di Roberto Saviano
L'Espresso, 16 giugno 2019
Maria Grazia Carta ha perduto suo figlio, travolto in scooter. L'investitore è albanese, ma lei rifiuta di prestarsi alle speculazioni politiche. Ci sono storie che è difficilissimo raccontare, storie che, per quanto dolorose, spesso vengono archiviate come ordinarie.
Col tempo ci si corazza e le morti che non sono a noi vicine finiamo per considerarle accettabili. Poi ci sono le morti su cui la cronaca si sofferma, e in quei casi - dobbiamo prestare attenzione a questo passaggio - la vittima resta sullo sfondo. Di lui o di lei spesso vediamo le immagini del profilo Facebook, sorridenti al mare, abbracciati alle persone che amavano: facciamo irruzione in momenti che se chi li ha vissuti non li considerava del tutto privati, non possiamo nemmeno dire che fossero del tutto pubblici o che meritassero la pubblicità che poi hanno ricevuto. E la vittima è sempre li, sullo sfondo.
Poi ci sono vicende che vanno raccontate usando molte cautele, molto tatto, vicende che, per quanto possano sembrarci simili a tante altre, in realtà non lo sono. E non lo sono non perché la strumentalizzazione è dietro l'angolo, ma per il grado di consapevolezza delle persone coinvolte, che vivono la doppia tragedia della perdita, della perdita violenta, spesso repentina, appresa magari quasi per caso, e lo strazio di dover difendere la memoria della persona che non c'è più, per sottrarla a discorsi del tutto alieni da quella che è stata la sua vita.
La politica e i media spesso non hanno riguardi, fiutano l'occasione e la colgono con una inconsapevolezza pesante come un macigno che costringe chi soffre a dover alzare la guardia. Un uomo morto è un uomo morto, che importa se posto la sua foto su Facebook e utilizzo un frammento della sua storia - il frammento più drammatico e che non tiene conto di tutto il resto - a supporto della mia idea?
Importa invece, perché un uomo morto è stato un uomo vivo che ha avuto idee che la morte non cancella e che non dovrebbe nemmeno tradire. Proviamo qui, con l'aiuto di Radio Radicale e di Massimiliano Coccia, che mi ha segnalato questa vicenda, a raccontare cosa è successo a Davide Marasco, un uomo che 1'8 giugno (io ero in Piazza Maggiore a Bologna quel giorno) avrebbe compiuto 31 anni. Il 27 maggio scorso Davide viene investito mentre era sul suo scooter e perde la vita.
Ai microfoni di Radio Radicale c'è Maria Grazia Carta, la mamma di Davide, che racconta chi era suo figlio. Davide era a sua volta un papà ed era un lavoratore che per prima cosa pensava alla stabilità della famiglia. Amava lo sport, il judo, ed era un credente che, oltre a credere in Dio, credeva nella giustizia e nei diritti.
La mamma di Davide vive nella periferia di Roma ed è una insegnante precaria che, dal giorno della morte di Davide Marasco, chiede giustizia perché suo figlio è stato investito da un uomo che guidava contromano in stato d'ebbrezza, che non ha prestato soccorso e che è fuggito. Maria Grazia Carta dice parole durissime sull'uomo alla guida dell'auto che ha travolto suo figlio, senza fare sconti, ma avverte: non avrete il mio odio.
E perché sente di dover dire queste parole? Perché l'uomo che ha travolto Davide è albanese; fosse stato italiano cosa sarebbe cambiato? La morte di Davide sarebbe forse stata meno dolorosa? Più sopportabile? L'odio razzista verso il colpevole riporterebbe forse in vita Davide? Davide, dice Maria Grazia Carta, "era un uomo che nel suo piccolo si interessava ai diritti di tutti, io continuerò a portare avanti la battaglia contro l'odio, perché strumentalizzare la sua morte è una cosa terribile che lui non avrebbe voluto".
Subito dopo l'incidente un politico locale posta la foto di Davide insieme a suo figlio, con un commento che faceva riferimento alla nazionalità della persona che lo aveva investito: è questo episodio che spinge Maria Grazia Carta, che non accetta che nessuno strumentalizzi ciò che è accaduto alla sua famiglia, a dire: "Non avrete il mio odio".
Non solo, ascolto dalla voce di Maria Grazia Carta parole inconsuete: "Nei momenti duri bisogna avere la forza di canalizzare il dolore e rimanere lucidi, di non farsi strumentalizzare e di mantenere fermi i propri valori. Contro le mafie e contro l'odio razziale. Si deve lottare per la giustizia". Ecco, io queste parole le trovo rivoluzionarie e la rivoluzione sta in questo: nessuna clemenza verso chi ha causato un dolore indescrivibile, ma nessuna apertura a chi pretende di raccontare come peggiore un delitto perché compiuto da uno straniero. Maria Grazia Carta è un'insegnante, un'ottima insegnante.
