di Susanna Ronconi e Maria Stagnitta
Il Manifesto, 8 maggio 2019
La 26esima Conferenza Internazionale sulla Riduzione de Danno, che si è appena chiusa a Porto, ha levato una voce fortissima contro le politiche globali, a fronte di cifre, storie, immagini da tutto il mondo che dicono di una irrinunciabile urgenza di cambiamento. Per avere un'idea della 26esima Conferenza Internazionale sulla Riduzione de Danno (RdD) che si è appena chiusa a Porto, è utile leggere il documento siglato da 329 associazioni, in cui - non certo per la prima volta - il mondo della Riduzione del Danno (RdD) invoca una riforma radicale delle politiche globali, ma che per la prima volta dice senza mezzi termini che è colma la misura per quanto concerne il governo globale delle droghe: l'UnoDc non può più esserne il regista. Perché è una agenzia di lotta al crimine, e perché sotto la sua guida continua da decenni il massacro della war on drugs.
La regìa passi al Segretario generale oppure a un pool di agenzie Onu (UnAids, Oms, Unhchr, per esempio). La conferenza è stata una voce fortissima contro le politiche globali, a fronte di cifre, storie, immagini da tutto il mondo che dicono di una irrinunciabile urgenza di cambiamento: dagli omicidi extragiudiziali nelle Filippine, alla crisi dell'Aids nei paesi che non hanno nel tempo sviluppato buone politiche di RdD, fino alla crisi del fentanyl negli Stati uniti, dove si cerca di risalire dai guasti della guerra alla droga. E mai come in questa conferenza - la più affollata di sempre, secondo Harm Reduction International, con oltre 1200 delegati di 90 paesi si è dimostrato come la RdD sia l'alternativa strategica all'attuale impianto proibizionista: plenarie e sessioni specialistiche hanno declinato con grande evidenza la doppia natura della RdD, politica e paradigma, da un lato, e pratica concreta dall'altro.
Due facce inscindibili che ne sono la forza, due dimensioni di uno stesso approccio che a Porto hanno ritrovato - e non sempre è stato così evidente - la loro coesione. Decriminalizzare e rispettare i diritti umani e insieme governare socialmente il fenomeno e i rischi che porta con sé con efficacia: è possibile, è realistico. L'esempio è rappresentato proprio dalla crisi del fentanyl: una molecola pericolosa, è vero, ma che si nutre di un sistema impreparato e della retorica proibizionista.
Con una rinnovata spinta dal basso - quella grazie a cui la RdD è nata e si è evoluta, del resto - si costruiscono modalità concrete di intervento: hanno preso parola, a Porto, decine e decine di esperienze, modelli e valutazioni su stanze del consumo, drug checking, distribuzione comunitaria del naloxone, accesso ai servizi, valorizzazione delle reti dei consumatori, che disegnano una strategia possibile e vincente. Ma che, al tempo stesso, non smettono di mettere all'angolo la politica, perché è il contesto punitivo il primo "imprenditore della sofferenza".
Tra i tanti temi di una conferenza partecipata, accesa nei toni e ricca di storie ed evidenze insieme, ne citiamo due. I diritti umani: declinati non più nella maniera retorica che abbiamo sentito dai governi alla riunione delle Nazioni unite a Vienna, ma con la "pretesa" politica della esigibilità, e come elemento-guida delle politiche globali; parole rimbalzate dalle storie dei morti ammazzati delle favelas brasiliane alla limpida esposizione di Michelle Bachelet, capo Unhachr.
E poi il protagonismo delle persone che usano sostanze, con un salto di qualità: non solo "gruppo di interesse" che porta le sue rivendicazioni - anche, ed è importante - ma soggetto attivo e trasversale a tutti gli ambiti, portatore di competenze. Diritti e saperi, insomma. Un esempio, la ricerca. Molte sessioni ad essa dedicate hanno incluso i consumatori, che rifiutano di essere oggetto di studio e rivendicano un protagonismo attivo e competente.
di Riccardo Noury
Corriere della Sera, 8 maggio 2019
Nei primi tre mesi del 2019, secondo l'organizzazione non governativa brasiliana Imazon, sono andati perduti 12 chilometri quadrati di foresta amazzonica, con un aumento del 100 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. Eppure era la stagione delle piogge, quella in cui entrare in quei territori è più difficile. Ora che è alle porte la stagione secca, Amnesty International ha denunciato il rischio di violenti scontri se il governo non proteggerà le terre tradizionali dei popoli nativi in Amazzonia dalle crescenti appropriazioni illegali e dai disboscamenti da parte di invasori armati.
