Italia Oggi, 3 agosto 2018
Certificati del casellario selettivi a disposizione della pubblica amministrazione: conterranno le informazioni pertinenti al singolo procedimento. Passa a cento anni il termine cancellare le condanne dalla fedina penale, mentre i carichi sono eliminati alla morte dell'interessato. È quanto prevede uno schema di decreto legislativo approvato ieri dal consiglio dei ministri in via preliminare, che unifica in un unico modello (certificato "del casellario") i tre tipi di certificati attualmente previsti (generale, penale e civile).
Il provvedimento attua la legge delega 103/2017 e dispone la revisione della disciplina del casellario giudiziale. Il provvedimento interviene su diverse materie e il filo rosso è quello della minimizzazione delle informazioni relative a episodi negativi sul conto delle persone. Ci sono interessi confliggenti: quello alla conoscenza delle notizie su gravi fatti di allarme sociale e quello alla possibilità di rifarsi una vita.
Lo schema di decreto legislativo stabilisce nuovi equilibri, A favore della rieducazione e del reinserimento si pongono alcune disposizioni sulla eliminazione sul non inserimento di alcuni provvedimenti giudiziali che hanno un connotato fortemente demenziale. L'altro aspetto, che si pone in questa scia, è la scelta di fare certificati ad hoc in relazione alle verifiche che la pubblica amministrazione è chiamata a fare, di volta in volta, sulla onorabilità delle persone: qui si limita la circolarità delle notizie a quelle rilevanti per accertare un particolare spettro di moralità in relazione alle esigenze di un particolare procedimento. Vediamo più analiticamente le disposizioni del provvedimento approvato in prima lettura dal governo.
Tempo limite - Si interviene sui tempi di conservazione massima dei dati. Quelli relativi ai carichi pendenti vengono tenuti fino alla morte della persona. I dati relativi alle condanne, invece, sono conservati per cento anni dalla nascita. Non è una diminuzione, anzi è una dilatazione dei tempi (attestati oggi agli ottanta anni di età dell'interessato), che, però è stato scelto in quanto. Così facendo, ci si allinea agli altri ordinamenti europei.
Certificati selettivi - Si distinguono in casi in cui la pubblica amministrazione ha necessità del casellario generale: questo capita quando non è possibile individuare a priori le iscrizioni rilevanti e pertinenti rispetto a un determinato procedimento amministrativo. In tale caso la pubblica amministrazione procedente continuerà ad acquisire il certificato generale. Negli altri casi, invece, le pubbliche amministrazioni possono ottenere solo il certificato elettivo, che riporta le sole iscrizioni pertinenti alle singole finalità perseguite nello specifico procedimento. L'accertamento della moralità selettiva implica una diminuzione dell'effetto negativo delle iscrizioni al casellario e costringerà anche a verificare, caso per caso, quali siano le informazioni rilevanti. Le innovazioni previste sono anche di carattere organizzativo, in quanto si prevede che le pubbliche amministrazioni potranno avere accesso diretto e gratuito previa stipulazione di una convenzione con il ministero della giustizia.
Eliminazioni - Si eliminano dal casellario giudiziale i provvedimenti di minor disvalore e cioè quelli applicativi della non punibilità per tenuità del fatto. Nel caso specifico il fatto particolarmente tenue merita una clemenza giudiziale, che viene estesa anche alle conseguenti iscrizioni negative nel casellario. Lo schema di decreto legislativo esclude dalla iscrizione nel casellario anche i provvedimenti relativi alla messa in prova dell'imputato. Esclusa l'iscrizione anche in caso di rescissione del giudicato.
Certificato unico - Si individua un unico tipo di certificato che unifica i tre tipi attualmente previsti: generale, penale e civile. Il certificato unico si chiamerà semplicemente "certificato del casellario".
Avvertenza Ue - Nel certificato va inserita un'avvertenza per indicare se esistano condanne in ambito europeo. Questo per la completezza delle certificazioni.
di Sara Volandri
Il Dubbio, 3 agosto 2018
Il Papa cambia il Catechismo della Chiesa Cattolica. la battaglia per l'abolizione in tutto il pianeta. fino ad oggi il vaticano ammetteva il ricorso al boia di stato per i "casi estremi". Il rifiuto della pena di morte ora si fa catechesi e ricongiunge la dottrina della Chiesa con il buon senso dei Vangeli.
