anconanews.it, 8 maggio 2019
Ha incassato 15 voti favorevoli e un consenso trasversale da parte delle forze politiche presenti in Aula (7 maggio), la mozione a firma dei consiglieri Mastrovincenzo, Urbinati, Leonardi, Busilacchi, Marconi, Carloni, Maggi e Rapa che impegna il presidente della Giunta a sollecitare il Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria (Prap) Emilia Romagna - Marche a prendere provvedimenti sulla situazione in cui versano le carceri marchigiane. Sovraffollamento, carenza di agenti di Polizia penitenziaria ed educatori, necessità di una dirigenza esclusiva per le Marche e non condivisa con altre regioni. Sono stati questi i temi al centro del dibattito.
Una mozione, firmata da tutti i capigruppo, necessaria in seguito alla presentazione, nel gennaio scorso, del "Report 2018. Istituti penitenziari e REMS Regione Marche" stilato dal garante regionale Andrea Nobili, dove erano emerse una serie di criticità presenti negli istituti penitenziari. Il garante aveva chiesto il ripristino di "un'adeguata presenza del Prap, con uffici in loco ed un dirigente che pensi esclusivamente alle esigenze del territorio regionale".
Anche i sindacati di Polizia penitenziaria (Fp - Cgil, Fns - Cisl, Sappe, Ugl) avevano messo in luce una serie di criticità, tra le quali il ritardo nella realizzazione dei lavori di ristrutturazione della Casa di Reclusione di Fossombrone (Pesaro e Urbino), il sovraffollamento a Montacuto con 307 detenuti a fronte dei 256 previsti, la carenza negli organici di Polizia penitenziaria e la necessità di procedere all'aggiornamento della pianta organica. Un quadro nel quale si è inserita anche la chiusura del carcere di Camerino in seguito ai danni inferti dal sisma del 2016.
Il capogruppo del Movimento 5Stelle, Gianni Maggi, ha posto l'accento sulla necessità di rieducare i detenuti, un aspetto molto importante anche per il contenimento dei costi sostenuti dallo Stato per il mantenimento dei carcerati. Ha poi ringraziato le guardie carcerarie che "svolgono lavoro delicato e le associazioni di volontariato che impiegano tempo e denaro per assistere i detenuti". "Un problema di grande civiltà", ha evidenziato.
Durante il suo intervento in Aula, Maggi ha posto anche una riflessione sulle droghe leggere spiegando che con la loro liberalizzazione "ci sarà meno affollamento". Un inciso che ha suscitato le ire della consigliera regionale di Fratelli d'Italia Elena Leonardi che si è espressa in forte disaccordo con il capogruppo dei pentastellati. "Un messaggio fortemente diseducativo verso i giovani" ha detto la consigliera che ha invocato piuttosto un inasprimento di pena per chi spaccia. "Le modiche quantità stanno portando solo a morte" ha sottolineato la Leonardi -. Porterò avanti una battaglia aspra contro le droghe. Basta a chi vende morte e poi viene rimesso in libertà. Lo spaccio è intollerabile".
Rientrando nel merito della mozione la consigliera ha ripercorso le tappe salienti che hanno portato alla nascita della mozione, con i sindacati di Polizia penitenziaria che avevano esposto la loro preoccupazione riguardo alle problematiche presenti nella carceri marchigiane. La Leonardi ha posto l'accento sul fatto che le più alte percentuali di suicidio tra le forze dell'ordine si registrano proprio tra gli agenti di Polizia penitenziaria.