Redattore Sociale, 16 giugno 2019
Il recital fa parte del progetto "Il ritmo e la voce" a cura dell'Associazione Il Ponte Magico Onlus. È prevista la registrazione di un AudioRecital con testi e musiche dei detenuti e di classici delle tradizioni regionali e nazionali.
"Uno scambio che favorisce lo sviluppo di modalità normalmente sottovalutate". La voce e il ritmo come strumenti di intervento privilegiati per un percorso che si propone di stimolare la conoscenza delle proprie emozioni e il modo in cui le manifestiamo, con l'obiettivo di arrivare a contattare ed esplorare nuove parti di sé da poter integrare e canalizzare in comportamenti più autentici, sinceri ed efficaci.
Si chiama "Magnà e dormì" il recital per il progetto "Il ritmo e la voce"che andrà in scena giovedì 18 gennaio presso il Teatro della Casa Circondariale di Velletri. Protagonisti dello spettacolo i detenuti stessi che parteciperanno alla rappresentazione finale del progetto a cura dell'Associazione Il Ponte Magico Onlus.
Il progetto prevede la registrazione di un AudioRecital con testi e musiche dei detenuti e di classici delle tradizioni regionali e nazionali di provenienza dei detenuti e la sua rappresentazione dal vivo. "Avvicinarsi alla recitazione e immergersi da subito in esperienze di musica d'insieme, vuol dire creare da un lato un ponte tra sé stessi e gli altri, dall'altro sperimentare concretamente che la buona riuscita di un gruppo dipende necessariamente dall'armonia tra i singoli - spiegano i responsabili dell'associazione.
Uno scambio che favorirà lo sviluppo di modalità normalmente sottovalutate. La rappresentazione, dal vivo e con registrazioni audio e immagini di backstage, scaturirà dalla mediazione artistica tra la ricerca interiore di ciascun partecipante e le competenze attoriali e musicali ed artistiche degli educatori e dei professionisti dell'Associazione Il Ponte Magico Onlus".
di Giuseppe Longo
Gazzetta del Mezzogiorno, 16 giugno 2019
Si firma il protocollo di intesa culturale tra gli Istituti Minorili e il Parlamento della Legalità Internazionale. "Gli Istituti minorili della Sicilia nelle prossime ore diventano presidi culturali all'insegna di una rieducazione con lo sguardo rivolto alla "speranza" in un mondo migliore. Lunedì 17 giugno a Palermo alle ore 10.30, nei locali del Centro per la Giustizia Minorile (Malaspina) Per la Sicilia, con la partecipazione di Mons.
Michele Pennisi, il Direttore del centro, Rosanna Gallo, ed il Presidente del Parlamento della Legalità Internazionale, Nicolò Mannino, sottoscriveranno il protocollo di intesa culturale che vedrà le strutture della Giustizia Minorile della Sicilia divenire partner del Parlamento della Legalità Internazionale per dare voce a tante iniziative culturali mirate esclusivamente "al reinserimento del giovane detenuto - sottolinea Nicolò Mannino - in una società che non punti il dito ma educhi all'abbraccio e alla cultura dell'ascolto e della condivisione".
Nella cornice dell'accordo di collaborazione, inoltre, le strutture e gli Istituti Minorili della Sicilia che lo vorranno potranno anche divenire sedi delle Ambasciate del Parlamento della Legalità Internazionale con lo sguardo rivolto al valore della "speranza", coinvolgendo in tale percorso sia i detenuti ristretti nei diversi Istituti sia anche il Personale del Corpo di Polizia Penitenziaria e del Comparto Funzioni Centrali.
Dopo la firma dell'Accordo di collaborazione, Mons. Michele Pennisi, con il Presidente Nicolò Mannino e dal vice Salvatore Sardisco, si recheranno presso l'Istituto Penale per i Minorenni di Palermo dove saranno accolti dal direttore Clara Pangaro e dal Comandante Commissario Coordinatore, Francesco Cerami, che introdurranno il confronto cultuale con i giovani detenuti ristretti ed il Personale dell'Istituto. Mons. Michele Pennini, Arcivescovo di Monreale e guida spirituale del movimento di matrice cristiano-mariano ma aperto al dialogo con tutte le religioni, porterà all'interno dell'Istituto minorile un abbraccio di fratellanza e di vicinanza indirizzato ai giovani che già hanno sperimentato il silenzio delle sbarre e del dolore. "Si tratta di una firma che guarda ogni giovane vittima della sua quotidianità - conclude Nicolò Mannino - e se possiamo alleviare una nota di dolore lo faremo a cuore aperto proponendo un cammino culturale ricco di veri valori di vita". Salvatore Sardisco sottolinea: "Con Mons. Michele Pennsi porteremo un messaggio di riscatto e di amore alla vita dove ogni uomo è chiamato a divenire un tassello di luce, fiduciosi che non tutto è finito"".