L'intervento di Papa Francesco contro le esecuzioni capitali nel mondo ha un'importanza storica proprio perché non è soltanto faltus vocis. Al contrario presuppone una modifica in calce al testo del Catechismo della Chiesa Cattolica che sarà poi tradotta nelle diverse lingue e inserita in tutte le edizioni. L'ultima edizione del 1992 non escludeva il ricorso al boia di Stato per i "casi estremi". Ora nessuna eccezione alla regola, la vita umana deve essere preservata e difesa in ogni caso.
Non solo il rifiuto della primitiva legge del taglione, non solo il rispetto del Quinto comandamento ("Non uccidere!"), non solo l'idea che l'uomo (o lo Stato) non può sostituirsi al Dio creatore decretando la morte dei suoi simili, l'idea di Francesco è soprattutto politica e la sua strategia è "attiva". Il Vaticano vuole in tal senso lottare per una moratoria mondiale della pena di morte, è un suo obiettivo concreto e per raggiungerlo eserciterà tutta l'influenza di cui dispone. Già nel 2015, durante il papa argentino, in un toccante discorso pronunciato nella "tana del lupo" e cioè al Congresso degli Stati Uniti paese fieramente anti- abolizionista, condannò con fermezza la pena capitale, annunciando l'impegno del suo magistero per abolirla ovunque nel pianeta.
Molto dettagliate le parole di Bergoglio: "Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi". La dignità della persona non viene dunque perduta neanche di fronte al più efferato dei crimini, un concetto che verrà normato dalla Congreazione per la Dottrina della Fede.
"La Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che la pena di morte è inammissibile - prosegue Bergoglio - perché attenta all'inviolabilità e dignità della persona e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo".
Finora l'insegnamento tradizionale della Chiesa non escludeva in modo assoluto il ricorso alla pena di morte. È per questo motivo che Papa Francesco ha auspicato che il Catechismo venga modificato. Il punto in questione era il 2267: "L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani".
Questa formulazione era stata chiesta esplicitamente alla Santa Sede dal rappresentante dell'Episcopato del Cile nel Comitato di redazione del Catechismo, come aveva poi rivelato l'allora cardinale Joseph Ratzinger. In realtà il Concilio di Trento, nel suo Catechismo, ripreso dal Catechismo maggiore di Pio X, diceva che è lecito uccidere quando si combatte "una guerra giusta" e quando "quando si esegue per ordine dell'autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto".
Lo stesso Stato del Vaticano prevedeva la pena capitale fino alla prima abolizione de facto, ma non de jure da parte di Paolo VI. Fu papa Wojtyla che, con l'enciclica motu proprio nel febbraio 2001, che abolì in modo definitivo l'estremo supplizio dalla Legge fondamentale vaticana.
di Giovanna Casadio
La Repubblica, 3 agosto 2018
E riemergono le differenze sulla linea Minniti. Il voto è previsto all'inizio della prossima settimana. A chiedere di schierarsi contro è stato per primo il presidente Matteo Orfini. Intanto il partito presenta tre emendamenti.
A prendere la parola per chiedere di votare contro le motovedette alla Libia, a meno che non ci siano garanzie sui diritti umani, è stato Matteo Orfini. Il presidente del Pd del resto aveva già motivato il suo no in un articolo su Avvenire, il quotidiano dei vescovi.
E oggi nella riunione del gruppo del Pd della Camera, che si appresta a votare il decreto motovedette a inizio della settimana prossima, la discussione si è accesa e ha diviso i dem. Da un lato i contrari al sì su quelle 12 motovedette che Matteo Salvini ha promesso alla Libia, dall'altro chi ha ricordato che non si può smentire la posizione già assunta al Senato.
A Palazzo Madama infatti i senatori dem hanno votato a favore. Piero Fassino lo ha ricordato. Anche Dario Franceschini ha posto il problema. Pur sottolineando le criticità del decreto, e insistendo affinché si denuncino in aula le politiche del governo sui migranti, l'ex ministro dei Beni culturali ha ricordato che un comportamento difforme del Pd tra Senato e Camera non sarebbe opportuno.