Il presidente del consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo ha sottolineato la trasversalità di consensi incassati dalla mozione, mentre il capogruppo del Pd Fabio Urbinati ha posto l'accento sull'urgenza della questione e sull'importanza della riabilitazione. Per la Lega è intervenuta la consigliera Marzia Malaigia che ha ricordato come spesso il detenuto è anche l'agente di Polizia penitenziaria e chi lavora negli uffici amministrativi, evidenziando la necessità di rivedere la situazione delle carceri. Il consigliere dei Popolari Marche - Unione di Centro, Luca Marconi ha posto l'accento sull'importanza del perdono e della misericordia da parte della società.
di Giulia Maestrini
Corriere Fiorentino, 8 maggio 2019
Presentato il volume di scrittura collettiva nato nel carcere. Sette uomini, tutti diversi; italiani e stranieri, il più giovane ha 26 anni e il più anziano 64, alle spalle hanno storie complesse e dolorose, vengono da luoghi diversi e attraverso diverse strade sono arrivati tutti qui, nella Casa circondariale di Santo Spirito, il carcere di Siena.
E da qui adesso "escono" grazie alle loro parole divenute un libro: si intitola Fuori dal buio (ed. Futura, 2019, 111 pagine, 12 euro) ed è il frutto di un progetto di scrittura collettiva durato 11 mesi e guidato dalla giornalista senese Cecilia Marzotti. È stata lei a tirare i fili di questa trama; intrecciare pensieri sparsi, appunti e perfino disegni da cui tutto è partito.
Dal bisogno di mettere nero su bianco sensazioni ed esperienze, raccogliere spaccati di vita vera (la loro, ma anche degli altri detenuti che hanno scelto di raccontarsi) e, da quelli, iniziare a definire i personaggi, i luoghi, la storia, i sogni e gli errori. Perché sogni ed errori sono l'architrave di questo libro: un giallo che è di finzione, ma verosimile e, anzi, ha i piedi ben saldi dentro la vita vera.
"La trama del racconto è dettata dal caso - spiega il direttore della Casa Circondariale, Sergio La Montagna nell'incontro alla biblioteca degli Intronati - la storia dei protagonisti che si ritrovano in carcere per un beffardo scherzo del destino, un incontro sfortunato con chi li ha convinti a delinquere. Proprio come spesso accade nella realtà". C'è una finalità "catartica" allora in questa scrittura che "è un modo di restare vivi".
La forma è diretta, lineare, scarna, va dritta al punto senza eleganza posticcia. Il ruolo della coordinatrice è stato quello di mettere insieme i pezzi senza edulcorare, cucire e guidare ma senza stravolgere una scrittura autentica. "Troverete una punteggiatura a tratti fanciullesca - spiega Marzotti - e forse qualche errore: d'altronde li hanno commessi nella loro vita, ben vengano anche nel loro libro". Non c'è solo questo, però: c'è piuttosto un grande desiderio di riscatto in questo lavoro che per mesi ha coinvolto l'intera comunità del carcere, ospiti, agenti, educatrici e soprattutto loro, i detenuti-scrittori.
"Hanno lavorato a testa bassa e avuto la forza di raccontarsi pur sapendo di aver sbagliato", fino a uscire appunto "fuori dal buio", abbattendo idealmente quelle sbarre. Perché è per questo che è nato il libro, "per farci liberare": lo spiega Roberto, uno dei detenuti-scrittori che parla a nome di tutti. "Era importante dire che dentro il carcere esiste un'umanità e che nessuno ci sarebbe entrato se avesse trovato un perché là fuori.
Il buio è il nostro, ma è anche quello che sta fuori e ci circonda: se tutti uscissimo dal buio, le carceri sarebbero meno affollate" Locali che quotidianamente assistono ad altre e diverse declamazioni, più inclini a suffragare l'idea iniziale di abbandonare ogni speranza, entrando. E invece, come ha giustamente sottolineato la Direttrice del reclusorio scaligero, la originalità della proposta sta proprio nella sua ideazione, capace di tradurre l'offerta trattamentale in un percorso disponibile, trasformando un caposaldo della nostra cultura in un concreto ed efficace strumento di crescita della persona, nella sua dimensione emotiva e relazionale, e tenendo cioè in vita quella speranza che, per chi entra nella città dolente, si temeva abbandonata.
