di Simona Musco
Il Dubbio, 8 maggio 2019
Una sentenza riapre il dibattito sulla norma. La Corte di Cassazione si spacca sul decreto Salvini. E le toghe si fanno "la guerra", usando come ring il campo dei permessi di soggiorno per i migranti. La battaglia riguarda la possibilità di applicare la nuova legge anche ai giudizi pendenti e non solo alle nuove domande, risultando, di fatto, retroattiva. Un punto sul quale ora dovranno pronunciarsi i giudici delle Sezioni Unite, chiamati in causa dal collegio presieduto dal giudice Francesco Antonio Genovese, più propenso a considerare le nuove regole valide anche per le domande presentate prima del 5 ottobre scorso.
Un orientamento decisamente diverso rispetto a quello del collega Stefano Schirò, che a gennaio aveva evidenziato, con la sentenza 4890 della prima sezione civile, l'irretroattività della norma. Ma pochi mesi dopo, il 3 maggio, le cose sono cambiate nonostante la presenza, nei due collegi, di due componenti identici - sotto la presidenza di Genovese, che ha inviato gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per "l'eventuale assegnazione" alle Sezioni Unite.
Tutto parte dalle ordinanze prodotte dalla Cassazione sui ricorsi presentati dal Viminale contro tre sentenze, due provenienti dalla Corte d'Appello di Trieste e una da Firenze, con le quali i giudici avevano riconosciuto la protezione umanitaria a tre cittadini stranieri, due del Gambia e uno del Bangladesh.
In un primo caso il riconoscimento era avvenuto in considerazione del "non perfetto stato di sicurezza" esistente in Gambia, nell'altro riconoscendo il radicamento del giovane che aveva presentato richiesta nel tessuto sociale italiano, "nel quale studia e coltiva i suoi principali legami, mentre in Gambia non ha rapporti familiari di rilievo" e tenuto conto della "sicura prognosi di insormontabili difficoltà di immediata reintegrazione nel Paese di origine".
Per il terzo caso, invece, i giudici avevano considerato positivamente l'inserimento nel contesto sociale e il raggiungimento dell'indipendenza economica, essendo stata tale persona assunta a tempo pieno. Il ricorso proposto da Salvini ha fornito ai giudici della Suprema Corte il pretesto per contestare con passaggi a volte anche molto duri nei confronti del relatore della sentenza precedente - l'interpretazione data a gennaio dai colleghi, secondo i quali le novità introdotte dal decreto "non trovano applicazione" per le richieste di protezione umanitaria presentate prima del 5 ottobre 2018, data dell'entrata in vigore della nuova legge.
Secondo quell'interpretazione, le domande avanzate fino al 4 ottobre vanno valutate sulla base della normativa precedente. Con una sola differenza: il rilascio, da parte del Questore, di un permesso di soggiorno contrassegnato con la dicitura "casi speciali", adattando così le certificazioni alle indicazioni della nuova norma, che, in pratica, elimina i permessi umanitari, salvo alcune eccezioni.
Una contraddizione, per il giudice Genovese, che parla, in alcuni passaggi, di "suggestioni irrilevanti", "ambiguità" e "aporie" e secondo cui, trattandosi di domande di protezione umanitaria non ancora definite in sede amministrativa o pendenti in sede giurisdizionale, parlare di retroattività potrebbe essere errato, fermo restando che tale principio "può essere derogato in modo espresso ovvero tacito e desumibile in modo non equivoco da obiettivi elementi del contenuto normativo".
E il decreto Salvini, affermano i giudici, conterrebbe "una norma di diritto intertemporale" che impone di applicare il meccanismo di conversione del permesso umanitario nel permesso "in casi speciali", escludendo, di fatto, l'applicazione delle vecchie norma alle situazioni pendenti.
"Secondo la ricostruzione operata dalla sentenza 4890 - contestano i giudici - il permesso da rilasciare sarebbe quello nuovo, ma le condizioni sarebbero quelle della legge previgente".
Una conclusione non condivisa dal nuovo collegio, secondo cui "non si comprende per quale ragione l'autorità amministrativa non dovrebbe applicare interamente la nuova normativa, essendo tenuta a provvedere alla conversione del permesso che è prevista dalla nuova legge".
Aggiungendo, in conclusione, anche una valutazione sull'idea stessa di protezione umanitaria come "oggetto di un diritto immanente e inviolabile della persona", così come definito dalla sentenza precedente.
Tale diritto, contestano i giudici, sarebbe comunque "suscettibile di regolazione da parte del legislatore, cui spetta il bilanciamento tra i valori in gioco il controllo del fenomeno migratorio e i diritti delle persone di derivazione anche internazionale posto che altrimenti si consentirebbe l'illimitata espansione di uno dei diritti in campo, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute".
di Fabio Evangelisti
Il Dubbio, 8 maggio 2019
Il delitto di Viterbo scatena profonda rabbia, emotività e dubbi. ma il problema è quello di non violentare la democrazia. La vicenda è nota e tragicamente uguale a tante altre. Troppo uguale. Con una lettura deformata però dal clima di perenne campagna elettorale.
Siamo dunque intorno alla metà di aprile e in un pub di Viterbo una ragazza di 36 anni viene brutalmente picchiata e violentata. I presunti aggressori sono due ancor più giovani ragazzi: Francesco Chiricozzi di 21 e Marco Licci di 19 anni.
I due l'avrebbero presa a pugni e stuprata mentre era in stato di incoscienza. Gli autori avrebbero anche filmato la violenza e minacciato la loro vittima. Passano alcuni giorni e, subito dopo la denuncia da parte della ragazza, si scatena la polemica politica. Stavolta gli autori delle sevizie non sono immigrati clandestini e di colore, ma baldi virgulti di italica stirpe. Per di più uno degli arrestati è consigliere per Casa Pound, nel vicino comune di Vallerano. Apriti cielo!
Da sinistra, compiendo l'analoga e grossolana operazione che fa la destra quando generalizza e associa immigrazione e violenza, parte subito la richiesta di scioglimento dell'organizzazione di estrema destra, mentre il vice premier Salvini tuona imbarazzato: "Nessuna tolleranza per pedofili e stupratori: la galera non basta, ci vuole anche una cura" annunciando una legge sulla castrazione chimica per gli stupratori.
