Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2019
Il Coordinamento Carcere Due Palazzi, che raggruppa associazioni e cooperative attive nella Casa di Reclusione di Padova, lunedì 17 giugno 2019 promuove un incontro per ricordare Antonio Floris, morto in modo tragico nel novembre del 2015.
di Samuele Ciambriello*
Cronache di Napoli, 15 giugno 2019
Gli Stati Generali dell'esecuzione penale avevano 2 tavoli, sia sullo spazio della pena, che si proponeva di individuare interventi architettonici degli Istituti presenti e di elaborare nuove configurazioni degli spasi della pena, in conformità con le direttive europee per curare in modo adeguato affetti, attività lavorative e attività trattamentali; che un altro tavolo, che si è occupato del mondo degli affetti e della territorializzazione della pena, cioè dei problemi connessi al riconoscimento e all'esercizio del diritto all'affettività del detenuto, all'esecuzione del diritto/dovere genitoriale, al mantenimento di relazioni positive con il proprio mondo familiare e affettivo legati tutti anche al principio di territorializzazione della pena, per un positivo reinserimento sociale.
camerepenali.it, 15 giugno 2019
La sentenza sull'ergastolo ostativo della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nell'affaire "Viola c. Italia", appare destinata a rivoluzionare la politica penitenziaria nel nostro Paese. È la prima volta che l'istituto, tutto italiano, dell'ergastolo ostativo, noto ai più come "fine pena mai", viene posto all'attenzione della Corte di Strasburgo e la risposta, chiare e netta, è che la pena perpetua non riducibile (ergastolo ostativo) rappresenta una palese violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.
di Matteo Marcelli
Avvenire, 15 giugno 2019
Da Rieti a Campobasso, si moltiplicano gli episodi di tensione nei penitenziari italiani. Sindacati e Garante: non è solo un problema di numeri, serve un ripensamento. Prima un pestaggio ai danni di un detenuto italiano, poi la vendetta contro gli aggressori (quattro nigeriani) a cui sono seguiti i disordini sedati poco dopo dagli agenti della polizia penitenziaria. Due giorni di inferno nel carcere di Rieti, che tra mercoledì e giovedì è stato il teatro dell'ennesima tensione all'interno di un istituto di pena.
Solo la settimana scorsa un detenuto 60enne, riconosciuto semi infermo mentale e condannato per l'omicidio della madre, si è tolto la vita nel carcere di Perugia e pochi giorni prima due ragazzi nordafricani erano evasi dall'istituto penitenziario minorile di Nisida.
C'è poi la rivolta dei detenuti islamici di Spoleto, il 26 maggio, e quella di Campobasso il 24. Episodi determinati da circostanze specifiche, ma che dall'inizio dell'anno si ripetono con una frequenza preoccupante e, sommati assieme, evidenziano problemi strutturali. Per rendersene conto basta guardare alcuni dei dati prodotti dal Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) relativi al 2018: oltre 7mila colluttazioni, più di mille ferimenti, 61 suicidi (1.198 quelli sventati), 91 evasioni e più di 10mila atti di autolesionismo.
Gesti di ordinaria disperazione che per il sindacato corrispondono a criticità evidenti e segnalate da tempo. "Ci portiamo dietro una grave carenza di organico - ricorda il segretario generale del Sappe, Donato Capece. Siamo circa 37mila, divisi nella varie qualifiche, e fatichiamo a tenere testa alle esigenze operative. I detenuti attuali sono circa 61mila e un agente, in media, ha sotto il suo controllo dai 70 ai 100 detenuti.
Serve un ripensamento dell'operatività dei poliziotti penitenziari, meno servizi connessi alla sicurezza e più personale operativo". Dei 37mila uomini a disposizione del Dap, infatti, solo 20mila sono impiegati nei servizi operativi a turno, gli altri si occupano appunto dei servizi cosiddetti "connessi alla sicurezza detentiva", come ad esempio il piantonamento, le traduzioni in carcere o le scorte.