Ma un fronte ampio e trasversale, dai cattolici alla sinistra del partito, è sulle barricate. Lia Quartapelle, la responsabile Esteri della segreteria, ha ammesso che alla luce della vicenda di Asso 28 - la nave italiana che ha soccorso in mare 108 migranti riportandoli poi in Libia su indicazione della guardia costiera libica - occorre un di più di cautela. Orfini ha ribadito che forse i compagni senatori hanno sottovalutato il voto. A Palazzo Madama contro si erano schierati solo i senatori di Leu e Emma Bonino.
"Non c'è più nessun tipo di garanzia, per Salvini si tratta di armare i libici e lasciare nelle loro mani i migranti: noi non possiamo accettarlo". Ha ripetuto Orfini. Giuditta Pini è anche lei per il no al decreto. Graziano Delrio, il capogruppo, ha mediato: se la maggioranza non accetta i nostri emendamenti, potremmo astenerci. Delrio è un cattolico, dossettiano. Quando Marco Minniti, ministro dell'Interno del centrosinistra, propose di chiudere i porti, Delrio, allora responsabile delle Infrastrutture, disse di no. Intanto il Pd ha preparato tre emendamenti. Uno di questi prevede che l'ok alle motovedette sia subordinato alla presenza di organismi internazionali sulle navi della Guardia costiera libica e nei campi profughi libici. Inoltre si chiede che il governo libico ratifichi la convenzione di Ginevra.
I Dem si augurano che "nelle orecchie dei grillini qualcosa risuoni" e che alcune modifiche possano essere accolte, aprendo una falla nella maggioranza gialloverde. Nel Pd non si vuole sconfessare la politica che fu di Minniti e quindi di aiuto della Libia, ma dall'altro non si può offrire sponda a Salvini. Per Leu invece, con Laura Boldrini in testa, il decreto motovedette è inemendabile: da bocciare. Domani il decreto potrebbe sbarcare nell'aula di Montecitorio o slittare a lunedì.
di Fabio Martini
La Stampa, 3 agosto 2018
Dal pianista Pollini all'architetto Gregotti, appello contro "il pensiero unico" del rancore. Non è il solito appello degli intellettuali "fiancheggiatori", uno di quei documenti scritti dai partiti (di solito di sinistra) e puntualmente sottoscritti da registi, scrittori, pittori e architetti.
Nei prossimi giorni inizierà a circolare qualcosa di molto diverso, un appello scritto da undici uomini di cultura, politicamente non sovrapponibili, nel quale si denuncia la "spirale distruttiva" nella quale si starebbe avvitando il Paese; il rischio di un nuovo "pensiero unico" all'insegna del rancore; la possibilità che sia proprio l'Italia a dare la spallata decisiva ad una costruzione europea in atto da più di mezzo secolo.
In definitiva una chiamata alle armi intellettuali contro il rischio del "più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale", che potrebbe manifestarsi alle elezioni europee del 2019. È un documento scritto da intellettuali di diverso orientamento culturale, Accademici dei Lincei come Massimo Cacciari, Michele Ciliberto, Biagio De Giovanni, Enrico Berti. Personalità che rappresentano l'eccellenza nei rispettivi campi. Come l'architetto Vittorio Gregotti. O come il pianista Maurizio Pollini.
E ancora: il filosofo Giacomo Marramao, i compositori Giacomo Manzoni e Salvatore Sciarrino, lo storico Paolo Macry, l'artista Domenico Palladino. L'appello dei "professori" rappresenta l'ultima espressione di un fenomeno recente e tutto italiano: l'emergere, in assenza di un efficace contrasto politico, di una variegata e trasversale "opposizione extraparlamentare" che non ha nulla a che vedere col movimentiamo degli Anni Settanta, o con i Girotondi dei primi Anni Duemila.
Da alcune settimane contro le scelte del governo giallo-verde si stanno accendendo spontaneamente - e con le motivazioni più disparate - diversi soggetti: docenti universitari momentaneamente impegnati in incarichi pubblici come Tito Boeri, personaggi atipici come Roberto Saviano, ma anche gli industriali del Veneto o "Famiglia Cristiana", la più diffusa rivista cattolica italiana.