Nel gioco delle parti, gli risponde Di Maio: "Basta con questa storia, è una presa in giro alle donne e non è nel contratto di governo. Anche CasaPound la chiedeva, ma quello che serve è la certezza della pena e anni e anni di detenzione, perché lo strumento della castrazione chimica lascia i violentatori a piede libero". In questo modo, dal fatto specifico l'attenzione si sposta al tornaconto elettorale e sul tappeto rimane soltanto il tema castrazione sì o castrazione no. Con il rischio di dimenticarci della/ e vittima/ e, delle violenze sofferte e del trauma che ogni donna inevitabilmente si porta dietro per tutta la vita.
Così, l'altra sera, mi capita di leggere su Facebook un commento che mi fa sobbalzare: "Sono per la castrazione, senza se e senza ma". A scriverlo è una giornalista che conosco e apprezzo. Potrei arrivare a definirla una cara amica. Quella sua perentorietà mi spiazza. Mi disorienta. Che faccio? Copio e incollo e le mando il testo integrale dell'intervista al professor Vittorino Andreoli, curata da Luciana Matarrese per l'Huffington.
L'illustre neuropsichiatra ci va giù duro: "Castrazione chimica? Un'imbecillità! Qui si rischia di castrare la democrazia". Per quello che a 79 anni è tra i più autorevoli esponenti della psichiatria mondiale lo stupro di Viterbo - come pure il pestaggio a morte dell'anziano di Manduria e l'aggressione della professoressa di Lodi - sono '"'effetto di una crisi più ampia, di una degenerazione del vivere civile che riguarda anche l'esercizio del potere".
E rischia di affondare la nostra democrazia, aggiunge Andreoli che continua: "Il potere è in mano ai cretini, la cultura è considerata inutile, il sapere non conta. Conta il potere come verbo, faccio perché posso non perché è utile". La risposta della mia interlocutrice non si fa attendere: "La mia è una rabbia profonda, lontana. Ho sempre pensato a questo tipo di punizione contro pedofili e stupratori. Lo penso perché ritengo che una certa categoria di maschi, preferirebbe la morte alla mancata virilità, seppur temporanea.
Mi spiace che esca dalla bocca di Salvini perché sono anti- salviniana. Credo soprattutto che, aldilà della pena (applicata o meno), diffondere l'uso della castrazione chimica in caso di stupro e pedofilia possa fungere da deterrente. Ed è quest'ultima minaccia che potrebbe far diminuire i casi. Forse sarà stupido, ma io la penso così, perché non tollero e non sopporto simili reati, non li perdono assolutamente e li condanno con pene esemplari affinché non accadano più".
E conclude "Lo stupro è come uccidere l'anima di una persona, rubarle il resto della vita". Continuo a credere che ad un atto barbaro non si possa rispondere con la barbarie di Stato. Anche se la pancia del Paese e i sondaggi oggi dicono tutt'altro.
di Valerio Vallefuoco
Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2019
Corte di cassazione - Sentenza 18031/2019. La Cassazione penale, con la sentenza 18031/19, ha ritenuto ammissibile l'attrazione della competenza territoriale anche cautelare nel luogo dove si assume siano stati commessi i delitti di riciclaggio, autoriciclaggio e associazione per delinquere con la finalità del compimento di reati tributari e omissioni contributive previdenziali e assistenziali anche se non c'è identità degli autori dei reati. Nel caso di specie, il ricorso dinnanzi alla Suprema Corte è stato proposto avverso una ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Milano aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip in ordine al delitto di associazione per delinquere finalizzato alla commissione di molteplici reati di natura tributaria e di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali.
Secondo il ricorrente, il Collegio del riesame avrebbe errato nel riconoscere la competenza per territorio in capo al Tribunale di Milano posto che per i medesimi fatti e nei confronti dei medesimi soggetti (ad eccezione però del ricorrente) pendeva procedimento penale innanzi alla Procura della Repubblica di Bari. Per essere più chiari, nel procedimento pendente innanzi al Tribunale di Milano, il ricorrente era indagato per il reato di associazione per delinquere, finalizzato alla commissione di molteplici delitti di diritti tributario e di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali mentre nel procedimento presso il Tribunale di Bari si contestavano a numerosi soggetti ma non al ricorrente, per l'appunto, il delitto di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio e all'autoriciclaggio anche dei proventi illeciti derivanti dalle stesse frodi fiscali su cui indagava la Procura di Milano. Ciò nonostante, il Tribunale del riesame di Milano, aveva ritenuto di confermare la propria competenza in quanto non sussisterebbe piena coincidenza degli indagati e degli importi individuati come provento della frode fiscale ma soprattutto i reati di riciclaggio e di auto-riciclaggio che andrebbero riguardati come i più gravi non sarebbero stati contestati al ricorrente, non indagato a Bari, ma solo ad altri soggetti, sicché non opererebbe il criterio della connessione.
Quest'ultimo assunto, è stato tuttavia sconfessato dalla Corte di cassazione, la quale richiamando un insegnamento delle Sezioni unite (sentenza 53390 del 26 ottobre 2017) ha escluso che ai fini della configurabilità della " connessione teleologica" che ricorre quando taluni dei reati per cui si procede siano stati commessi per eseguire o per occultare gli altri, debba sussistere identità fra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo. In particolare, le Sezioni unite a suo tempo avevano chiarito che questo tipo di connessione, a differenza di quella plurisoggettiva e di quella mono-soggettiva, richiama un legame oggettivo tra due o più reati, senza esigere che l'autore di quello strumentale all'altro debba necessariamente prendere parte a quest'ultimo, che può quindi essere commesso anche da terzi. È importante infine il fatto che, ad oggi, la giurisprudenza sembrerebbe avallare la tesi secondo cui il reimpiego dell'imposta evasa configuri automaticamente il delitto di auto-riciclaggio, con conseguente applicazione di misure cautelari reali.
di Emiliano Fittipaldi
L'Espresso, 8 maggio 2019
Inchiesta della procura di Roma sul malware Exodus. I nostri servizi segreti l'hanno acquistato da una ditta calabrese, che archiviava dati sensibili in Oregon. L'Aise al procuratore Pignatone: non l'abbiamo usato. Il sospetto dei magistrati della procura di Roma fa tremare le vene ai polsi. Migliaia di fotografie, chat private, audio vocali e dati sensibili intercettati dai nostri servizi segreti sarebbero infatti finite in mano a una società privata calabrese che le ha immagazzinate in un archivio segreto negli Stati Uniti, in Oregon.