dedalomultimedia.it, 16 giugno 2019
Anche quest'anno la Casa Circondariale di Enna "Luigi Bodenza" organizza la Festa della Musica, il prossimo 20 giugno alle ore 19,30. Si tratta di un evento, "Aperimusic... musica in libertà", che collega il carcere con la comunità esterna. Nel cortile interno dell'istituto gli ospiti potranno godere della musica del gruppo ennese "Isteresi" mentre i detenuti, che frequentano i corsi di formazione del Ce. Sam e dell'Enaip, guidati dal maestro pasticcere Nuccio Daidone e dallo chef Mario Messina, realizzeranno un aperitivo rinforzato.
L'evento, organizzato dalla direzione della Casa Circondariale di Enna e dall'associazione di promozione Spiragli, che da anni opera all'interno del carcere, è a scopo benefico e il ricavato è destinato al fondo detenuti indigenti, gestito dai volontari operanti nell'istituto. Sono tantissimi gli imprenditori, le associazioni di categoria, i ristoratori, i panettieri che generosamente hanno sponsorizzato l'evento.
di Graziano Masperi
ticinonotizie.it, 16 giugno 2019
Correre in un carcere. È possibile e c'è chi lo fa quasi tutti i giorni. Non sarà come correre in mezzo alle campagne, ma è sempre meglio di niente. E da una sensazione di libertà unica. Lunedì eravamo nella casa circondariale di San Vittore a Milano dove si è tenuta la seconda giornata dello sport alla quale hanno partecipato circa trecento detenuti.
Alcuni si sono affrontati in una corsa di circa 7 chilometri, altri in un torneo di calcetto, altri ancora nella pallavolo, nel bigliardino e negli scacchi. A premiare i vincitori, quasi tutti del V Raggio, oltre alla madrina Lina Sotis, c'erano gli ex fuoriclasse del calcio di Juve e Inter Antonio Cabrini e Mario Corso e l'assessore Roberta Guaineri. La manifestazione è stata promossa dalla direzione del carcere con Quartieri Tranquilli, Fondazione Decathlon, Cpia 5 Milano, Csi, Fiamme Azzurre.
Si trattava della conclusione del progetto Liberi di allenarsi promosso da Fondazione Decathlon che, con un contributo di 50 mila euro, ha finanziato la realizzazione di due campi da calcetto e uno di pallavolo nel carcere acquistando nuovi macchinari per le palestre che ci sono in ogni raggio. "Lo sport è un fattore di crescita importante per recuperare chi entra in un carcere - ha detto Cosimo Bolognino, per tanti anni arbitro internazionale di calcio e istruttore di educazione fisica nella casa circondariale di San Vittore - un modo per sfogarsi, per capire che ci sono delle regole da rispettare". Ci sono una decina di educatrici ed educatori impegnati con i detenuti e tanti volontari. In un carcere che ospita circa mille persone in attesa di giudizio, il 10 per cento sono donne. La permanenza media è di alcuni mesi ed è per questo che vengono preparati programmi di breve periodo.
Ma torniamo alla corsa. Erano alcune decine i partecipanti alla gara che si è disputata verso mezzogiorno, ad una temperatura molto alta. La chiamavano corsa campestre, anche se di campestre non aveva niente. Ha vinto Giovanni, un 45enne nativo di Gela e arrestato a Milano per rapina. Scambiamo qualche parola con Giovanni: "Da tanti anni ho la passione per la corsa - racconta - sono tre mesi che mi trovo a San Vittore e spero di poter tornare ad una vita normale al più presto.
Ho sbagliato, so di avere sbagliato ed è giusto che paghi il mio debito. Il mio obiettivo è di tornare ad una vita vera. La corsa? Per me significa tanto. Non vedo l'ora di poter correre fuori da questo ambiente. Qui è difficile allenarsi, anche se cerco di farlo tutti i giorni. Gli spazi sono ristretti e non si può correre per molto".
E poi c'è la sensazione di chiuso che toglie il piacere più bello della corsa, ovvero la libertà. Per la cronaca Giovanni ha corso circa 7 chilometri in 31 minuti, secondo in più, secondo in meno. Quindi ad un ritmo accettabile. Ci salutiamo con la promessa di incontrarci di nuovo ad una corsa, magari alla 21km della Stra-Milano competitiva.