Ma sarebbe sbagliato ridurre tutto a una questione di quantità perché, come spiega ad Avvenire Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, ci sono almeno due ragioni che possono aiutare a spiegare questi episodi: "Innanzi tutto la sensazione di assoluta inessenzialità del carcere: prima magari ci si scontrava, anche con posizioni diverse, ma il carcere era al centro di un dibattito. Si aveva la sensazione di essere rilevanti. Adesso si riduce tutto a un problema numerico e di spazio - ragiona Palma. L'altra questione è l'accentuazione di piccole regole che aumentano la conflittualità".
Il problema, insomma, è sempre lo stesso e sta nel modello di risposta al reato adottato finora. "Non possiamo puntare solo sul carattere punitivo della pena, che certo resta necessario - continua il Garante dei detenuti. La società deve rispondere anche con un progetto sulle persone. Il tema va riaperto non va ristretto alla sola questione della vivibilità".
Eppure solo due anni fa si era iniziato un percorso che avrebbe potuto invertire la rotta. Allora alla guida del ministero della Giustizia c'era Andrea Orlando, ma la sua iniziativa, gli Stati generali del carcere, un tentativo di spostare la prospettiva della questione verso il reinserimento, non ha dato i risultati sperati. "Dal punto di vista legislativo, il percorso di riforma partito con gli Stati generali si è esaurito - osserva Alessio Scandurra dell'associazione Antigone. Non mi pare ci sia l'intenzione di fare passi ulteriori".
di Stefano Zurlo
Il Giornale, 15 giugno 2019
"La sentenza europea? Plausibile l'ergastolo ostativo se non c'è il pentimento". Senza benefici e senza spiragli: in galera fino alla morte. È la questione spinosa su cui riflette Salvatore Amato, cattolico, ordinario di filosofia del diritto a Catania.
di Susanna Marietti*
Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2019
È una sentenza destinata a restare scolpita nella pietra, quella di ieri della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nel caso Viola vs Italia. Non solo perché afferma che una pena perpetua senza possibilità di revisione è contraria al senso di umanità. Ma anche e soprattutto perché sostiene che nessun automatismo può da solo costituire una modalità di revisione sufficiente.
di Errico Novi
Il Dubbio, 15 giugno 2019
Sergio Mattarella ha fatto scoccare la scintilla. "Le elezioni suppletive per sostituire i consiglieri dimissionari del Csm siano il primo passo per voltare pagina", ha chiarito il Capo dello Stato. L'idea di poter riformare tutto, a cominciare dal Consiglio superiore, si rivela contagiosa: "Mercoledì, al massimo giovedì, incontreremo il ministro Bonafede per discutere della riforma della giustizia", rivela Matteo Salvini al termine del summit leghista. Si rompe l'incantesimo che teneva in stand- by da oltre due mesi il ddl del guardasigilli.
Dallo tsunami del Csm viene dunque un effetto positivo. La Lega è finalmente pronta a discutere del nuovo processo. L'intervento, aggiunge Salvini, deve riguardare la giustizia "penale, civile e tributaria". Ottime intenzioni. Che si incrociano alla perfezione con i dossier già definiti nel dettaglio da Bonafede. Sul fronte penale e civile il ministro ha tratto le conclusioni dal tavolo con avvocati e magistrati. Rispetto al settore tributario si potrà fare affidamento anche alle proposte avanzate sempre dalla professione forense, in particolare dall'Uncat, l'associazione degli avvocati di settore.