L'appello dei "professori" - che "La Stampa" è in grado di anticipare - è iniziativa più pensata e strutturata di altre ed ha preso la forma in un documento volutamente breve, che condensa in pochi concetti-guida l'essenza della denuncia. Contro il nuovo corso Si parte da una prima istantanea sulla natura politico-culturale del nuovo corso: "La situazione dell'Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L'alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura - europea e occidentale - dell'Italia" e politiche "gravemente demagogiche".
Il rischio più consistente è che questi linguaggi e queste pratiche, "nella mancanza di una seria opposizione", configurino "una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento". Con un messaggio distorsivo: "Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi".
La concentrazione sul problema dei migranti, "ingigantito oltre ogni limite e gestito con inaccettabile disumanità", acuisce in modo drammatico una crisi dell'Unione europea, che è "sull'orlo di una drammatica disgregazione", alla quale l'Italia sta dando un pesante contributo, "contrario ai suoi stessi interessi".
Per questo è diventata "urgentissima" un'iniziativa che contribuisca a una discussione in vista delle elezioni europee del maggio 2019; in quella occasione si tratterà di contrastare il più vasto schieramento di destra dal 1945 ad oggi e "la responsabilità di chi ha un'altra idea di Europa è assai grande". Conclusione vibrante: "Non c'è un momento da perdere".
La Repubblica, 3 agosto 2018
Il provvedimento sarà pronto entro 90 giorni. L'obiettivo contrastare la discriminazione basata su etnia, sesso, religione e nazionalità nella rappresentazione mediatica: sia nei programma di informazione che di intrattenimento.
Dicono di aver agito per "goliardia" i tre ragazzi italiani identificati come gli aggressori di Daisy. E minimizzare sembra essere la scelta di molti - forze politiche e non solo - in questo momento in Italia. Mentre gli episodi di violenza, le aggressioni, le manifestazioni di odio in Rete si moltiplicano. Ma non sembra pensarla così l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Che invece raccoglie l'allarme. Il Consiglio dell'Agcom ha avviato l'iter per l'adozione di un regolamento - relatori il presidente Angelo Marcello Cardani e il commissario Antonio Nicita - per il rispetto della dignità umana, del principio di non discriminazione e di contrasto all'hate speech. L'obiettivo è quello di contrastare l'istigazione all'odio basato su etnia, sesso, religione o nazionalità nei servizi media audiovisivi. Le nuove regole, da sottoporre a consultazione pubblica, riguarderanno sia i programmi di informazione che quelli di intrattenimento. L'obiettivo è scriverle entro 90 giorni, dopodiché saranno pubblicate sul sito web dell'Autorità.
L'Agcom parte dalla preoccupazione per il clima che emerge nel dibattito pubblico, nel timore che sui flussi migratori possano alimentarsi "posizioni polarizzate e divisive in merito alla figura dello straniero e della sua rappresentazione mediatica". E naturalmente - in questa rappresentazione mediatica - il ruolo del mezzo radiotelevisivo può essere fondamentale. Ecco quindi la necessità, per l'Agcom, di un regolamento "vista la pervasività del mezzo radiotelevisivo e l'importante contributo che l'informazione radiotelevisiva svolge nella formazione di un'opinione pubblica sulla corretta rappresentazione dello straniero, sull'inclusione sociale e sulla promozione della diversità". Regole volte "a prevenire e combattere fenomeni di discriminazione, spesso alimentati da strategie di disinformazione, in contrasto con i principi fondamentali di tutela della persona e del rispetto della dignità umana, in particolare allorquando alimentato da notizie inesatte, tendenziose o non veritiere".
L'Agcom sottolinea, con preoccupazione, gli ultimi dati diffusi dall'Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce): "i crimini generati dall'odio, prevalentemente basati su razzismo e xenofobia, sono quasi raddoppiati nell'arco di un triennio, dal 2013 al 2016, confermando i timori di una possibile correlazione tra la crescente diffusione dei discorsi d'odio (hate speech) sui diversi media e l'incremento di aggressioni concrete e violente, anche se isolate, nei confronti di categorie di persone oggetto di azioni mirate, secondo un preoccupante schema che sembra accomunare, peraltro, i numerosi episodi accaduti negli ultimi mesi, con la ribalta assunta, sui diversi media, dal dibattito pubblico nazionale ed internazionale sul fenomeno dei flussi migratori e delle politiche di soccorso umanitario, accoglienza, integrazione ed educazione alla diversità". Insomma, il contagio del virus dell'odio può moltiplicarsi sui media. Per questo diventa fondamentale intervenire subito e chiedere un supplemento di attenzione ai mezzi di comunicazione di massa.