Utilizzando un'area cloud di Amazon che non solo era, illegalmente, di esclusivo appannaggio dell'azienda di Catanzaro, ma che poteva essere facilmente bucata dall'esterno. In pratica informazioni delicatissime dei nostri 007 sarebbero state in rete per anni, allocate non in Italia su server protetti ma all'estero, e facilmente accessibili (con una semplice password e uno username) da chiunque avesse avuto voglia di darci una sbirciata.
È questa la clamorosa ipotesi investigativa di Giuseppe Pignatone - procuratore della Repubblica di Roma - e dei suoi pm, che stanno segretamente lavorando da settimane sulla vicenda del sistema spyware chiamato "Exodus". Se è noto che la procura di Napoli ha sequestrato la piattaforma informatica messa a punto dalle società informatiche e.Surv e STM srl (il procuratore capo Giovanni Melillo ha spiegato che il software - di fatto un trojan che infettava i cellulari trasformandoli in microspie - era usato da procure di mezza Italia per le indagini giudiziarie), gli inquirenti hanno scoperto che tra i clienti delle ditte calabresi c'erano infatti anche i nostri 007. Cioè l'Aisi, l'agenzia che monitora la sicurezza interna del Paese, e l'Aise, l'organismo di intelligence che ha il compito di prevenire le minacce provenienti dall'estero.
Impossibile dire, a oggi, se i responsabili delle due società abbiano costruito un sistema informatico illegale per un mero errore operativo o per commettere reati (qualche giornale ha ipotizzato che i pm napoletani indaghino anche su presunte attività di dossieraggio e ricatto). Ma è un fatto che l'imprenditore Giuseppe Fasano e l'ingegnere Salvatore Ansani della e.Surv, e Maria Aquino e Vito Tignanelli della STM che commercializza i prodotti informatici della prima, sono tutti indagati a vario titolo per violazione della privacy, frode in pubbliche forniture e intromissione abusiva in sistema informatico.
Com'è possibile che i nostri servizi di sicurezza abbiano acquistato un malware pagando centinaia di migliaia di euro senza accorgersi che Exodus inviava le loro intercettazioni ambientali e telefoniche in Oregon? Com'è accaduto che la polizia giudiziaria e molte procure della Repubblica abbiano assegnato appalti pubblici alla e.Surv senza aver notato che pure ignari cittadini potevano scaricare da Google Play il trojan - nascosto in app civetta che avrebbero così bucato la sicurezza del colosso di Mountain View - trasformando il loro telefonino in un captatore illegale?
Gli investigatori stanno cercando di rispondere a ogni domanda. La procura di Roma, che per competenza è titolare del fascicolo sull'uso di Exodus fatto da Aisi e Aise, ha iniziato a chiedere informazioni dettagliate. Rispettivamente a Mario Parente, nominato direttore dell'Aisi nel 2016 e prorogato di altri due anni nel 2018, e a Luciano Carta, arrivato al vertice di Forte Braschi solo lo scorso novembre.
All'Espresso risulta che l'acquisto di Exodus da parte dell'Aise sia avvenuto alla fine del 2016. In concomitanza con l'arrivo, nel servizio, di Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che quell'anno - dopo polemiche con l'allora comandante dei carabinieri Tullio Del Sette - s'era spostato all'agenzia guidata allora da Alberto Manenti.
A Ultimo, che vantava eccellenti rapporti con l'allora sottosegretario a Palazzo Chigi con delega ai servizi Marco Minniti, e ai suoi uomini traslocati dal Noe vengono affidati compiti rilevanti. Dal rafforzamento della sicurezza degli accessi della sede romana al tentativo di pacificare le tribù del Fezzan (la regione della Libia meridionale dal quale passano le carovane di migranti dirette verso Nord), fino al rilancio dell'ufficio delegato alla sicurezza interna. De Caprio - l'uomo che ha catturato Totò Riina - diventa presto il dominus del reparto, che deve investigare anche sulle possibile talpe che si annidano tra le nostre barbe finte.
Per lavorare bene (il terrorismo dell'Isis è il pericolo maggiore, e in quei mesi il governo spinge affinché i servizi possano usare di più e meglio le cosiddette intercettazioni preventive) Ultimo chiede ai suoi capi un trojan decente e un sistema di captazione informatico di qualità. All'Aise, nel 2016, sono del tutto scoperti: i vecchi software spia dell'agenzia, forniti dall'azienda milanese Hacking Team, sono finiti in soffitta dal luglio 2015. Da quando, cioè, la società milanese di David Vincenzetti era stata presa di mira da un hacker che aveva rubato e messo in rete centinaia di gibabyte di informazioni, dati, codici, email e liste dei clienti.
Manenti, il suo allora capo di gabinetto (e attuale vicedirettore) Giuseppe Caputo e Ultimo, che aveva già usato Exodus in alcune inchieste giudiziarie quando comandava il Noe di Roma, decidono così di comprare lo spyware di e.Surl. Che viene dato in dotazione, in via sperimentale, solo all'ufficio di De Caprio. E non al reparto tecnico dell'agenzia.
Possibile che eventuali intercettazioni dell'Aise (che devono sempre essere autorizzate dalla procura generale della Corte d'appello di Roma) siano finite nell'archivio segreto in Oregon? Secondo Carta, no. Dopo aver analizzato per settimane - insieme al nuovo capo della sicurezza e dell'ufficio legale Massimiliano Macilenti - documenti ed evidenze interne, il direttore dell'Aise (che tra il 2016 e il 2017 era il numero due di Manenti, ma le sue deleghe non riguardavano sistemi di sorveglianza e intercettazioni preventive) ha risposto a Pignatone spiegando che, almeno "per tabulas", lo spyware non è mai stato utilizzato. Né dagli uomini di Ultimo né da altri agenti segreti dell'Aise.
Come mai Exodus non sia mai diventato operativo, nonostante i denari spesi per comprarlo, è un mistero. Il contratto con la STM è segreto e non è nemmeno stato depositato al Dis. Di certo il servizio esterno dopo il primo acquisto non ha interrotto i rapporti con la ditta calabrese: un anno e mezzo dopo l'agenzia acquisterà un altro software, stavolta destinato al reparto tecnico della cyber security. Una versione modificata di Exodus che, secondo fonti interne, "funzionava molto meglio del primo", con intercettazioni e dati tutti allocati "in un server protetto interno all'agenzia".