Le stelle che infine, tutti insieme, (ri)uscimmo a riveder, in un gradevolmente complice tramonto di fine aprile, splendono di una luce particolare per chi, con i detenuti e i ragazzi coinvolti, compia il percorso allestito: è la luce di un futuro in cui la promiscuità di una sera, fra buoni e cattivi, ammesso di saperli sempre riconoscere, non sarà più un episodio ma la chiave di lettura di una ricostruita esistenza.
E Brescia, in tutto questo, cosa centra? Non poco se pensiamo che l'illuminata visione che ha reso disponibile la struttura penitenziaria veronese e quindi consentito la realizzazione di un - senza dubbio - complesso quanto apprezzabile progetto, è quella della dottoressa Maria Grazia Bregoli, Valtrumplina doc, già direttrice di Canton Mombello. A Lei un plauso convinto.
di Susanna Marietti
ilfattoquotidiano.it, 8 maggio 2019
Il carcere entra con delicatezza, originalità e determinazione nel Salone Internazionale del Libro di Torino. Il prossimo giovedì 9 maggio alle ore 15.30 presso la Sala Rossa del Salone si terrà l'evento finale del premio intitolato alla scrittrice Goliarda Sapienza - ideato e promosso da InVerso Onlus, nella persona della giornalista Antonella Bolelli Ferrara, con il sostegno di Siae - che il carcere lo aveva conosciuto e raccontato nei suoi aspetti più assurdi, comuni a epoche e luoghi, quelli che ci lasciano ancora increduli nel vedere quali persone la nostra società decide di destinare alla galera.
Si tratta quanto meno di un triplo evento, quello del Salone di Torino (che ospita il Premio Goliarda Sapienza per la seconda volta e quest'anno in un'edizione speciale). In primo luogo, la presentazione del libro Malafollia - Racconti dal carcere (Giulio Perrone Editore). Il volume contiene i racconti selezionati e scritti da detenuti, storie che provengono dal profondo delle prigioni d'Italia. Sono belli, i racconti raccolti, scritti con personalità e capaci di testimoniare una follia a volte dirompente e a volte sottile, che il contesto carcerario non sottrae a una dimensione emotiva comune a ciascuno di noi.
In sequenza si possono leggere gli scritti di Michele Maggio, Patrizia Durantini, Stefano Lemma, Salvatore Torre, Sebastiano Prino ed 'Edmond'. L'attore Luigi Lo Cascio, insieme ad alcuni degli autori, leggerà brani del libro. A parlarne ci saranno gli scrittori Edoardo Albinati ed Erri De Luca, da sempre vicini ai temi del carcere, e il presidente dell'associazione Antigone, Patrizio Gonnella.
Un altro evento sarà quello dell'annuncio del vincitore dell'VIII edizione del Premio Goliarda Sapienza. Spetterà a una giuria presieduta da Elio Pecora e composta tra gli altri da circa 250 studenti liceali designare il vincitore del premio letterario, che ha una storia bella e oramai quasi decennale.
Ma c'è un terzo, fondamentale evento. Ed è il carcere in sé. La sua rappresentazione all'esterno, il suo essere contenitore rimosso di corpi, cervelli e anime. In tempi bui dalle tentazioni illiberali quali quelli che stiamo vivendo, bisogna accendere i riflettori intorno a tutte le umanità che ci circondano, comprese quelle che qualcuno vorrebbe confinare per sempre nel dolore, nella pena, nel silenzio. Un evento come quello torinese ha lo scopo maestro di togliere il carcere e i detenuti dal cono d'ombra dove si vorrebbe ricacciarli e dare loro dignità. Quella dignità che è propria di ogni essere umano e che qui acquista la forza della letteratura, della capacità di usare la parola per colpire le intelligenze e i cuori di chi legge e ascolta.
