione.
L'evento, organizzato dalla P&P Academy, si terrà nella struttura carceraria di via Pergolesi giovedì 16 maggio 2019 alle ore 15. Le detenute sfileranno con gli abiti degli stilisti Luciano Fiore Couture, Anna Ferrillo, Istituto Superiore Marconi, IIS Don Geremia Piscopo, dopo aver seguito un corso di portamento e di "bon ton" all'interno dello stesso carcere. Saranno truccate dai professionisti del make-up Nicola Acella e Antonio Riccardo e pettinate da Ciro Paciolla.
Alla serata, che sarà presentata da Anna Paparone e Gaetano Gaudiero, parteciperanno come ospiti Mr.Hyde - Ludo Brusco e Rudy Brass -, Ivan Granatino e lo Chef Stellato Pasquale Palamaro. Saranno presenti, tra gli altri, la direttrice della casa circondariale Carlotta Giaquinto, l'assessore alle Pari Opportunità della Regione Campania Chiara Marciani e i sindaci dei comuni flegrei. "È Moda... per il sociale" è stato promosso dalla Fitel Campania e dall'associazione Nirvana con il patrocinio della Regione Campania e del Comune di Pozzuoli. La sfilata, che ha esclusivamente finalità sociali, si propone da un lato di offrire alle detenute un momento di svago e di aggregazione, e dall'altro di avvicinarle al mondo della moda. Ingresso solo su invito.
Il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2019
La Corte li ha ritenuti responsabili dell'omicidio di Marco Erittu, il detenuto trovato senza vita nel 2008 in una cella del carcere di San Sebastiano a Sassari, morte archiviata inizialmente come suicidio. Tutti gli imputati erano stati assolti in primo grado. Altri due agenti della Penitenziaria prescritti per favoreggiamento.
Fine pena mai. La Corte d'appello di Sassari ha ribaltato la sentenza di primo grado condannando all'ergastolo Pino Vandi, Nicolino Pinna e l'agente penitenziario Mario Sanna, ritenendoli responsabili dell'omicidio di Marco Erittu, il detenuto trovato senza vita nel 2008 in una cella del carcere di San Sebastiano a Sassari, morte archiviata inizialmente come suicidio. Tutti gli imputati erano stati assolti in primo grado nel giugno 2014, ma il pg Gian Carlo Moi aveva chiesto il massimo della pena alla giuria popolare presieduta dalla giudice Plinia Azzena.
Il dibattimento si è aperto dopo le rivelazioni di un altro detenuto, il pentito Giuseppe Bigella, che nel 2011 confessò di aver ucciso Erittu, con l'aiuto di Pinna e su commissione di Pino Vandi, anche loro rinchiusi a San Sebastiano, e con la collaborazione dell'agente Sanna. A giudizio c'erano anche altri due agenti penitenziari, Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda, accusati di favoreggiamento ma per entrambi il pg aveva chiesto il proscioglimento per prescrizione del reato. Faedda è stato però condannato a 3 anni e 4 mesi per le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti nel settembre 2011 quando fu riaperta l'inchiesta.
Prima della camera di consiglio l'imputato Pinna aveva rilasciato una dichiarazione spontanea. "Volevo sottolineare che conoscevo bene Erittu, siamo cresciuti assieme, era un mio amico, ed ero amico di tutta la sua famiglia - ha detto rivolgendosi alla Corte - Io non sono un violento, non sono mai stato condannato per atti di violenza. Dopo il carcere mi stavo rifacendo una vita, e adesso ho perso tutto. Avevo aperto un bar, e ho dovuto svenderlo, ho perso la mia famiglia. Ho perso tutto".
Erittu era rinchiuso in una cella liscia, perché in qualche occasione aveva manifestato la volontà di uccidersi. Per questo motivo, spiega la Nuova Sardegna, la sua morte avvenuta per strangolamento con una coperta fu da subito archiviata come suicidio. Dopo tre anni però Bigella, portotorrese detenuto per l'omicidio a coltellate di una gioielliera durante una rapina nel 2005, aveva deciso di collaborare con gli inquirenti confessando di aver partecipato al delitto per metterlo a tacere, poiché a conoscenza di informazioni importanti riguardo alla mala sassarese e barbaricina. Il reo confesso è stato condannato con rito abbreviato dal Gup di Cagliari a 14 anni di carcere.
di Sergio Valzania
Il Dubbio, 7 maggio 2019
Il rifiuto di scorgere la complessità del mondo impedisce di riconoscere le ragioni per le quali l'emittente è un pezzo significativo del nostro sistema di libertà.