Ma ovviamente si discuterà anche di riforma del Csm, ancora ferma allo stadio delle ipotesi. Bonafede ha un'idea di partenza: "Il magistrato che entra in politica non potrà più tornare a fare il giudice o il pm, per non compromette la sua imparzialità". I testi per mettere fine, o almeno limitare le porte girevoli vengono dalla precedente legislatura quando, al Senato in particolare, erano stati ipotizzati vincoli molto stringenti. Ma è chiaro che si dovrà intervenire anche sul sistema per l'elezione dei togati a Palazzo dei Marescialli. Il principio è ormai acquisito da tutti: limitare il peso delle correnti. Non è ancora definita la strada, ma è esclusa l'ipotesi di una modifica costituzionale. Si dovrà agire sui dettagli della legge ordinaria, per esempio sull'ampiezza dei collegi, da ridurre in modo da assicurare più autonomia dai gruppi della magistratura associata a quelle toghe dotate di particolare credito fra i colleghi del loro distretto.
D'altra parte gli effetti del sisma al Consiglio superiore non accennano a esaurirsi.
Ieri si è dimesso il quarto togato, Corrado Cartoni: "Non ho mai parlato di nomine, ma lascio per senso delle istituzioni e per difendermi nel processo disciplinare", dice l'ormai ex consigliere di "Mi", che lunedì il plenum sostituirà, intanto, alla sezione disciplinare. Si conoscono già gli elementi contestati a un altro collega che dovrà rispondere davanti allo stesso organismo del Csm e che costituisce la figura di innesco dell'intero caso, Luca Palamara. Nell'atto di incolpazione del pg della Cassazione Riccardo Fuzio si parla di "comportamento gravemente scorretto" e delle trame che avrebbero dovuto danneggiare, oltre al procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, anche l'aggiunto di Roma Paolo Ielo.
Il dato è che le vicende sconvolgenti della magistratura restituiscono alla politica la determinazione riformatrice. Con diversi risvolti positivi. Non solo rispetto alla necessità che, come dice la plenipotenziaria di Salvini sulla giustizia, Giulia Bongiorno, "Bonafede trovi gli anticorpi alle degenerazioni del correntismo".
Intanto la stessa ministra della Pubblica amministrazione prevede che non ci si limiterà a "cambiare qualche norma della procedura civile e penale" ma che negli incontri, "già fissati per metà della prossima settimana con il guardasigilli", si toccherà per esempio anche il nodo "dell'accesso alla magistratura". Oggi è affidato a un concorso di secondo livello, che per la stessa Anm è un problema perché alza l'età del primo incarico. Ma a colpire, più di tutto, è il passaggio di Salvini sulle intercettazioni (richiamato anche in altro servizio, ndr):
"È incivile leggerle sui giornali, lo dico adesso che riguardano i magistrati". Potrebbe finalmente cadere il tabù della privacy sacrificata sull'altare di un malinteso diritto di cronaca. Non è scontato. Ma come dice il vicepremier leghista, "o si fa ora, o la riforma della giustizia non si farà per i prossimi cento anni". Solo il momento di crisi della magistratura poteva far vacillare tabù come quello sulle libere intercettazioni. Sarà sconsolante ammetterlo ma è così.
di Massimo Villone
Il Manifesto, 15 giugno 2019
L'ultimo degli errori che potremo vedere nel marasma seguito all'inchiesta di Perugia è l'ennesima rappresentazione di uno scontro tra giustizialisti e garantisti. In questo, come in tutti gli altri casi, sarebbe una falsa rappresentazione. Le esigenze sono chiare: osservare e applicare le leggi; esercitare le funzioni pubbliche ricoperte con "disciplina e onore", come richiede la Costituzione; assumersi la responsabilità politica se si ricopre un ruolo che la comporta. È possibile, o persino probabile, che Lotti non abbia fatto nulla di penalmente rilevante. Ma che i suoi comportamenti in un modo o nell'altro ricadano nelle categorie sopra indicate sembra sicuro. Ci informa che ha appreso dai giornali di aver causato imbarazzo ai vertici del suo partito. Non gli era venuto il sospetto che potesse accadere?