Anche il Copasir sta indagando sulla vicenda. "Perché è vero che l'Aise ha certamente comprato Exodus, chi ne ha fatto un impiego rilevante è l'Aisi, la polizia giudiziaria, oltre a procure di mezza Italia. Dobbiamo capire se ci troviamo di fronte a gravi errori e sottovalutazioni, o se invece esistono soggetti privati o delle istituzioni che hanno fatto un uso illecito del trojan", dice un autorevole esponente del Comitato per la sicurezza guidato dal piddino Lorenzo Guerini. Anche il grillino Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa, s'è detto preoccupato: tutti i dati riservati captati dal malware finivano infatti nel cloud Amazon in Oregon. Chiunque aveva una password poteva entrare nell'archivio. E vedere (e scaricare) non solo i dati riservati della sua indagine, ma anche quelli di istruttorie segrete di terzi.
Il sistema Exodus, di fatto un malware di Stato, ha funzionato per anni indisturbato. Solo all'inizio di quest'anno, per un caso fortuito, un finanziere di stanza a Benevento s'è accorto che qualcosa non funzionava. Il militare, impiegato nella procura campana e al lavoro su un'indagine penale che prevedeva anche intercettazioni telematiche, dopo una serie di interruzioni delle connessioni di rete con il server ha provato a collegarsi sfruttando altri indirizzi, percorsi alternativi. Accorgendosi così che i dati della sua inchiesta non erano protetti in modo sicuro: da qualsiasi pc, persino da un tablet o uno smartphone, era possibile accedere a un server di Amazon localizzato negli Usa, che custodiva l'intero archivio realizzato dalla e.Surv. I responsabili della ditta, però, con ogni cliente istituzionale hanno firmato contratti che prevedrebbero non solo la tutela della privacy di tutte le informazioni, ma anche la loro corretta conservazione. Possibile che la ditta calabrese abbia realizzato un deposito cloud non sul territorio nazionale e privo di adeguata sicurezza solo per risparmiare e fare margini migliori?
Si vedrà. Intanto le procure di Benevento e poi quella di Napoli (dove il fascicolo è stato acquisito per competenza) hanno scoperto pure - come i ricercatori di Security Without Borders e di Motherboard che hanno pubblicato per primi la notizia - che Exodus ha intercettato illegalmente anche un migliaio di cittadini italiani del tutto estranei ad indagini penali o investigazioni dei servizi.
Gli esperti hanno rivelato che su Google Play Store venivano piazzate dall'azienda di Catanzaro delle app malevole che, dopo il download, infettavano con Exodus il cellulare del malcapitato. Lo spyware si camuffava dentro applicazioni comuni, come quelle che vengono scaricate per migliorare le performance dei device o quelle che segnalano le nuove promozioni di vari operatori telefonici.
Secondo i tecnici di Motherboard, una volta che Exodus veniva installato, prima raccoglieva informazioni base sul cellulare che era stato hackerato, come il codice Imei. Poi, in una fase successiva, prendeva il controllo totale del telefonino, trasformandolo in una cimice, estraendo immagini e video, oltre alla cronologia del browser di Internet, tutte le chat di Whatsapp e di Telegram e i contatti della rubrica.
Secondo "Repubblica" è stato proprio Ansani, ingegnere di e.Surv, a fare agli inquirenti le prime ammissioni, e ha rivelare di avere piazzato su Android (non risultano invece operazioni simili sul sistema di Apple) applicazioni che trasformavano i cellulari in apparecchi-spia. Per l'ingegnere, però, il contagio è stato deciso a tavolino solo per effettuare dei test sul software, e non per effettuare intercettazioni a pioggia. Antonello Soro, garante della privacy, conferma che la storia resta oscura. "È un fatto gravissimo", ha detto, "faremo anche noi i dovuti approfondimenti per quanto concerne le nostre competenze. La vicenda presenta contorni assai incerti, ed è indispensabile chiarirne l'esatta dinamica".
Il timore maggiore degli inquirenti di Roma e Napoli, però, non riguarda le centinaia di cellulari intercettati illegalmente. Ma il rischio che i dati segreti di indagini delle procure italiane e del nostro controspionaggio siano state oggetto non solo di archiviazioni illecite (una falla che potrebbe già aver compromesso investigazioni sensibili), ma di un vero e proprio mercimonio di informazioni riservate. È solo un sospetto, per ora. L'inchiesta è solo all'inizio.
di Gianfranco Morra
Italia Oggi, 8 maggio 2019
Solo se chimica (e quindi reversibile) e soltanto se su richiesta del condannato per violenze sessuali. L'opinione pubblica è sempre più sconvolta dai frequenti episodi di stupro, anche pedofili, non di rado accompagnati dalla loro trasmissione in web, di cui ha giornalmente notizia. Il ministro degli interni, fra i rimedi possibili, ha anche invocato la castrazione chimica: "Che è una pratica democratica e pacifica.
Ci vuole, ha concluso Salvini, una castrazione chimica, con una pillola, non con le forbici. Magari dando a chi l'accetta uno sconto di pena". Ha suscitato lo sdegno e la protesta di molti, ai quali questa tecnica appare come un residuo di tempi oscuri e selvaggi. È stato accusato di crudeltà e di calcolo elettorale. Ma gli italiani stanno con lui e una petizione al parlamento, presentata l'altro giorno dal segretario della Lega, Molteni, ha già avuto 100 mila firme.
Che corrispondono ai dati di un sondaggio in merito: il 60% dei cittadini è favorevole a questa pratica in tutti i partiti (nella Lega, ma anche nel M5S, nonostante Di Maio abbia osservato: "Non è nel contratto di governo").
E parte non piccola giunge addirittura a chiedere la castrazione totale. Che sarebbe certo troppo. Si tratta tuttavia di un vecchio problema. Lo troviamo già agli albori della storia: Saturno tagliò i genitali al padre Urano. Più avanti la castrazione veniva usata per fini religiosi (culto di Cibele e gnostici, come Origene, che non esitò a fare il "sacrificio").