C'è bisogno di empatia per cambiare l'approccio dell'opinione pubblica al carcere, per ridimensionarne la funzione meramente afflittiva, per ridurne il peso sociale. Ognuno di coloro che leggerà Malafollia dovrà immaginare che lo scrittore del singolo racconto viveva probabilmente in una cella sovraffollata, doveva negoziare piccoli, piccolissimi spazi e tempi per non essere disturbato, doveva elemosinare carta, penna e scrivania. In carcere è raro che sia consentito usare i computer. I detenuti sono gli ultimi cittadini che inviano lettere scritte a mano e che appongono francobolli.
Pochi giorni dopo l'incontro di Torino, il successivo 16 maggio, Antigone presenterà il suo Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione. Lo scopo è ancora quello di rompere i pregiudizi, di superare gli stereotipi, di informare correttamente, di ridurre le distanze. La riduzione delle distanze tra il senso comune punitivo e il valore costituzionale delle pene è il grande risultato cui hanno lavorato i curatori del Premio Goliarda Sapienza. Di questo siamo loro grati.
sicilianetwork.info, 8 maggio 2019
Un'indagine che va oltre il reato, quella realizzata dalla nostra giornalista siciliana Katya Maugeri in "Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento", con la prefazione di Claudio Fava e la postfazione del giornalista de "La Repubblica", Salvo Palazzolo, edito dalla Villaggio Maori Edizioni. Un viaggio inchiesta nelle carceri, arricchito dal progetto fotografico di Alessandro Gruttadauria. Sette detenuti raccontano le loro storie, i loro errori, le loro debolezze, i rimpianti e la speranza di costruire un nuovo progetto di vita.
L'autrice indaga le vite dietro le sbarre di chi, oltre agli errori commessi e l'etichetta di "carcerato", rimane un essere umano. Non c'è assoluzione nelle sue riflessioni: nelle sue "ore d'aria" annota le sue emozioni di intervistatrice e riesce a raccontare le difficili condizioni psichiche di chi ha commesso un reato, e di chi, fuori da una cella, ha lasciato rimpianti e sogni. Il libro sarà presentato a Catania venerdì 17 maggio alle 18.30 nella sala E7 Assostampa al Centro fieristico Le Ciminiere.
A dialogare con l'autrice Daniele Lo Porto (segretario provinciale Assostampa) e Santino Mirabella (giudice e scrittore). Modererà l'incontro il giornalista Alessandro Sofia. Tra le tematiche affrontate, la tossicodipendenza, con il contributo del Centro di solidarietà Il Delfino di Cosenza, la criminalità organizzata, la giustizia riparativa, la triste realtà dei suicidi in carcere, con la testimonianza di Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia e le riflessioni di Mario Conte, consigliere Conte d'Appello di Palermo. "Liberaci dai nostri mali" non è solo un'inchiesta: è il racconto di una realtà di cui bisognerebbe avere coscienza, superando sbarre, muri e pregiudizi.
Il Gazzettino, 8 maggio 2019
Il Festival Biblico entra anche alla casa di reclusione Due Palazzi. Lunedì alle 13.30 i detenuti salgono sul palco per lo spettacolo Babele: another brick in the wall. "La Torre di Babele ha detto Ciro, giovane detenuto del laboratorio teatrale - che ci arrocca in posizione difensiva verso l'altro e l'ignoto, è dentro ognuno di noi". La piccola comunità teatrale del Due Palazzi è composta di persone differenti per età, provenienza geografica e sociale.
Il tema polis è stato accolto partendo dalla narrazione biblica di Babele e cogliendone l'aspetto vitale. L'evento nasce all'interno del progetto Teatrocarcere Due Palazzi attivo dal 2005 con la direzione artistica di Maria Cinzia Zanellato e dal 2015 in collaborazione con Adele Trocino. Progetto che si articola in attività di laboratori di formazione pedagogica artistica e realizzazione di appuntamenti culturali. La finalità è favorire la relazione e il percorso di dialogo e inclusione tra carcere e città.