Probabilmente, il segretario Zingaretti che ha camminato sulle uova per giorni, gli aveva dato una impressione diversa. Ma questo è un problema tutto interno al Pd e alle sue dinamiche correntizie, che il partito dovrà in un modo o nell'altro affrontare. Certo la vicenda non si chiude con l'autosospensione di Lotti. Ma alla fine interessa solo il Pd, i suoi militanti, i suoi elettori. C'è invece una vicenda che interessa il paese tutto, ed è il grave danno arrecato all'immagine delle magistratura. All'inaccettabile groviglio di relazioni improprie che ha inquinato l'organo di autogoverno, si sono aggiunti i maldestri tentativi di auto-assoluzione di alcuni consiglieri coinvolti, e la resistenza alle dimissioni, richieste con forza da più parti. Mentre va sottolineato con apprezzamento che è stata la stessa magistratura a fare luce, senza sconti a nessuno e senza timori delle conseguenze. Opportuno anche il ricorso all'azione disciplinare.
Ma questo non impedirà che riparta il treno della riforma della giustizia, con in testa il vagone della subordinazione dei magistrati alla politica. In campo varie ipotesi, tra cui si segnala anzitutto la cancellazione dell'obbligatorietà dell'azione penale. In fondo basta poco: aggiungere alla formula dell'articolo 112 della Costituzione "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale" le parole "nei casi e modi stabiliti dalla legge". Un'aggiunta solo apparentemente innocua, perché può avere un unico significato: che in alcuni "casi e modi" l'obbligo viene meno. Il punto è che quei casi e modi sono stabiliti dal legislatore, e quindi dalla maggioranza pro tempore.
Da tempo i costituzionalisti hanno colto che la riserva di legge ha visto indebolirsi la funzione di garanzia che ad essa era stata riconosciuta. L'ossequio prestato al totem della governabilità, le conseguenti alterazioni della rappresentatività attraverso sistemi elettorali volti a favorirla con incentivi maggioritari di vario tipo, hanno accentuato il carattere delle legge come espressione della maggioranza detentrice del potere politico. E dunque oggi il rinvio ai "casi e modi" stabiliti dalla legge non è di per sé garanzia dell'indipendenza del magistrato. Può essere l'esatto contrario.
Non è questo il solo tema in discussione. Si punta alla riforma del Csm, che verrebbe sdoppiato, con una composizione paritaria laici-togati (oggi un terzo e due terzi). È del tutto evidente che si potrebbe giungere facilmente a una subordinazione dell'organo alla politica attraverso l'aggiunta ai laici di una piccola minoranza di togati. Sarebbe più o meno probabile in un siffatto organo collegiale il ripetersi di distorsioni come quelle che oggi si lamentano?
Se si aggiunge a tutto questo la separazione delle carriere, di cui anche si discute, e l'intimidazione da ultimo platealmente praticata dal ministro dell'interno, il quadro è completo. La magistratura è la più forte difesa che la Costituzione appresta alle libertà e ai diritti. Di questo dobbiamo essere in ogni momento consapevoli. I problemi che si manifestano vanno affrontati con decisione. Ma non con l'obiettivo surrettizio di scardinare il disegno che vide in Assemblea Costituente un dibattito tra i più approfonditi. Non per aprire alla bassa cucina di un ceto politico privo di qualità. Per questo dobbiamo mobilitarci per la difesa e la piena attuazione della Costituzione repubblicana.
di Giovanni Negri
Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2019
Alla fine lo scandalo che investe il Csm è anche l'esito di riforme mancate e autoriforme inefficaci. Le prime, anche se non soprattutto, per le ansie revansciste della politica verso la magistratura; le seconde per la timidezza nell'affrontare nodi di fondo da parte dello stesso Consiglio. Dove a fallire sono stati i tentativi, a vario titolo, di arginare la deriva correntizia, incidendo sul sistema elettorale piuttosto che sui meccanismi di assegnazione degli incarichi di vertice.