Redattore Sociale, 3 agosto 2018
Un gruppo di ricercatori dell'Università Bicocca di Milano ha dimostrato, con esperimenti in laboratorio in cui sono stati coinvolti alcuni giocatori, che esiste un rapporto diretto tra la condizione sociale e lo sviluppo della dipendenza dal gioco d'azzardo.
Chi si sente emarginato rischia più degli altri di sviluppare una dipendenza dal giocatore d'azzardo. Una ricerca dell'Università Bicocca di Milano ha dimostrato scientificamente quel che già molti operatori sociali hanno denunciato da tempo.
Secondo i ricercatori questa dipendenza patologica nasce perché "l'isolamento porta a creare delle relazioni parasociali", vale a dire relazioni "che simulano le relazioni fra esseri umani per compensare la mancanza di interazioni con le persone" e "queste relazioni parasociali possono svilupparsi anche con con oggetti inanimati quali le slot machine, cosa che diventa ancor più probabile nel caso vi si attribuiscano qualità umane, come la volontà di decidere gli esiti di gioco". La ricerca è stata curata da Luca Pancani, Paolo Riva e Simona Sacchi, docenti del Dipartimento di Psicologia e gli esiti sono stati pubblicati sulla rivista "Journal of Gambling Studies" con il titolo "Connecting with a Slot Machine: Social Exclusion and Anthropomorphization Increase Gambling".
La ricerca è stata condotta in laboratorio. I ricercatori hanno chiesto ad alcuni partecipanti di giocare con una slot machine on-line. Ed hanno verificato che anche solo ripensare e descrivere una situazione in cui si è provato dolore sociale (ad esempio, circostanze in cui si è stati ignorati o esclusi da altre persone) è condizione sufficiente ad influenzare la successiva interazione con la slot machine, portando a un numero di giocate quasi doppio rispetto a coloro ai quali era stato chiesto di descrivere situazioni in cui avevano provato dolore fisico o un pomeriggio qualsiasi.
L'approccio al gioco cambia, inoltre, anche in base alla percezione che si ha della slot machine. Se viene fatta percepire come un "essere" che interagisce col giocatore e che "decide" se far vincere o meno, la persona gioca di più.
"Nonostante questo sia fra i primi articoli che mostrano l'influenza diretta dell'esclusione sociale sul gioco d'azzardo con una metodologia sperimentale rigorosa - spiega Luca Pancani, ricercatore in Psicologia all'Università di Milano-Bicocca - è già possibile trarre alcune conclusioni in grado di orientare la ricerca futura sul tema.
L'emarginazione resta un problema grave nel nostro Paese: l'Italia detiene il record europeo di slot machine pro-capite, una ogni 143 abitanti, e le caratteristiche estetiche di queste macchine sono già orientate ad indurre una loro maggiore antropomorfizzazione. Questi fattori, alla luce dei risultati del nostro studio, richiedono una forte attenzione al fenomeno sia a livello di ricerca, sia in termini di politiche sociali, in modo da affrontare e contrastare efficacemente il problema del gioco d'azzardo patologico".
di Adriana Pollice
Il Manifesto, 3 agosto 2018
Per giocare alle slot machine sarà necessario inserire la tessera sanitaria, come si fa per acquistare sigarette nei distributori automatici. E sui gratta e vinci comparirà la scritta "nuoce alla salute". Dal primo gennaio 2020 le slot e le videolottery sprovviste dei meccanismi per impedire l'accesso ai minori dovranno essere rimossi. In caso di violazione scatta una sanzione di 10mila euro per apparecchio. Sono le novità introdotte ieri nel Dl dignità sul gioco d'azzardo. Inserito in corso d'opera anche il logo "No slot" per esercizi pubblici e circoli che bandiscono le macchinette per il gioco d'azzardo.