In Cina era una pena per stupratori e adulteri. Nel mondo islamico serviva a creare gli eunuchi per gli harem. Nel mondo cristiano produceva la voce infantile per il canto (castrati dell'opera). E il filosofo Abelardo, per avere sedotto la nipote Eloisa del canonico Fulberto, fu da lui fatto castrare. Tempi barbari, certo. Ma ancor oggi la castrazione chimica è presente nelle legislazioni di alcune nazioni tutt'altro che incivili (Germania, Danimarca, Svezia, Norvegia, Francia, Belgio, alcuni Stati Uniti, Australia, India, Russia).
Ma solo col consenso del colpevole, di età non inferiore a 20 anni, del quale sia stata dimostrata la pericolosità sociale. Anche se non avviene spesso. Uno stato di diritto e democratico non può imporre la castrazione, ma solo fornirla come intervento opzionale richiesto dal "malato" a spese dello Stato. Si tratta dell'uso di farmaci ormonali, che riducono le fantasie e il desiderio sessuale, frenando l'eccitabilità. Non si tratta in alcun modo di una castrazione definitiva, perché la somministrazione dei farmaci può essere interrotta in ogni momento.
Non v'è dubbio che ridurre l'intervento di Salvini a una semplice fatto elettorale è cosa stupida. Il problema esiste da tempo e va affrontato, come fanno tante altre nazioni. Tutti ricordiamo il più riuscito fi lm dedicato a questo problema. Nel 1971 uscì la violentissima pellicola di Stanley Kubrick Arancia meccanica, tratta dal noto romanzo di Antony Burgess.
Con fine previsione, i due autori hanno indovinato cosa presto sarebbe accaduto anche nella civilissima Inghilterra e in tutta Europa: tre giovani sofisticati e svagati si dedicano alla tortura, allo stupro e all'uccisione. Tutti violenti e malvagi, tutti "arance meccaniche", persone umane fuori, criminali dentro, ma quella società in cui vivono lo è molto più di loro. Il loro capo Alex viene carcerato e sottoposto al metodo di cura, psico-chimico, "Ludovico".
Alla fine del dramma è "guarito" e può tornare nel mondo civile. Ma l'ultima inquadratura del fi lm mostra il suo sguardo ormai vuoto, più di un automa che di un essere libero. Non è più un uomo, perché non può più fare né il bene né il male. Sappiamo anche che la tendenza alla violenza e allo stupro non dipende solo da fatti fisici e costitutivi.
Molto vi contribuiscono la mancata educazione morale e sociale. La castrazione chimica non esaurisce il problema, anche se sarebbe un errore non tener conto della sua utilità in certe condizioni. L'uomo è sempre un essere complesso, qualcosa di misto (una medietas dicevano gli umanisti del rinascimento) tra la bestia e Dio. Occorre aiutarlo a superare la sua animalità nella spiritualità. Con la formazione familiare, scolastica e sociale. Anche se, nei casi in cui la bestialità prevalga, occorre aiutarlo (dietro sua richiesta) con i mezzi che la scienza ci suggerisce. Compresa la castrazione chimica.
di Venanzio Postiglione
Corriere della Sera, 8 maggio 2019
Si vedevano al ristorante e lo chiamavano "la mensa dei poveri". Il mago delle relazioni e dei voti è un signore già condannato in via definitiva nel 2017 per concussione.
Anche lo sfregio. Si vedevano al ristorante e lo chiamavano "la mensa dei poveri". Hanno immaginato la tangente su una sentenza per tangenti: pure la corruzione sa essere creativa. Il mago delle relazioni e dei voti, raccontano i pm, è un signore già condannato in via definitiva nel 2017: per concussione. Quando si dice la competenza. E l'inchiesta poteva e doveva andare avanti, alla ricerca di prove e reati: hanno dovuto interrompere. D'urgenza. Con gli arresti. Perché, ascoltando i colloqui, saltavano fuori nuovi illeciti: così, in diretta.
Sono passati 27 anni dal famoso 17 febbraio del '92, quel mattino d'inverno in cui Mario Chiesa veniva arrestato, Tonino Di Pietro diventava famoso, si apriva Tangentopoli, cadeva un sistema politico e si immaginava la lunga primavera dell'onestà. Da Milano all'Italia tutta. Però 27 anni fa è come 27 mesi fa e 27 ore fa, la corruzione ambientale specchio e condanna di un Paese uguale a se stesso, al di là delle norme, dei partiti, delle inchieste. Delle promesse, dei proclami. Ma forse anche dei garantisti e dei giustizialisti. Che si scontrano sul nulla e parlano di nulla se non si aggrediscono i due temi aperti (quelli veri): la selezione della classe politica e l'efficacia e la rapidità della giustizia. Altrimenti avremo sempre mezze figure con la bustarella in tasca e processi infiniti che aiuteranno lo spettacolo e mortificheranno la legalità. E avremo pene molto severe e molto inapplicate, grandi megafoni per la propaganda e nuovi tagli alla giustizia.
La delusione sarà più forte, se i primi passi dell'inchiesta di Milano verranno confermati, a cominciare dalle "sinergie con le cosche della 'ndrangheta". Perché nell'immaginario italiano davvero, e ancora, la Lombardia è la regione che lavora-produce-innova partendo dalle sue imprese e prova a trascinare un Paese frenato dalle risse (quotidiane) al governo e malmenato dalle bastonate (mensili) dell'Europa. È una spinta che fa bene all'Italia e ci tiene ancorati al mondo: tutti i giorni. Ma poi, un martedì mattina, la notizia che scuote il sistema lombardo di governo, costruito da sempre sull'alleanza Forza Italia-Lega e citato con insistenza come modello nazionale.
Ci sono 43 misure cautelari, con 12 arresti in carcere e con gli "azzurri" emergenti sotto scacco. A partire da Pietro Tatarella, vice coordinatore regionale di Forza Italia e anche candidato alle Europee del 26 maggio: in lista, ma ora in cella. Indagato lo stesso governatore leghista, Attilio Fontana, per abuso d'ufficio, anche se la Procura ha mostrato cautela e quindi servirà prudenza. Non è solo un fatto giudiziario. E non è facile scagliare pietre. La Lega, a Roma, si è incartata nella vicenda Siri e ha ridato slancio ai 5 Stelle. Gli stessi 5 Stelle che hanno visto il proprio presidente del consiglio comunale, Marcello De Vito, finire in carcere per corruzione. Nella capitale, dove governano. Il Pd, solo per citare l'ultima pagina, ha la ferita dell'Umbria ancora aperta, dopo decenni di amministrazione e di potere. Poi, certo, ogni caso è un caso, ogni responsabilità è personale e l'indagato non è un condannato. Ma neppure la legge "spazzacorrotti" si è rivelata (per ora) una minaccia sufficiente e l'ipotesi della "giustizia a orologeria" si spegnerà prima di nascere. Sarebbe uno strano orologio. Visto che in Italia ci sono sia elezioni che indagini in continuazione.