La questione di Radio Radicale non è epifenomeno, bega di condominio, ripicca di un gerarca minore - come lo ha fotografato Massimo Bordin - divenuto sottosegretario all'Editoria che vuole dimostrare il potere proprio e del proprio partito sbarazzandosi di qualcuno che gli è antipatico da sempre. Il guaio sta nel fatto che si tratta davvero di un confronto culturale, della contrapposizione di due modelli di pensiero, all'interno di uno dei quali per Radio Radicale non c'è più posto e le cui ragioni vengono ripetute un giorno sì e uno no dal direttore dell'autorevole organo ufficiale del Movimento Cinque Stelle.
Il rifiuto di finanziare Radio Radicale si incastona alla perfezione in una concezione semplificata della realtà, per la quale i problemi sono tutti di agevole soluzione. Per la Tav basta fare una valutazione costi- benefici e sappiamo se è opportuno o meno partecipare a un progetto europeo in corso da decenni; per l'immigrazione è sufficiente chiudere i porti e lo squilibrio demografico tra Africa ed Europa scompare di colpo; per abolire la povertà, questione radicata nella storia dell'umanità, non serve altro che un piccolo provvedimento legislativo, qualche domanda presso l'apposito sportello e non ci si pensa più. Anche per il ponte di Genova si fa il possibile e per il resto la vita va avanti da sola, qualche disagio va messo nel conto. Quindi se esistono canali televisivi dedicati dei due rami del Parlamento si può fare a meno del servizio svolto fino a oggi egregiamente da Radio Radicale. La logica è la stessa. Piccole soluzioni per piccoli problemi.
Dietro a queste scelte sta una cultura che esprime un programma antipolitico centrato sull'"uno vale uno" e sulla convinzione che l'onestà non sia una componente prepolitica, necessaria a ogni onesto lavoratore di qualunque settore bensì il solo requisito da richiedersi a chi si occupa degli interessi pubblici. Che non hanno bisogno di alcuna competenza per essere gestiti nel modo migliore: è sufficiente la comune dedizione di una persona qualunque. Non a caso questo modo di affrontare i problemi di definisce tecnicamente come qualunquismo.
Il rifiuto di scorgere la complessità del mondo, e anche la sua ricchezza, impedisce di riconoscere le ragioni per le quali Radio Radicale è un pezzo significativo del nostro sistema di libertà. Non è solo Dio a nascondersi nei dettagli e a lottare lì con il demonio. Anche la libertà e la democrazia vivono in spazi particolari inseriti in complessità integrate. Il motore funziona perché c'è il lubrificante.
Si votava tanto nell'Italia Fascista quanto nella Romania di Cerausescu, anche lì c'erano i sindacati e si stampavano giornali, a Roma c'era la radio e a Bucarest hanno fatto in tempo a vedere anche la televisione di regime. A questo si aggiungeva il famoso cartello presente nei locali pubblici "Qui non si parla di politica", intendendo per politica una sorta di male sociale, più grave del tifo calcistico, per il quale si pretende di occuparsi delle vicende della collettività immaginando che per esse si debba decidere tra modalità di gestione diverse, che il faticoso accompagnare la lenta soluzione di problemi che vengono da lontano non sia competenza di una ristretta élite ma possa essere esperienza sociale, condivisa. Perché le risposte non sono date, vanno costruite. Non basta creare una commissione di studio composta da tecnici per ottenere la risposta certa a ogni quesito.
Il senso di una politica democratica consiste nelle convinzione che le decisioni sul futuro comune, si tratti di gallerie o di immigrati, di assistenza sociale o di politica del lavoro, debbano emergere da una laboriosa esperienza collettiva nella quale i politici hanno la responsabilità della mediazione. Radio Radicale è una componente, magari non perfetta ma certo funzionale, di quell'apparato che Winston Churchill definiva un pessimo sistema di governo, ma comunque il migliore che siamo stati capaci di creare.
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