Così, la riforma del Csm ha rappresentato una delle grandi incompiute della passata legislatura, annunciata sì dal tandem Renzi-Orlando, mai però portata a termine, malgrado una commissione presieduta da Luigi Scotti (ex ministro e presidente del tribunale di Roma) avesse messo a punto un'articolata relazione.
Il punto di riferimento continua a essere la legge Castelli del 2002 con cui il Governo Berlusconi II modificò la legge elettorale, prevedendo l'elezione di i6 magistrati (2 di Cassazione, 4 pubblici ministeri e io giudici) con un sistema maggioritario però su base nazionale. Sistema messo a punto per consentire a tutti i magistrati in servizio di potersi candidare, anche senza essere designati dai gruppi associativi dell'Anm, riducendone la capacità di influenza nella fase elettorale e poi nel funzionamento del Consiglio.
Alla prova dei fatti, però, e a distanza di 17 anni, l'eliminazione del voto proporzionale per liste contrapposte non ha condotto ai risultati attesi e, anzi, ha rafforzato il potere dei gruppi associativi di determinare l'esito elettorale. Decisivo, come doveva anche allora apparire evidente, era, ed è, la possibilità del candidato di fare campagna elettorale su tutto il territorio nazionale, cosa nei fatti impossibile senza un aggancio a qualche struttura associativa. Ovvio che allora di candidati indipendenti se ne siano visti pochi, eletti nessuno.
Di qui allora la proposta Scotti, mai approdata peraltro in consiglio dei ministri, che accantonò espressamente il sorteggio, a favore di un meccanismo a 2 fasi: la prima di tipo maggioritario per collegi territoriali e la seconda proporzionale per collegio nazionale su liste concorrenti. Nella scorsa consiliatura molto si lavorò per quella che poi è passata sotto il titolo di "autoriforma".
Leggasi, più nel dettaglio, Testo unico della dirigenza, approvato nel 2015, con i criteri sui quali modellare la nuova classe dirigente della magistratura. Un provvedimento tutto teso a rafforzare i margini di prevedibilità delle decisioni sui capi degli uffici giudiziari. Un set di regole oltretutto messo alla prova in una stagione nella quale, per effetto della decisione del Governo Renzi di abbassare l'età pensionabile dei magistrati, il Csm si è trovato a effettuare un numero di nomine senza precedenti (oltre i.000 tra direttivi e semi-direttivi).
Ora, anche in questo caso, la prova dei fatti non ha dato risultati brillantissimi. Requisiti attitudinali più stringenti, tarati anche sulla dimensione dell'ufficio da guidare, valorizzando per quelli più piccoli il lavoro giudiziario e per quelli più grossi le capacità manageriali dei candidati, non sono serviti più di tanto a fare da argine alle tentazioni spartitorie delle correnti. Tanto più se si tiene conto che gli interventi sull'ordinamento giudiziario, con la valutazione quadriennale di conferma per i vertici, hanno condotto a un esito positivo pressoché generalizzato.
Quindi, un Csm che, almeno nelle forma, aveva scelto di ingabbiarsi in regole più vincolanti, non ha tuttavia legato le mani ai gruppi associativi. Tanto da lasciare gioco facile alle contestazioni di un Piercamillo Davigo che, un anno fa, in piena campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio aveva censito 599 nomine su 832 (a marzo) effettuate all'unanimità. Plastico esempio della sopravvivenza delle logiche di spartizione che, portate in questi giorni al parossismo, hanno gettato il Csm nella sua stagione più buia.
di Carlo Nordio
Il Messaggero, 15 giugno 2019
Con una saggia e tempestiva decisione, il Quirinale ha indetto le elezioni suppletive del Csm evitandone la paralisi, e resistendo alle richieste del suo scioglimento. Resta tuttavia il rischio che questa iniziativa venga vanificata da una dissoluzione progressiva di questo organismo, come accade nella Sinfonia degli addii di Haydn dove gli orchestrali se ne vanno uno alla volta, o, se vogliamo citare un paragone più macabro, nel famoso giallo di Agatha Christie dove i convitati muoiono in rapida successione e alla fine non rimane nessuno. Ipotesi questa non del tutto remota, perché solo un ingenuo può pensare che le "contiguità" tra politici e magistrati siano state limitate agli approcci di Lotti con il dottor Palamara.