Il mese scorso Amnesty International ha visitato tre territori del Brasile settentrionale: Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau nello stato di Rondônia e Arara nello stato di Pará. L'organizzazione per i diritti umani ha anche incontrato rappresentanti del governo, pubblici ministeri ed esponenti di organizzazioni non governative. Secondo le organizzazioni non governative e le autorità, a invadere armi in pugno le terre dei popoli nativi sono persone incoraggiate e aiutate da politici e aziende agricole locali a occupare terreni e a vendere il legname. I leader nativi dei tre territori visitati da Amnesty International hanno denunciato alle autorità recenti appropriazioni illegali di terreni e disboscamenti.
La risposta del governo è insufficiente. La sorveglianza delle terre native dipende in larga parte dal coordinamento tra vari organismi governativi. La Fondazione nazionale degli indigeni del Brasile (Funai) non ha poteri di polizia e dipende dal sostegno di altre istituzioni, come l'Istituto brasiliano per l'ambiente e le risorse naturali rinnovabili (Ibama) e la Polizia federale. Secondo gli esperti incontrati da Amnesty International, negli ultimi mesi le operazioni di sorveglianza sono diminuite a causa di problemi di bilancio.
Tra gennaio e aprile 2019 la Procura federale ha inviato almeno quattro lettere al ministero della Giustizia e a quello delle Donne, della Famiglia e dei Diritti umani (da cui, dal gennaio 2019, dipende la Funai), denunciando il peggioramento della situazione di sicurezza nei territori Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau, paventando il rischio di un conflitto e sollecitando l'intervento della Forza di sicurezza nazionale in attesa di un piano di protezione a lungo termine. I due ministeri finora non si sono coordinati con la Forza di sicurezza nazionale per proteggere i territori Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau e del piano a lungo termine non si parla. Proteggere i diritti dei popoli nativi non solo è doveroso ma è anche fondamentale per lottare contro il cambiamento climatico. Infatti, quando le foreste vengono distrutte o date alle fiamme, il carbone che conservano viene rilasciato nell'atmosfera principalmente sotto forma di emissioni di diossido di carbonio.
di Emanuele Giordana
Il Manifesto, 8 maggio 2019
Arrestati nel 2017 con l'accusa di violazione del segreto di Stato, Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano pubblicato le prove di una strage di rohingya compiuta dall'esercito birmano. Wa Lone e Kyaw Soe Oo, i due giornalisti birmani della Reuters arrestati nel 2017 e condannati a sette anni di carcere l'anno scorso, sono liberi. La mossa a sorpresa è una delle rare buone notizie che arrivano dal Myanmar e si accompagna a una decisione dell'ufficio del presidente Win Myint di procedere in occasione dell'anno nuovo (iniziato a metà aprile) a un'amnistia generale per oltre 6.500 prigionieri. Cui è seguito il perdono per i due reporter.
Le foto li ritraggono felici e sorridenti. Entrambi hanno famiglia e uno ha una figlia nata mentre il padre era dietro le sbarre. I due giornalisti, che per la loro indagine su una strage di rohingya hanno ricevuto il Pulitzer nel 2018, hanno passato in carcere più di 500 giorni e avevano forse perso le speranze dopo il rigetto in gennaio del ricorso presentato dai loro legali a fronte della condanna in primo grado nel settembre 2018 a sette anni per violazione del segreto di Stato.
Wa Lone e Kyaw Soe Oo non avevano partecipato all'udienza in cui il giudice aveva sostenuto che la difesa non era stata in grado di dimostrare la loro innocenza e che la punizione comminata era "adeguata" al crimine. Ora i due giornalisti finalmente liberi dicono che continueranno a fare il loro mestiere.
Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano raccolto prove dirette (poi messe assieme dai colleghi della redazione centrale) sui crimini commessi da Tadmadaw (l'esercito) nello Stato del Rakhine da cui, nell'agosto 2017, i militari hanno costretto alla fuga oltre 700mila rohingya, la minoranza musulmana della regione quasi completamente trasferita in Bangladesh in campi profughi che sono ormai una città.