di Carlo Alberto Romano
Corriere di Brescia, 8 maggio 2019
Il sistema scolastico italiano, seppur con tempi e modalità differenti, ha sempre offerto a ogni studente la possibilità di appropriarsi, magari anche solo superficialmente, dell'immensa opera dantesca. E credo che a molti fra questi ex studenti, entrando in alcuni dei nostri istituti penali, il ricordo dell'accesso alla città dolente, abbia frequentemente evocato l'idea di lasciare ogni speranza. Quale sorpresa, quindi, se al di là del cancello del carcere di Verona, alcune sere fa, a chi succeda di oltrepassarlo, capiti di incontrare Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti, il Conte Ugolino o altre delle immortali figure create dal Poeta nel suo capolavoro.
Eppure, questo è proprio ciò che avviene a chi, come chi scrive, ha avuto il piacere di presenziare, presso la casa circondariale veronese, alla proposta performativa realizzata dal Teatro del Montorio, che unisce l'impegno di 15 attori detenuti e 8 studenti delle scuole veronesi, con il patrocinio dell'Ufficio scolastico di Verona e il sostegno di Fondazione San Zeno.
Una esperienza straordinaria, alla quale la collocazione carceraria non sottrae alcuna solennità e che, semmai, proprio nelle diverse inflessioni degli attori che hanno dato vita ai versetti di Dante, acquisisce un valore aggiunto, di universale afflato. Ottima la regia di Alessandro Anderloni, che ha scelto di violare la tradizionale staticità del palcoscenico (e vieppiù del carcere) con una rappresentazione itinerante nei corridoi, nelle aule e nei cortili della struttura penitenziaria.
di Vincenzo R. Spagnolo
Avvenire, 8 maggio 2019
Nel rugby, chi gioca all'ala ha un ruolo cruciale. Dev'essere agile, veloce e abile nell'afferrare al volo la palla ovale e insieme l'occasione giusta, che può portare la squadra a segnare una meta. Mirko, la sua occasione l'ha artigliata con forza, insieme alla palla. E ora corre veloce, sulla fascia sinistra, con la maglia numero 11 dei Bisonti.
I suoi scarpini graffiano il terreno del campo in pozzolana, sollevando nuvolette di una polvere fina, che si attacca alla maglia e alle gambe madide di sudore. Ma Mirko non ci bada neppure e, sbuffando come un treno, punta verso lalinea di meta. I compagni gli corrono a fianco e lo incitano, mentre cerca di scansare un avversario. Le mura e le recinzioni perimetrali del penitenziario romano di Rebibbia circondano il campetto polveroso del "G9", ma lui non le vede, guarda oltre.
È mercoledì, il giorno del permesso accordatogli per allenarsi: dopo il training mattutino in carcere, dalle sette alle undici di sera potrà uscire per la sessione serale sui campi di Tor Bella Monaca, insieme al resto della squadra. Mirko lo fa già da tre settimane, da quando la società dei Bisonti Rugby (nata a Frosinone neI2011) ha ricevuto l'autorizzazione dal direttore del carcere. Un effetto positivo, uno dei tanti, del progetto federale "Rugby oltre le sbarre", creato con l'obiettivo di contribuire, attraverso l'applicazione concreta dei valori educativi di questo sport, "alla risocializzazione del detenuto".
Mirko è dentro da undici anni e dovrà scontarne altri due. Il primo allenamento fuori, rigorosamente dalle 19 alle 23, l'ha sostenuto il 17 aprile. È la sua "finestra di libertà" settimanale. E non è un privilegio, se l'è guadagnata con un comportamento corretto che qui dentro chiamano "buona condotta".
Così, con un "adattamento" dell'articolo 21 dell'Ordinamento penitenziario (che consente il lavoro esterno dei detenuti) la direzione della casa circondariale gli ha concesso di allenarsi fuori, sotto la responsabilità dei Bisonti Rugby.