È una battaglia che va fatta nei partiti. Dentro i partiti. Con le inchieste. Ma anche nella società, nella cultura, alla ricerca degli anticorpi che esistono in Lombardia e non solo in Lombardia. È forse qui che, un giorno, deve davvero finire la pacchia. Senza dire che le persone marciranno in galera o che bisogna buttare la chiave nel lago di Como o che si devono tagliare le mani come nelle leggi ispirate alla sharia. Le persone degli altri partiti, naturalmente. Meglio pene certe e condanne rapide: la riforma più semplice sarà quella più difficile. Partendo da Cesare Beccaria, milanese e gloria nazionale, che l'ha scritto nel Settecento. E poi una politica che chiama "mensa dei poveri" il ristorante dove si scambiano tangenti dovrebbe vergognarsi subito. Prima di inchieste e processi.
di Giovanni Negri
Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2019
Corte di cassazione - Sentenza 18793/2019. Spazio ampio per la diversa qualificazione giuridica del fatto. Perché, comunque, nei diversi gradi di giudizio la difesa può essere messa nelle condizioni di intervenire. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza 18793 della Quarta sezione penale. Nel dettaglio, il giudice può procedere a un diverso incasellamento nella legge penale della medesima condotta senza la necessità di informare preventivamente le parti sia in primo grado sia in appello. La difesa infatti potrà fare valere le sue ragioni nel successivo grado di giudizio, in appello oppure in Cassazione.
Davanti a quest'ultima, poi, la diversa qualificazione è possibile quando le parti sono state informate, anche solo oralmente, da parte del procuratore generale in sede di requisitoria oppure anche dal collegio giudicante stesso prima della discussione. Intreventi suprflui poi se l'atto stesso dell'impugnazione ha al centro proprio il tema della determinazione giuridica della condotta. La Cassazione fa precedere queste conclusioni da un'attenta ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, dove il riferimento obbligato sul punto sono le sentenze Drassich, dell'11 dicembre 2007 e 24 febbraio 2018. Pronunce che hanno affermato e precisato il diritto dell'imputato a essere informato della natura e dei motivi dell'accusa. Un'informazione che non può essere però limitata agli esclusivi elementi di fatto, ma impone anche l'evidenza della qualificazione giuridica dei fatti contestati, alla quale naturalmente l'ordinamento fa seguire il relativo trattamento sanzionatorio.
È necessario però, torna a sostenere la Cassazione, un approccio non formale al principio affermato in sede europea, ritenendo che il diritto all'informazione sulle cause dell'accusa deve trovare applicazione solo quando l'imputato non ha avuto spazio per rielaborare la propria linea difensiva. Una necessità di interpretazione nel segno della "ragionevolezza" che va declinata nei diversi gradi di giudizio. Determinante è allora la possibilità per l'imputato di confronto con l'autorità giudiziaria attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione, non solo davanti al giudice di appello, ma anche in Cassazione. A ulteriore precisazione, osserva la Cassazione, va sottolineato che è garantito il diritto al contraddittorio anche quando la nuova determinazione del fatto è stata compiuta direttamente con la sentenza di primo grado senza un preventivo confronto sul punto. Davanti alla Cassazione, infine, l'unico elemento da tenere presente è che la riqualificazione non può arrivare a sorpresa, al momento della decisione. Deve così essere considerato superato quell'orientamento che aveva ritenuto colpita da nullità la sentenza che aveva operato a una riqualificazione dell'imputazione senza un preventivo contraddittorio.
di Teresa Valiani
Redattore Sociale, 8 maggio 2019
La relazione annuale del Garante regionale. I detenuti sono 6.500 a fronte di 5.252 posti regolamentari. Anastasìa: incrementare misure alternative. "Un anno complicato ma in cui non sono mancati risultati e passi in avanti e in cui si sono poste le basi per sviluppi ulteriori".
Strutture, sovraffollamento, assistenza sanitaria, minori, stranieri, lavoro, studio e suicidi: è una foto in bianco e nero, con molte zone d'ombra, ma anche con qualche apertura, quella che restituisce la relazione annuale dell'attività svolta dall'ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà del Lazio, terza regione in Italia per numero dei detenuti, dopo Lombardia e Campania. Questa mattina, 7 maggio, la presentazione del report nella Sala Mechelli del Consiglio regionale.
Carcere e sovraffollamento. "Siamo di nuovo sopra i 60mila detenuti in Italia, 6.500 nel Lazio, a fronte di 5.252 posti regolamentari - spiega il Garante Stefano Anastasìa. Negli ultimi due mesi la popolazione detenuta ha smesso di crescere ma la situazione resta critica perché non c'è un'inversione di tendenza mentre si registra una decrescita dei reati.
È dunque l'effetto di un allarme sociale che, per quanto infondato, pesa sulle prassi e sugli orientamenti degli operatori della sicurezza e della giustizia". Il sovraffollamento, pari al 118 per cento in Italia, è al 124 per cento nel Lazio. Anche la percentuale di detenuti stranieri è più alta nel Lazio che in Italia, con evidenti criticità nella gestione di istituti di pena privi di mediatori culturali e nello stesso accesso alle alternative al carcere, fortemente limitate dalle condizioni socio-anagrafiche. Più del 40 per cento dei condannati in esecuzione penale in carcere ha un residuo pena inferiore ai due anni, nel Lazio quasi il 50 per cento. "In questa regione - sottolinea il Garante - il sovraffollamento non esisterebbe se i condannati a meno di un anno potessero accedere alla detenzione domiciliare o all'affidamento in prova al servizio sociale".
Le strutture. "Particolarmente critiche - spiega Anastasìa - le condizioni delle carceri di Latina, Cassino, Regina Coeli e Civitavecchia Nuovo complesso: principali carceri di ingresso nel sistema penitenziario regionale. Lo stato del patrimonio penitenziario italiano è desolante, nelle strutture e nelle suppellettili. Quasi dappertutto le docce sono fuori dalle stanze, in condizioni critiche, l'acqua calda in stanza è una rarità e in alcuni istituti c'è ancora il water a vista.