Il testo prevede come fulcro della lotta alle ludopatie lo stop a "qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa, le affissioni e internet" con l'esclusione di lotterie nazionali e giochi gestiti dall'Agenzia dei monopoli.
In base a un emendamento approvato ieri, le violazioni saranno punite con sanzioni del 20% (in origine era il 5%) sul valore della sponsorizzazione. I proventi delle multe sono destinati al fondo per il contrasto alle ludopatie. I contratti già siglati scadranno obbligatoriamente entro il 30 giugno 2019. Già dal 18 luglio Google ha bloccato questo tipo di pubblicità: l'azienda ha comunicato agli inserzionisti che la decisione avrebbe avuto "efficacia immediata" nella sezione italiana.
Il decreto è una delle bandiere del Dl voluto dal vicepremier Luigi Di Maio che, alla presentazione del decreto il mese scorso, aveva sottolineato: "Migliaia di famiglie sono finite sul lastrico. Smettiamola con i messaggi subliminali e i testimonial famosi". In quanto al calo degli introiti per lo stato, si stima un ammanco che va dai 147 milioni del 2019 ai 198 degli anni successivi. Per coprirlo si prevede un aumento del prelievo erariale sulle slot: lo 0,25% dal prossimo settembre, uno 0,25% aggiuntivo dal prossimo maggio. Se le associazioni dei consumatori plaudono alla norma e, anzi, il Codacons vorrebbe estenderla anche all'Agenzia dei Monopoli, gli operatori del Sistema Gioco Italia hanno chiesto una riforma concertata con il settore.
I 5S citano uno studio effettuato da Maurizio Fiasco: l'azzardo ha un moltiplicatore economico negativo in termini di depressione dei consumi, di mancati stimoli alla produzione e distruzione di opportunità d'impiego, più si allarga e meno l'economia reale cresce. Secondo il ministero della Salute, i giocatori problematici sono tra l'1,5% e il 3,8% della popolazione, cui si aggiunge il 2,2% di giocatori patologici. Nel 2017 gli italiani hanno speso complessivamente, tra slot machine, gratta e vinci e gaming online, oltre 102 miliardi di euro, 10,3 miliardi sono andati all'erario.
I mancati introiti da pubblicità colpiranno soprattutto Tv e radio private perché in Rai è già vietata. Mediaset, in particolare, gestisce il 50% del budget annuale sui media tradizionali. Sarà un problema anche per le squadre di Calcio: in Serie A nella stagione 2017/2018 dodici società hanno sottoscritto una partnership con aziende del betting.
Avvenire, 3 agosto 2018
Matar Younis Ali Hussein, un insegnante islamico di religione, era stato arrestato per "spionaggio e guerra contro lo Stato". Rischiava la pena di morte per aver preso posizione in favore della popolazione del Darfur - dal 2003 vittima collettiva di un'offensiva militare per la quale il presidente sudanese Omar al-Bashir è imputato presso il Tribunale penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio - ma dal 26 luglio è libero.
Matar Younis Ali Hussein era stato arrestato il primo aprile dopo aver criticato il governo sudanese per gli omicidi, i rapimenti, le devastazioni e i saccheggi dei villaggi, la violenza sessuale e altro ancora in corso da 15 anni in Darfur. Più volte, aveva denunciato il falso "processo di pace" promosso dal governo del dittatore Bashir e aveva sollecitato protezione per gli sfollati del conflitto.
Il 24 giugno era stato incriminato per "guerra contro lo Stato", "tentativo di sovvertire il sistema costituzionale" e "spionaggio". Se giudicato colpevole anche di uno solo di questi reati, sarebbe stato messo a morte. E invece, grazie a un'enorme mobilitazione interna e internazionale promossa anche da Amnesty International, è stato assolto e rilasciato.