"L'autorizzazione per Mirko è il raggiungimento di uno dei nostri obiettivi - considera Germana De Angelis, presidente dei Bisonti -. Il rugby può essere uno strumento per la ricostruzione di un percorso di vita". Parliamo di esistenze da rifondare su basi solide, dopo che bufere personali e gesti criminali le hanno devastate. "Non siamo noi a scegliere le persone, ci arrivano a seguito di una valutazione dell'amministrazione penitenziaria. A noi interessa solo che abbiano voglia di giocare e di entrare con noi nello spirito del rugby".
Grazie a un protocollo siglato nel 2018 fra Federazione italiana rugby e Dipartimento amministrazione penitenziaria, il gioco della palla ovale viene praticato in 18 istituti di pena. E ci sono due squadre di detenuti (La Drola di Torino e Giallo Dozza di Bologna) che partecipano al Campionato italiano di serie C, disputando tutte le gare sui campi dentro le carceri.
"Il rugby è uno sport straordinario, capace di appianare ogni differenza sociale" e di far percepire a chi lo pratica il senso di rispetto per le regole, per i compagni e per gli avversari, ragiona il presidente della Fir Alfredo Gavazzi. L'obiettivo, aggiunge Germana, è quello di camminare accanto ai detenuti "e possibilmente di continuare a farlo fuori dalle mura.
Non entriamo mai nel merito dei reati commessi perché non siamo lì per giudicare. Qualcuno lo ha già fatto e loro stanno scontando la loro pena". È un "tendere una mano, in questo caso attraverso il rugby, a chi ha la voglia di andare avanti".
Mirko quella voglia ce l'ha. E la storia passata di errori e reati se l'è lasciata alle spalle. Ai suoi compagni di gioco, comunque, il passato non interessa: "Non chiedo mai a chi incontro per quale tipo di reato sia dentro, il solo fatto di conoscerci attraverso un pallone ovale e su un campetto vuol dire che un cammino è stato già fatto - dice ancora Germana - Così sta accadendo con Mirko e speriamo che accada con altri, per cui abbiamo fatto la stessa richiesta".
Poi la presidentessa sorride, mentre osserva il numero 11 che s'invola sulla fascia. Ancora una volta, caparbio, Mirko punta alla meta. Nell'incavo del braccio, tiene stretta una palla che presto non sarà più prigioniera.
di Benedetto Vecchi
Il Manifesto, 8 maggio 2019
"Umanità in rivolta", edito da Feltrinelli è il resoconto della sua esperienza. Sabato una doppia presentazione: insieme a Mimmo Lucano e Nadia Terranova, e poi a Michela Murgia. Una giornata passata con la schiena piegata sui campi in attesa della paga, di fame, giornaliera. E quando arriva il momento, il padroncino che promette: "lavori bene, ti prendo con me per sempre. Domani ci vediamo alla stessa ora di questa mattina". La prospettiva è un salario, di merda, ma certo, evitando così l'umiliazione di essere scelto, come fosse una bestia, nello svincolo di una squallida via pugliese.
Il giorno dopo, il protagonista di questa storia di ordinaria ingiustizia si presenta in forte anticipo, ma il padroncino non si fa vedere né allora né in seguito. È questo il primo rapporto con un mercato del lavoro con caratteristiche schiavistiche di Aboubakar Soumahoro, sindacalista Usb, originario della Costa d'Avorio, divenuto uno dei volti noti di un sindacalismo radicale perché legato a concretissime aspirazioni di "umanità e giustizia sociale".
Aboubakar ha ora messo in parole scritte molte delle cose sostenute con pazienza e documentazione nelle interviste rilasciate o quando ha preso la parola in trasmissioni in prima serata ("Propaganda Live", ma non solo). Il libro, pubblicato da Feltrinelli con il titolo Umanità in rivolta (pp. 125, euro 13), alterna ricordi personali a riflessioni su una filiera produttiva - l'agro alimentare - che produce un fiume di profitti sulla pelle di migranti e non solo pagati poche decine di euro a giorno.