Furono arrestati con una trappola: avevano incontrato degli agenti che gli avevano messo in mano dei documenti mentre la polizia aspettava quel momento per arrestarli con la prova di una violazione del segreto di Stato. Wa Lone e Kyaw Soe Oo avevano raccolto prove in particolare su una strage compiuta dall'esercito birmano nel villaggio di Inn Din, nel nord del Rakhine nel settembre 2017. Si tratta a oggi dell'unica strage ammessa (in seguito) dai generali birmani. La loro condanna aveva sollevato polemiche, reazioni e proteste ma il Myanmar non aveva mai mostrato alcun segno di marcia indietro. Poi ieri la buona notizia.
Intanto nel Rakhine non è solo la comunità rohingya, ormai ridotta all'osso e in gran parte sfollata, a soffrire degli esiti di una guerra contro le minoranze e che vede sulla scena negli ultimi mesi l'Arakan Army, formazione armata il cui scopo è la protezione della minoranza arakanese (e buddista) del Rakhine.
Il governo dello Stato ha chiesto al governo dell'Unione 20 milioni di dollari per un rifugio per gli oltre 30mila sfollati in fuga dai combattimenti ripresi a gennaio tra AA e Tatmadaw. Gli sfollati, sostenuti da gruppi locali della società civile e monaci, hanno sollecitato il governo statale a fornire aiuti e riparo a chi fugge da una delle tante guerre del Paese.
di Damiano Aliprandi
Il Dubbio, 7 maggio 2019
La figlia del magistrato ucciso ha partecipato a due incontri in Calabria. Ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano "in quell'inferno del 41 bis", aggiungendo "sapere che c'è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello stato".
di Susanna Ripamonti
huffingtonpost.it, 7 maggio 2019
Proprio in questi giorni, nella casa di reclusione di Milano-Bollate, si è celebrato il matrimonio tra due giovani che si sono conosciuti dietro alle sbarre. Non è la prima volta che succede, i matrimoni in carcere sono abbastanza frequenti e da quando la legge lo consente si celebrano anche unioni civili tra coppie gay: a Bollate è successo già due volte dall'inizio dell'anno. Si tratta di matrimoni "bianchi", che escludono la possibilità di rapporti sessuali, perché le rigide leggi del carcere, che impongono la castità ai detenuti, non ammettono deroghe neppure in queste circostanze.
di Amedeo La Mattina
La Stampa, 7 maggio 2019
Il vicepremier chiederà un rinvio della decisione in Cdm, ma Conte considera già chiuso il caso. La Lega non fa cadere il governo, ma Giorgetti avvisa: "Ora autonomia e flat tax o salta tutto". Matteo Salvini chiederà un rinvio della decisione ma Giuseppe Conte considera già chiuso il caso di Armando Siri. Al Consiglio dei Ministri di domani non ci sarà una conta.
Il premier comunicherà la sua volontà di revocare l'incarico al sottosegretario leghista. "Vedrete - ha detto ai giornalisti - mercoledì mattina troveremo una soluzione e si ricomporrà tutto. Non succederà nulla di così clamoroso. Il percorso è stato molto chiaro, molto trasparente e quindi non ci può essere nessuna sorpresa".
L'ottimismo del premier è di maniera perché sa che sul suo ruolo rimarrà una macchia: per i leghisti Conte si è schierato con i 5 Stelle, non è più super partes, un arbitro. Ma lo stesso presidente del Consiglio spiega di non avere mai accettato di fare l'arbitro, "ma di fare il premier, che è concetto ben diverso". In sostanza, un premier che decide sulla base delle sue convinzioni. Per la Lega invece si è piegato al diktat di Luigi Di Maio e alle esigenze della campagna elettorale di M5S. Ma cosa farà Matteo Salvini e gli altri ministri del Carroccio?
Andranno al Consiglio dei ministri per esprimere il loro dissenso, ma alla fine prenderanno atto della decisione del premier, aprendo una fase di conflittualità serrata sulle questioni economiche, sullo sblocca-cantieri, sull'autonomia regionale, la riduzione delle tasse a famiglie e imprese. "I giornalisti mi dicono: "mercoledì c'è un consiglio dei ministri sulle dimissioni di Tizio di Caio".
Quello mi interessa poco, per me mercoledì è una giornata importante perché vengono al Ministero dell'Interno le principali comunità di recupero dei tossicodipendenti perché voglio una legge che metta in galera gli spacciatori il giorno in cui vengono beccati". Ma Salvini non si limiterà ad ascoltare. Dirà che la decisione presa da Conte non è stata concordata, discussa, è unilaterale. Non c'è stata nemmeno l'accortezza di aspettare che Siri incontrasse i magistrati. Insomma, nemmeno l'onore delle armi.