Quest'ultimo, del resto, ha detto in un'intervista che i suoi incontri avvenivano anche con altri colleghi ed esponenti di partiti. Sarà stata un'ammissione, ma a noi è sembrato anche un ammonimento. A nessuno del resto è sfuggito il verecondo silenzio delle correnti dell'Associazione, che dopo l'indignazione tignosa e purificatrice dei primi giorni, sono diventate improvvisamente caute e guardinghe, come se si attendessero imbarazzanti novità nelle prossime puntate delle intercettazioni.
Una nemesi storica nei confronti di quelle toghe che, quando manifestavamo preoccupazione per l'uso distorto di questo strumento di indagini ambiguo e invasivo, rispondevano supponenti che le cose andavano nel migliore dei modi possibili. Mai dunque, come in questo momento, vale il detto biblico che chi ha seminato vento raccoglie tempesta. Questa tempesta, naturalmente, non travolge solo la magistratura e le sue correnti ormai screditate. Coinvolge anche la politica, che con i suoi rappresentanti più o meno subalterni alle toghe hanno dimostrato di voler intervenire attivamente nelle nomine fatte dal Csm.
Circostanza questa nota a tutti gli addetti ai lavori, ma sdegnosamente respinta negli anni passati come un' intollerabile insinuazione. Per la verità, i cittadini si sarebbero già dovuti allarmare per il numero crescente di magistrati (diventati famosi per la carica ricoperta o i processi celebrati) candidati dai partiti con ostentazione orgogliosa. Poiché infatti una candidatura non si improvvisa in poche ore, era da supporre che questi giudici, mentre indossavano la toga, avessero avuto ripetuti ed intensi incontri con i rappresentanti dei rispettivi partiti.
Stupirsi ora che questa baratteria contaminasse anche il Csm significa abusare della credulità degli italiani. I quali, peraltro, hanno già capito una cosa. Che così com'è strutturato il Csm non solo funziona male, ma non funziona affatto, e va radicalmente cambiato. Ebbene, se è vero che "oportet ut scandala eveniant", è anche vero che questa indecorosa vicenda può essere l'occasione per una riforma che elimini lo strapotere delle correnti e renda effettivamente indipendente la magistratura non solo dalla politica ma anche da sé stessa e dalle degenerazioni di chi ne esercita la rappresentanza e il potere.
Come? Con il sorteggio. Qualche anima bella ha ironizzato sul fatto che nessuno si farebbe operare da un tizio sorteggiato tra i passanti. Per la verità, la Corte d'Assise che ti condanna all'ergastolo è composta, nella sua maggioranza, proprio da giurati sorteggiati tra il popolo. Così come sono sorteggiati i membri del tribunale dei ministri, quelli, per intenderci, che volevano mandare a giudizio Salvini. Ma queste sono osservazioni marginali. Il sorteggio dovrebbe infatti avvenire dentro un paniere composto di magistrati di alto grado, di avvocati membri dei consigli forensi e di docenti universitari di materie giuridiche.
Tutte persone, per definizione, intelligenti e competenti. Così si spezzerebbe davvero quel legame perverso che unisce eletti ed elettori, e quella assurdità tutta italiana per la quale la sezione disciplinare è, di fatto, nominata da quelli che deve giudicare. La magistratura è contraria? Non crediamo. Certo lo sono i rappresentanti del suo sindacato, e questo è ovvio perché il loro enorme potere risiede proprio lì, e non si può chiedere al tacchino di preparare il pranzo di Natale. Ma poiché ora si comincia a sentir puzza di bruciato, può anche darsi che sia opportuno cambiar forno.
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