L'autore lo scrive senza girarci intorno: lo sfruttamento è la caratteristica dominante nelle campagne italiane. E se è ormai drammaticamente noto che la maggioranza dei salariati sono migranti, Aboubakar Saumahoro ricorda anche la donna "italianissima" morta di fatica nelle campagne pugliesi, punta anche lei di un iceberg che pochi vogliono vedere.
Lo sfruttamento è dunque indifferente al colore della pelle, nonostante non possa essere taciuto il fatto che la maggioranza degli omicidi da lavoro nell'agricoltura coinvolga uomini e donne migranti morti in incidenti stradali o negli incendi che scoppiano nei piccoli, tanti lager dove sono segregati tanto i "regolari" che gli "irregolari".
Le parti più analitiche del libro sono quelle sullo sfruttamento nella filiera dell'agro-alimentare e quella sulla razzializzazione del mercato del lavoro. La prima è una filiera globale tanto nella produzione che nella distribuzione e vendita. I profitti - miliardi e miliardi di euro - sono garantiti di salari da fame nella produzione e nella logistica (i facchini). Importante è che l'autore abbia tenuto insieme i due momenti, perché la produzione senza una distribuzione just in time vedrebbe realizzati lentamente i profitti che invece scorrono senza intoppi attraverso il lavoro semischiavistico di agricoltori e facchini.
Altrettanto coinvolgente è l'analisi sulla razzializzazione del mercato del lavoro. I migranti sono stati sottoposti a un regime progressivo di apartheid sin dagli anni Ottanta del Novecento. Segregati nelle campagne e nelle città, con una riduzione e un rifiuto istituzionalizzato di diritti civili, sociali e politici dei quali Matteo Salvini è l'ultima, in ordine di tempo, manifestazione Qui Aboubakar Saumahoro è amaro nel suo pacato realismo: non c'è stata nessuna sostanziale differenza tra governi di centro sinistra e centro destra.
L'unica diversità è che questi ultimi non nascondono il razzismo di stato dietro l'ipocrisia e i tempi più lenti come invece hanno fatto e fanno quando sono al governo le coalizioni di centro sinistra.
L'autore non sostiene però che tutti sono uguali. Il suo sindacato, l'Unione sindacale di base, non nasconde il fatto di essere di sinistra e di essere un sindacato di classe, ma sa che non ci sono "governi amici" quando si richiedono diritti civili, sociali per i lavoratori. La discriminante è se vengono accolte le proposte avanzate. E Aboubakar Soumahoro invita il lettore a tessere con pazienza relazioni che portino anche a piccoli risultati, ma costanti nel tempo e nelle spazio sociale.
In fondo, le grandi e radicali trasformazioni si costruiscono seguendo il passo più lento di chi è in marcia. Lo diceva una icona della sinistra mondiale, il Che. Con meno enfasi lo dice anche quest'uomo che fa parte di quella genia di uomini e donne che "non mollano mai". Sia quando sono sconfitti. Sia quando hanno piccole, ma seminali vittorie.
Il libro sarà presentato sabato 11 maggio al Salone del libro di Torino in due occasioni: alle 13,30, alla sala Ora, con il sindaco di Riace Mimmo Lucano e la scrittrice Nadia Terranova; e alle 16 in dialogo con Michela Murgia nell'Arena Robinson.
La Repubblica, 8 maggio 2019
Professori universitari di diritto e sociologia chiedono al governo un passo indietro: "Chiunque abbia a cuore la democrazia, lo stato di diritto, le libertà fondamentali ha anche a cuore la radio e il suo straordinario archivio". "Radio Radicale svolge un ruolo pubblico, straordinario, insostituibile. È un esempio di informazione al servizio della conoscenza pubblica". Inzia così un appello firmato da 181 docenti universitari che chiedono al governo di tornare sui suoi passi e bloccare la chiusura dell'emittente prevista per il 21 maggio. Effetto immediato del combinato disposto del taglio dei contributi all'editoria e del mancato rinnovo della convenzione che prevede la trasmissione dei lavori parlamentari.