Ora si spera che Matar Younis Ali Hussein possa riprendere a insegnare la religione islamica e a chiamare alla preghiera dalla moschea di Zalingei, nel Darfur centrale, senza temere ulteriori persecuzioni e rappresaglie giudiziarie.
di Riccardo Noury
Corriere della Sera, 3 agosto 2018
Amnesty International ha appreso che nei giorni scorsi sono state arrestate altre due note attiviste per i diritti umani dell'Arabia Saudita, Samar Badawi e Nassima al-Sada. Samar Badawi è la sorella di Raif, il blogger condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, 50 delle quali già eseguite, per aver pubblicato un sito nato per favorire il dibattito pubblico. Nel 2014 è stata colpita da un divieto di viaggio e nel 2016 era finita in carcere. Nassima al-Sada ha svolto campagne nella Provincia orientale in favore dei diritti civili e politici, dei diritti delle donne e di quelli della minoranza sciita che vive nell'est del paese.
Nel 2015 si è candidata alle elezioni locali ma la sua candidatura è stata respinta. È stata anche protagonista della campagna per il diritto delle donne di guidare e per la fine del sistema repressivo del tutore maschile. A sua volta, le era stato imposto il divieto di viaggio.
Nei giorni scorsi è stata arrestata anche Amal al-Harbi, moglie di Fawzan al-Harbi, difensore dei diritti umani già in carcere. Nonostante i reiterati tentativi delle autorità di Riad di mostrare l'immagine di un paese che sta attuando riforme modernizzatrici, la realtà è che continuano gli arresti degli attivisti e delle attiviste che portano avanti la loro azione in favore dei diritti umani in modo del tutto pacifico. Nell'Arabia Saudita del principe della Corona Mohamed bin Salman non c'è spazio per chi difende i diritti umani.
A partire da maggio, sono state arrestate diverse note attiviste e promotrici di campagne per i diritti umani. Tra loro figurano Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef. Molte di loro restano in carcere senza che sia stata formalizzata alcuna accusa e rischiano fino a 20 anni di detenzione se processate dal tribunale anti-terrorismo. Sono in prigione anche Nouf Abdulaziz e Mayàa al-Zahrani, così come attivisti impegnati nella difesa dei diritti umani come Mohammed al-Bajadi e Khalid al-Omeir.
di Massimo Sideri
Corriere della Sera, 3 agosto 2018
Lanciare o appoggiare commenti critici sui social può voler dire ricevere la visita della polizia a casa. Non è ormai inusuale sentire ipotizzare che, senza una soluzione come quella in discussione presso l'Europarlamento per bilanciare gli effetti distorsivi del mancato rispetto del copyright online, potremmo entrare in una nuova era senza media tradizionali.
La Cambogia ce ne ha appena dato un assaggio: com'è noto il premier Hun Sen, ex capitano dei Khmer Rossi, ha appena rivinto le elezioni senza elezioni, forte della presenza sulle schede di un unico partito, il suo, il Cambodian Peoplès Party. Hun Sen è premier ufficialmente dal 1993, ufficiosamente già dagli anni Ottanta. In particolare ha potuto "rivincere" le elezioni attuali anche grazie alla totale assenza di giornali e radio (la tv appartiene alla sorella): ha fatto chiudere negli ultimi 12 mesi tutti i media non asserviti al suo potere come "Voice Of America", il "Phnom Penh Post", il "Cambodian Times" e "Radio Free Asia".
In questo vuoto Facebook l'ha fatta da padrone diventando il principale sito di informazione del Paese asiatico. Libero, potremmo pensare. Chi può influenzare una società da centinaia di miliardi di dollari? A questo riguardo è utile sapere che Hun Sen risulta uno dei leader globali più amati al mondo stando ai like di Facebook: 13 milioni, circa la metà di quelli di Donald Trump, su una popolazione di 13,3 milioni.
I cambogiani sanno che lanciare o appoggiare post critici (anche non mettere un like al leader si nota...) può volere dire ricevere la visita della polizia a casa. Senza contare che proprio in Cambogia la stessa Facebook ha testato dal 2017 un nuovo algoritmo per le News che privilegia le informazioni ufficiali e dunque, senz'altro involontariamente, il governo.
Già ai tempi in cui Voltaire scriveva del termine Gazette sull'"Encyclopédie" si metteva in guardia dal considerare sinonimi termini quali giornali, democrazia e opinione pubblica. Ma proprio come la democrazia di Churchill i giornali sono il peggior sistema che conosciamo esclusi tutti gli altri. Hun Sen sembra saperlo bene.