Per non parlare della nudità degli spazi comuni, dell'accoglienza dei familiari in visita o delle condizioni degli impianti sportivi. Continuiamo a rinviare il problema della qualità degli spazi detentivi a quando avremo finito di affannarci sulla soglia dei tre metri quadri a testa prescritti dalla giurisprudenza Cedu, ma forse solo affrontando il problema della qualità riusciremo a risolvere il problema della quantità".
I minori. "A dispetto di una certa, morbosa, attenzione mediatica - spiega il Garante -, il sistema della giustizia penale minorile continua a dare buona prova di sé". Sono ulteriormente diminuiti gli ingressi nel Centro di prima accoglienza di Roma, leggermente aumentati quelli a Casal del Marmo e stabilizzati i collocamenti in comunità. "Su ciascuno di questi percorsi pesano i ragazzi italiani, anche se a Casal del Marmo restano trattenuti gli stranieri e una percentuale di ragazze non corrispondente agli ingressi in Cpa e in Ipm, segno di una loro maggiore difficoltà ad accedere alle misure di comunità. Poco meno della metà sono i giovani adulti, tra i 18 e i 25 anni, autori di reati compiuti da minorenni, che vengono ospitati in Istituto".
Rems e Tso. Nel Lazio ci sono 5 strutture per 91 posti disponibili e al 31 dicembre risultavano internate 84 persone. "Significativo - commenta il Garante - il riequilibrio tra misure di sicurezza provvisorie, internamenti di semi-infermi e destinatari di misure di sicurezza definitive a favore di queste ultime. Per quanto insufficiente, è importante anche la riduzione della lista d'attesa, da 70 a 52 persone". Nel 2018, sono state 43 le persone dimesse, di cui 30 in libertà vigilata presso comunità terapeutiche, tre in libertà vigilata con prescrizioni, cinque per revoca della misura e tre per trasferimento in carcere. "Sulla malattia mentale e il trattamento sanitario obbligatorio per motivi di salute psichica - annuncia Anastasìa - inizieremo un monitoraggio specifico dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura e delle sue forme di disposizione e di applicazione. Intanto registriamo il dato fornito dal Dipartimento di epidemiologia al Garante nazionale, secondo cui i ricoveri con Tso nel Lazio sono in costante calo e, tra essi, quelli con diagnosi di disturbi psichici".
Il lavoro di un anno. Sono state prese in carico 631 delle 841 persone private della libertà che si sono rivolte all'ufficio. "Fatte salve il gran numero di richieste di contatto per ragioni di studio, vera specialità di questo ufficio e di questa regione che, anche grazie all'impegno di alcuni atenei ha un quarto dei detenuti iscritti all'università in Italia, il maggior numero di contatti sono motivati da problemi riferibili alle condizioni di detenzione, all'assistenza sanitaria e alla richiesta di trasferimento". Alle visite e agli interventi si affianca il lavoro di confronto istituzionale e di sensibilizzazione dell'opinione pubblica.
Salute in carcere. L'assistenza sanitaria resta una delle maggiori preoccupazioni dei detenuti. Dall'Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria sono emerse le necessità di: potenziare la medicina specialistica, attivare una diversa modalità operativa dei Dipartimenti di salute mentale in carcere, verso una presa in carico effettiva del detenuto infermo di mente, informare i detenuti sui servizi offerti, garantire continuità terapeutica e informatizzazione della cartella clinica.
Lavoro, formazione e previdenza sociale. Istruzione scolastica con discreta diffusione anche se "ogni anno - sottolinea il Garante - deve confrontarsi con minacce di tagli di classi che non tengono conto dei difficili percorsi. D'altro canto, l'Amministrazione penitenziaria continua a non ponderare con la dovuta accortezza i trasferimenti dei detenuti che spesso interrompono percorsi di studio e di istruzione non proseguibili nelle nuove sedi di destinazione". Sul lavoro si registra "un impoverimento dell'offerta di lavoro minimamente qualificato, retribuito e con una prospettiva di stabilizzazione". Situazione che pone in rilievo "la scelta di Roma Capitale di riproporre la clausola sociale di valorizzazione dell'inserimento lavorativo dei condannati nei propri appalti pubblici. Anche altri enti territoriali e aziende pubbliche potrebbero muoversi in questa direzione, dando un contributo effettivo ai processi di reinserimento delle persone detenute".
Suicidi e morti in carcere. "I dati in regione sono ambivalenti: al contrario che a livello nazionale, diminuiscono i suicidi, ma aumentano le morti - sottolinea il Garante ricordando i due bambini uccisi dalla madre a Rebibbia -. In carcere ci si uccide 17 volte più che fuori perché il carcere è un luogo in cui la sofferenza personale e la pena per la propria condizione di vita sono acuite dalla perdita della libertà. L'Amministrazione penitenziaria, con l'ausilio del personale sanitario, deve fare tutto quello che può per prevenire simili eventi, e l'adozione dei Piani di prevenzione del rischio suicidario in quasi tutti gli istituti di pena della regione va in questo senso. Ma non si può pensare di debellare il suicidio dalle carceri o di attribuirne la responsabilità all'agente di sezione che ha tardato qualche secondo ad affacciarsi allo spioncino. Piuttosto bisognerebbe ponderare con più attenzione le stesse scelte di carcerazione, sia in fase cautelare che in fase esecutiva, e nel corso di essa fare attenzione a quei momenti e a quelle situazioni ad alto rischio, come la rottura di una relazione familiare, il sopraggiungere di un nuovo titolo di detenzione, l'esecuzione di un provvedimento disciplinare". (Teresa Valiani)
di Pietro Alessio Palumbo
Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2019
Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 4 aprile 2019 n. 14734. Ai fini della condanna per maltrattamento degli animali assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà verso gli animali, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dello animale stesso, procurandogli dolore e afflizione. Con la recente sentenza n°14734/2019, la Corte di Cassazione affronta una vicenda che riguardando asini da soma sembra d'altri tempi, coniugando tuttavia una prospettiva novella: una spinta di diritto vivente verso una nuova visione della posizione giuridica soggettiva dell'animale.