Conte e Di Maio fanno un altro ragionamento: dicono che comunque del sottosegretario non si fidano più perché aveva spinto su un emendamento per favorire non l'interesse generale ma quello di un imprenditore, Paolo Arata, in società con Vito Nicastri, accusato di essere vicino alla mafia. Salvini però insisterà, chiederà di rinviare la decisione, di attendere l'incontro di Siri con i magistrati, ben sapendo che un rinvio verrà concesso.
Intanto, non ha chiesto a Siri di dimettersi, almeno fino a ieri. Nella Lega finora tutti escludono che possa chiederglielo per evitare di arrivare al Consiglio dei ministri con una situazione di stallo. In ogni caso, il ministro dell'Interno non aprirà una crisi di governo sul caso Siri. "Il governo va avanti - avverte Giancarlo Giorgetti - se sarà in grado di fare bene le cose che abbiamo promesso di fare. Il governo è a rischio se non fa le cose che ha promesso di fare. Dobbiamo confrontarci con gli alleati su quanto ancora c'è da fare", aggiunge Giorgetti, mettendo al primo posto l'autonomia regionale. "Su questo punto e sull'introduzione della flat tax occorre andare avanti".
Ma c'è un aspetto che comincia a venire evidenziato dalla Lega. Una volta preso atto della decisione di Giuseppe Conte e di Luigi Di Maio, emergerà l'anima "giustizialista" dei 5 Stelle. Siri sarà innalzato al ruolo della vittima e Salvini potrà mandare al suo elettorato lo stesso messaggio che in passato mandava Silvio Berlusconi agli elettori del centrodestra quando era lui sulla graticola della giustizia. Lo stesso elettorato che più lo attaccavano e più votava il leader di Forza Italia. Hanno forse questo senso le parole di Giorgetti che parla di "evidente clima persecutorio nei confronti di Siri".
Al sottosegretario viene pure contestato un mutuo, ricorda Salvini: "Allora è un reato che stanno compiendo milioni di italiani. Io sono tranquillo, possono aprire tutte le inchieste che vogliono". Poi il capo della Lega aggiunge che "i processi sono troppo lunghi, bisogna cambiare". "Ed io penso che anche i giudici come tutti i lavoratori se sbagliano devono pagare", afferma Salvini durante il comizio in piazza Portanova a Salerno. Messaggi chiari e una vittima sacrificale come Siri gli fa pure comodo.
di Paolo Mancuso
La Repubblica, 7 maggio 2019
"Belve" tuona il cardinale Sepe, ai killer di piazza Nazionale; "medioevo della sicurezza" definisce la situazione napoletana il procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho; "è una guerra", è l'analisi di Isaia Sales: tre persone che sanno quello che dicono, che conoscono Napoli, la sua antropologia, la sua criminalità, la sua condizione umana. Ma allora, se di guerra si tratta, se dall'altra parte c'è un vero e proprio nemico, sappiamo tutti che al fronte si possono decidere le battaglie, ma non è lì che si decidono le sorti di una guerra.
Le sorti di una guerra le decidono le retrovie: la capacità produttiva del Paese, lo spirito del suo popolo, la fiducia nella sua classe dirigente, la saggezza del suo governo. E allora, fuor di metafora, ben vengano più poliziotti, (non più esercito, per l'amor di Dio: mi domando cosa avverrà quando un soldato vedrà una scena come quella di piazza Nazionale: sparerà fra la folla? Rimarrà inerte? O quando un ragazzotto, arma in pugno, attratto da quella di un soldato... ma lasciamo stare).
Ben vengano telecamere, moderne tecnologie di controllo, interventi di attacco sperimentati in altri tempi, quali quelli delle perquisizioni "di caseggiato", invocati sempre da Cafiero. Serviranno ai magistrati, alle squadre mobili della polizia, ai nuclei investigativi dei carabinieri e della Finanza per migliorare la loro già straordinaria capacità d'intervento, dimostrata dai fermi che hanno già fatto seguito, dopo pochi giorni, alle sparatorie di piazza Plebiscito o di San Giovanni. Ma ormai lo sappiamo, non è lì che si vince la guerra.
E il primo a non capirlo è proprio il nostro ineffabile ministro dell'Interno quando, dopo il grave ferimento della piccola Noemi, afferma "sto pregando per la bimba napoletana che è finita dove non doveva. I camorristi si ammazzino tra di loro senza rompere le palle alle persone che non c'entrano". A prescindere dalla considerazione che la bimba era esattamente dove "doveva" essere, cioè in un piccolo parco giochi a due passi dal cuore della Giustizia napoletana, il suo esibito cinismo porta Salvini fuori strada, quando fa intendere che ci possano essere morti "buoni" e morti "cattivi".