"Lungo gli ultimi quarant'anni Radio Radicale ci ha assicurato un'informazione puntuale, approfondita, pluralista. Chiunque abbia a cuore la democrazia, lo stato di diritto, le libertà fondamentali ha anche a cuore Radio Radicale e il suo straordinario archivio", scrivono i firmatari.
Nell'elenco si possono leggere i nomi di Luigi Ferrajoli (filosofo del diritto, Università Roma Tre), Gaetano Silvestri (presidente emerito della Corte costituzionale e presidente Associazione costituzionalisti italiani), Enzo Cheli (costituzionalista, Università di Firenze), Patrizio Gonnella (sociologo del diritto e presidente di Antigone), Gaetano Azzariti (costituzionalista, Sapienza Università di Roma), Fulco Lanchester (costituzionalista, Università La Sapienza Roma), Valerio Onida (costituzionalista, Università di Milano), Stefano Ceccanti (costituzionalista, Università La Sapienza Roma, deputato del Pd), Alessandro Pace (costituzionalista, Università La Sapienza Roma), Giuseppe de Vergottini (costituzionalista, Università di Bologna), Salvatore Bonfiglio, (costituzionalista Roma Tre).
"L'informazione è un diritto che non può essere degradato a mero prodotto di mercato.
È dovere pubblico, e dunque anche nostro dovere, sostenere un'informazione al servizio dei cittadini e della loro libera formazione di pensiero. Radio Radicale è presente nelle aule parlamentari, nelle aule dei tribunali, nelle carceri. Grazie a Radio Radicale siamo tutti più informati sullo stato della democrazia e dei diritti umani in Italia, in Europa e nel mondo", scrivono gli studiosi.
E concludono: "La comunità degli studiosi del diritto ha sempre avuto i microfoni di Radio Radicale a disposizione per portare la cultura giuridica al di fuori dell'accademia. Spegnere Radio Radicale significa impoverire la società e la cultura italiana, significa ferire la sua democrazia. I valori costituzionali non possono e non devono mai essere tradotti in denaro".
agenzianova.com, 8 maggio 2019
Il ministro della Giustizia brasiliano, Sergio Moro, ha sollecitato le imprese brasiliane a dare maggiori opportunità di lavoro a detenuti o ex detenuti. Per il ministro è importante che gli imprenditori offrano opportunità ai detenuti che cercano di rientrare nella società attraverso il lavoro e lo studio, o che abbiano abbandonato il sistema carcerario e che non vogliano nuovamente tornare a delinquere. "Dobbiamo credere nella ri-socializzazione del prigioniero", ha dichiarato il ministro nel corso della cerimonia di consegna del 'Sigillo riscattà, certificazione concessa alle aziende che decidono di assumere detenuti o ex detenuti. "Questo è un obiettivo importante, perché non possiamo mai perdere la fiducia e sperare che le persone possano riscattarsi. (...) Uno dei modi migliori è dare a queste persone un'opportunità" ha detto il ministro.
Lanciato dal ministero della Giustizia e della Pubblica Sicurezza alla fine del 2017, il sigillo rientra nella strategia federale che punta a incoraggiare le società pubbliche e private, così come le agenzie e imprese di economia solidale, ad assumere detenuti o ex detenuti. Nel primo ciclo di certificazione delle aziende, relativo all'anno 2017/2018, 112 istituti hanno ricevuto il sigillo, la maggior parte sono tuttavia enti pubblici. Obiettivo del ministero è quello di espandere questo numero a mille entro il 2020, cercando di attirare più aziende private possibili. L'assunzione dei prigionieri avviene attraverso accordi che le società qualificate per sostenere il progetto di risocializzazione del detenuto firmano con i governi degli stati in cui agiscono. Per ottenere la certificazione deve impiegare tra l'1 e il 3 per cento dei detenuti. In cambio gli imprenditori ottengono uno sconto sui contributi versati per i lavoratori.
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