Le circostanze censurate - Il Tribunale di prime cure aveva affermato la responsabilità penale dell'imputato poiché nella sua qualità di titolare di una azienda agricola deteneva alcuni asini in condizioni incompatibili con la loro natura, producendo ad essi gravi sofferenze. Gli asini presentavano evidenti difficoltà deambulatorie. Un asinello neppure era più in grado di reggersi sulle zampe.
Le coordinate valutative - A giudizio della Corte, configurano reato di maltrattamento di animali non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di compassione verso gli animali destando ripugnanza per la loro aperta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sui sensi dell'animale, producendogli dolore. Non solo le sevizie, le torture o le crudeltà caratterizzate da dolo quindi, ma anche incuria che reca danno agli animali quali esseri senzienti capaci di percepire gli stimoli del male (parimenti alle attenzioni amorevoli). La configurabilità dell'ipotesi di animali in condizioni incompatibili con la loro natura non può quindi prescindere dall'elemento della sofferenza che deve risultare da un'adeguata prova. Se fosse sanzionabile la semplice detenzione degli animali in condizioni contrastanti con la di essi natura, di per sé sola e dunque in assenza di concreta sofferenza, qualsivoglia detenzione a prescindere dal luogo, dalle modalità, dalla durata e dagli scopi della stessa, si porrebbe per ciò stesso in contrasto col precetto penale, dal momento che si tradurrebbe in una privazione della libertà dell'animale e quindi contrasterebbe con la natura dell'animale stesso, impulsivamente orientato a vivere in libertà dall'uomo.
Per altro verso, l'elemento della incompatibilità naturalistica della detenzione conferisce al reato la necessaria determinatezza, così ottemperando al principio di legalità. In altre parole il requisito della sofferenza fisica o psichica, esprime con chiarezza la scelta di considerare gli animali come esseri viventi suscettibili di tutela diretta e non mediata sol perché oggetto del sentimento di pietà nutrito dagli esseri umani verso di loro. In questa ottica il concetto di inutile sofferenza non risponde a una visione antropocentrica della sofferenza animale (la pietà), ma a un'esigenza di determinatezza della fattispecie altrimenti esposta alle sensibilità soggettive dei consociati e dello stesso giudice. Nel caso di specie, si pone in evidenza come agli animali, era impedita o, comunque, resa particolarmente difficoltosa la deambulazione, tanto che uno di essi non riusciva neppure più ad alzarsi dal carro utilizzato per trasportare gli animali al lavoro, esponendoli tutti a grossi rischi durante l'alpeggio, dovendosi muovere su un terreno non piano. La detenzione in tali condizioni, per la Corte deve ritenersi certamente inconciliabile con la natura degli animali e foriera di sofferenze inaccettabili.
A ben guardare la condotta crudele consiste non solo nel cagionare all'animale sofferenze senza alcuna necessità, ma anche nel sottoporre lo stesso ad una condizione di vita che, non risultando necessaria alle esigenze della custodia e dell'allevamento, gli cagioni martirio. Di talché, come nel caso di specie, anche la detenzione di un animale in condizioni tali da costringerlo a una postura innaturale, tale da impedire o rendere assai difficile la deambulazione o il mantenimento di una posizione eretta, integra reato di maltrattamento degli animali. Ciò perché la crudeltà, concettualmente presuppone l'assenza di un giustificato motivo del soggetto agente: la disumanità è di per sé caratterizzata dall'assenza di una causa proporzionata o dalla spinta di un motivo intollerabile.
Rientrano nella fattispecie le condotte che si rivelino crudeli in quanto espressione di significativa insensibilità umana. Comportamento questo che non necessariamente richiede il preciso scopo di infierire apertamente sull'animale. Devesi aggiungere che determinare sofferenza non comporta necessariamente che si cagioni una lesione all'integrità fisica dell'animale, potendo la sofferenza consistere in meri patimenti interiori dello stesso. Infine la Corte stigmatizza la forza dell'arresto ermeneutico con il rigetto della richiesta, avanzata dal difensore dell'imputato, di esclusione della punibilità per supposta particolare tenuità dei fatti.
L'Unione Sarda, 8 maggio 2019
A Is Arenas 4 detenuti su 5 sono stranieri. Alcune delle carceri sarde sono ancora in stato di "sofferenza" o "sovraffollate". A tracciare un quadro della situazione degli istituti penitenziari dell'Isola è Maria Grazia Caligaris, presidente dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme", che analizza i dati diffusi dal Ministero della Giustizia sulla realtà detentiva al 30 aprile 2019. "La Casa Circondariale Ettore Scalas di Cagliari-Uta continua a avere un numero di persone private della libertà oltre il limite regolamentare. Conta infatti 572 persone per 561 posti, 26 donne e 134 stranieri (23,4%)", afferma Caligaris.
Anche a Oristano "la situazione non è rosea", sottolinea, con 266 detenuti per 265 posti, mentre è "al limite della capienza" il San Daniele di Lanusei (33 per 33). Situazione nella norma invece per i carceri di "Badu 'e Carros" di Nuoro (215 reclusi per 377 posti, con una sezione di 140 post chiusa per lavori di ristrutturazione), di "Giovanni Bacchiddu" di Sassari (421 detenuti per 454 posti), di Nuchis-Tempio Pausania (144 presenti per 168 posti) e "Giuseppe Tomasiello" di Alghero (119 per 156).
"Vi è infine da segnalare - sottolinea la presidente dell'associazione - il sottoutilizzo delle colonie penali: a fronte di 692 posti disponibili sono occupati poco più della metà (372 pari al 53%) con una presenza di stranieri pari a 270 (72,5%). La percentuale più significativa di persone prevalentemente extracomunitarie spetta a "Is Arenas", con 76 stranieri su 96 detenuti (79%), seguita da Mamone 142 su 183 (77,5%). Al terzo posto Isili 52 su 93 (55,9%). "È infine ancora irrisolto il problema dei direttori. La pianta stabile attuale è di 5 responsabili per 10 istituti con una organizzazione che vede prevalere i commissari nella gestione delle strutture penitenziarie isolane", ha concluso Caligaris.
- Marche: carceri, approvata all'unanimità mozione su carenze organico e strutturali
- Siena: "Fuori dal buio". le storie dei detenuti, tra sogni e errori
- Torino: il carcere al Salone del Libro, un evento per ridare dignità ai detenuti
- Catania: "Liberaci dai nostri mali", la speranza degli uomini dietro le sbarre
- Padova: i detenuti sul palco con lo spettacolo su Babele