Intendiamoci, possono esserci, e ci sono, persone innocenti colpite per errore o per vendetta, e le ricordiamo con dolore e commozione, una per una, E ci possono essere, e ci sono, criminali colpiti per vendetta o per "farsi largo". Ma non possiamo non pensare che ogni morte è una tragedia: possiamo avere graduatorie istintive nel nostro cuore, ma la nostra mente deve tenere presente questo: che ogni morte è una tragedia.
Non possiamo ignorare che ogni morte "colpevole" porta con sé una striscia di sangue che significa la miseria di una famiglia, figli che crescono con il desiderio della vendetta ed il mito della violenza, degrado civile, rivalità per prendere il posto lasciato vacante da chi è caduto, e così via. Il sangue chiama sangue. Ferito un suo gregario, forse che il clan Rinaldi non avrà la forza di rimpiazzarlo, ed a sua volta andare ad aggredire quello dei Mazzarella, in un gioco antico e perverso, cui farà seguito la faccia pulita e severa della repressione?
Ma non è così, lo diciamo da tempo, magistrati, forze dell'ordine, intellettuali, preti, insegnanti, non è così che si vince la guerra: il lavoro da fare è nelle retrovie. Più difficile, molto più difficile, occorrerà spiegarlo alla rozzezza delle parole di quel nostro ministro, ma anche all'inerzia, alla passività, all'inconcludenza dei nostri governanti.
Il lavoro da fare è altro: è nelle nostre strade, dove deve ricostruirsi un clima di rispetto delle regole ormai desueto, nei nostri ospedali, dove devono ricostruirsi rapporti di fiducie fra paziente e medico, nelle nostre istituzioni, dove chi ha la responsabilità dei territori (Comune, Città metropolitana o Regione che sia) ha il dovere di unire le proprie forze e mostrare ai cittadini un'azione connessa, efficace e coerente, ma soprattutto nelle nostre scuole, dove va curata la disaffezione e l'abbandono dei giovani, e dove i nostri insegnanti devo sentire accanto a loro la fiducia e la vicinanza nostra, di tutti i cittadini, nel lavoro duro e coraggioso che svolgono quotidianamente.
Una fiducia ed una vicinanza che si dovranno esprimere, da domani ancor più di oggi, non solo a parole, ma con azioni di volontariato, di partecipazione, di collaborazione a tutte ed a ciascuna delle iniziative che i nostri insegnanti, tanto più nelle "aree di frontiera", mettono ogni giorno in campo. E con il riconoscimento sociale e politico del loro ruolo e di quello della cultura: di quella cultura, e in questo caso della cultura della legalità, che essi sono chiamati a rappresentare ed a trasmettere ai giovani. Sola azione decisiva per vincere "la guerra".
di Antonio Mattone
Il Mattino, 7 maggio 2019
Mentre la piccola Noemi lotta tra la vita e la morte, la città torna alla sua normalità ancora frastornata dalla terribile sparatoria di piazza Nazionale. L'ennesimo evento tragico che ha colpito la vita fragile di un minore, conferma una bruciante verità: a Napoli l'infanzia è violata. Ancora una volta, e nulla lascia presagire che non accadrà più.
E nel momento in cui e vengono riposti gli striscioni della manifestazione di domenica mattina per tornare alla vita di tutti i giorni, va ricordato che l'inferno di fuoco che si è abbattuto venerdì in una strada del centro è solo la punta di un iceberg, al di sotto del quale c'è una violenza diffusa ma ci sono anche una serie di intrecci e attività criminali presenti in molti quartieri e ambiti cittadini.
Un sottobosco di trame, di piccole e grandi connivenze e di omissioni che danno linfa e prestigio alla malavita e che riguardano cittadini e istituzioni.
Sappiamo che il controllo del territorio viene esercitato attraverso attività illecite come il racket o il parcheggio abusivo a cui si rivolgono molti automobilisti per posteggiare la propria vettura. Ci sono delle zone che sono delle vere e proprie enclave dove non è possibile sostare senza pagare il pizzo. E sappiamo che alcune di queste piazze godono della più totale impunità. I vigili urbani non si vedono mai, sono un vero miraggio. Bisogna dire con chiarezza che sottostare ai parcheggiatori illegali equivale a finanziare e sostenere la malavita.
Così come ci sono gli appartamenti occupati abusivamente dalle famiglie camorriste, se non addirittura dati in affitto da enti morali. Una commistione tra legale e illegale che permette ai clan di accreditarsi e di imporsi sotto gli occhi di tutti e che tanti fanno finta di non vedere.
E poi ci sono le grandi corruttele, le infiltrazioni mafiose nelle aziende e nelle istituzioni. Solo un mese fa il Procuratore capo Gianni Melillo lanciava l'allarme della presenza di fiduciari dei clan nelle imprese. Un tema assente nel dibattito pubblico che varrebbe la pena di approfondire. Le dichiarazioni del ministro degli Interni Matteo Salvini sul trend positivo dei dati sulla sicurezza destano sconcerto dopo gli avvenimenti che stanno insanguinando la città. "È stato come curare un ferita da arma da guerra" ha detto il medico che ha operato la bambina. Vogliamo comprendere che questa escalation di violenza non risparmia gli innocenti come avviene in una guerra?
Forse ha ragione il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho quando dice che "per la politica la camorra non è una priorità".
L'encomiabile opera delle forze dell'ordine non basta per debellare i clan, né serve qualche poliziotto in più per rivoltare la città e per stanare i malavitosi.
Ma c'è stato un altro fatto che è emerso durante la manifestazione di domenica. Il figlio di un boss ha preso le distanze dal padre in modo pubblico con una chiarezza esemplare. Un fatto nuovo che viene da un giovane e che può rappresentare una inaspettata iniezione di speranza, una presa di posizione che ha spiazzato un po' tutti. Un gesto che può avere una grande valenza sia sui figli degli altri camorristi che sui giovani della città.
Questo gesto ha bisogno di essere sostenuto non solo esprimendo una sacrosanta indignazione nelle manifestazioni, ma richiede scelte quotidiane di altrettanta presa di distanza dal malaffare, quello piccolo e quello grande. C'è bisogno di una ribellione morale dal basso che stani quella zona grigia apparentemente innocua ma che crea più danni di quanto possiamo pensare, perché entra nelle pieghe e nella mentalità del vivere di tutti i giorni.
Una città che si indigna ma che poi accetta tante situazioni che possono sembrare normali ma che invece sono impastate di illegalità,è una comunità complice, che tentenna e cede ai suoi rituali più meschini. Il killer ripreso dalle videocamere di sorveglianza appare goffo, insicuro, non esperto nel maneggiare la pistola, eppure capace di seminare violenza e terrore. Forse l'agguato non è stato causato da motivi legati alla lotta tra i clan, ma da vicende personali. Saranno le indagini a chiarirlo. Tuttavia a Napoli bisogna dire con chiarezza che esiste una emergenza criminalità che va affrontata.
Nei frammenti del filmato si intravede anche la piccola Noemi, che distesa in un angolo della strada alza il braccio per due volte, mentre chi gli ha sparato le passa accanto senza preoccuparsi minimamente di lei. Quella mano per terra che chiede aiuto è stata raccolta da un giovane coraggioso che non vuole rassegnarsi alla violenza. Neanche a quella della sua famiglia. E ci spinge a lottare perché ai bambini di Napoli non venga più rubata l'infanzia.
di Alessandra Ziniti
La Repubblica, 7 maggio 2019
Come nel caso del giovane che ha manifestato a Napoli sono molti gli eredi di famiglie malavitose che rinnegano i clan. Francesca ha 28 anni e suo padre lo hanno portato via da casa che lei ne aveva uno. "Sono figlia di un ergastolano - dice - e come sono cambiata io anno dopo anno così è cambiato lui. I nostri padri cambiano perché noi figli ci abbiamo messo la faccia".
di Gaetano Azzariti
Il Manifesto, 7 maggio 2019
Su legittima difesa o diritti degli stranieri, le istituzioni di garanzia fanno sentire la loro voce. Mancano soggetti politici attivi in grado di ribaltare egemonie culturali diffuse. Per cambiare il merito delle politiche securitarie, non possiamo confidare sulle decisioni dei giudici o sui moniti del Presidente della Repubblica. Le istituzioni di garanzia fanno sentire la loro voce. Il Presidente della Repubblica promulgando con riserva la legge sulla legittima difesa, i giudici ordinari facendo venir meno il divieto di iscrizione all'anagrafe per gli stranieri. Entrambi in difesa della superiore legalità costituzionale.
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