Il torneo di calcetto era quello maggiormente sentito. Il calcio, a differenza della corsa, permette di poter convogliare la propria aggressività nel gesto atletico. Nella corsa serve la calma. Incontriamo un altro ragazzo che ha appena vinto tre a zero la partita di semifinale. Non è italiano. Il 70 per cento dei detenuti sono stranieri a San Vittore. Commenta: "Sono dentro per rapina commessa qua, a Milano. Sono sette mesi che sono a San Vittore. Può capitare di sbagliare. Non sbaglierà più, lo prometto".
di Tonia Mastrobuoni
La Repubblica, 16 giugno 2019
Non ha fatto in tempo di dire, in inglese, "non voglio venire" che quattro poliziotti lo hanno buttato a terra, lo hanno immobilizzato e gli hanno stretto le manette intorno ai polsi e alle caviglie. Poi lo hanno trasportato nell'hangar di un aeroporto e lo hanno fatto salire su un aereo con destinazione Roma.
Era il 23 novembre del 2018 e Abukkabar M., originario della Sierra Leone, si è ritrovato con "più di cinquanta" richiedenti asilo come lui sull'aereo che dalla Germania trasportava i "dublinanti" in Italia, "e una marea di agenti che li scortavano".
Soprattutto, racconta, "ho visto qualcuno scalmanato, che cercava di ribellarsi al trasferimento. Dopo un po', però, i rivoltosi erano diventati improvvisamente tranquilli, se ne stavano quasi addormentati nei loro sedili, buoni buoni". La testimonianza di Abukkabar che non vuol essere citato per intero perché nel frattempo è riuscito a fuggire di nuovo in Germania, ha chiesto di nuovo asilo lì e ha paura di ritorsioni - conferma un sospetto che passa da mesi di bocca in bocca, tra le organizzazioni che assistono i migranti.
Il timore è che i profughi vengano sedati per evitare che si ribellino ai trasferimenti. E che subiscano dei maltrattamenti. A noi, Abukkabar ha detto al telefono di essere stato trattato "come un animale". Proprio la scorsa settimana la Germania ha approvato una stretta sui migranti che mira ad accelerarne i rimpatri.
Per i Verdi "un giorno nero per la democrazia" per alcune regole discutibili come la possibilità di fare irruzione negli appartamenti o quella di metterli in carcere in prossimità della data di espulsione. Anja Tuckermann è una scrittrice berlinese che si è occupata molto di migranti, ha anche visitato strutture di accoglienza italiane a Roma, a Pomezia e Frascati. Di quei centri ha un ricordo "agghiacciante", ci rivela. Nessuno dei profughi voleva restare in Italia.
"Mi dicevano tutti "vogliamo tornare in Europa" e l'Europa cominciava per loro al di là delle Alpi". Ma Tuckermann ha assistito anche in Germania alcuni migranti negli attimi drammatici dei loro trasferimenti. Ed è stata testimone di scene "insopportabili". Una sera era al cellulare con chi assisteva una famiglia che doveva essere messa su un aereo.
"Davanti ai figli piccolissimi sia il padre sia la madre sono stati ammanettati dalla polizia con le mani dietro la schiena, come dei criminali. E poi portati via. I bambini, spaventati a morte, hanno continuato a urlare e a piangere per ore, finché non sono stati ricongiunti con i genitori". Il motivo di quella separazione, di quella tortura inutile? Ignoto. Uno dei più impegnati difensori dei diritti dei profughi ha un nome e una faccia: Stephan Reichel presiede "Matteo", l'associazione bavarese che si batte per trovare un asilo nelle chiese ai "dublinanti".
Il senso è quello di garantire loro riparo nelle parrocchie protestanti e cattoliche finché non scadano i termini per fare domanda in Germania. Anche Reichel, che è quotidianamente in contatto con miriadi di profughi che rischiano di essere riportati soprattutto in Italia, parla di "probabili sedizioni" per impedire che fuggano o che si ribellino ai trasferimenti. "E non solo in Germania: due mesi fa so che un profugo afgano proveniente da Lione è arrivato stordito a Monaco. Lo ha assistito un professore che lo ha portato in ospedale, poi un ragazzo afgano che conosco è andato a trovarlo lì per dargli un po' di conforto".
E tra i profughi gira la voce che sia meglio non accettare bottigliette d'acqua prima di salire sugli aerei. Perché potrebbero contenere calmanti o sonniferi. Reichel è preoccupato in particolare per la pressione enorme che il governo e i Land stanno esercitando sulle parrocchie perché non concedano più protezione ai richiedenti asilo.
Tra lo Stato tedesco e le Chiese non c'è un codice scritto ma una consuetudine su questi delicatissimi casi. Dunque, molto margine di manovra, se lo Stato decide di fare la faccia feroce per rispedire i profughi in Italia o negli altri paesi Ue dove dovrebbero finire secondo le regole di Dublino. E secondo Reichel, è esattamente quello che sta accadendo.
Tanto che nel 2018, secondo i numeri del ministero dell'Interno Horst Seehofer, i rifugiati che hanno trovato riparo nelle parrocchie sono stati 1.521, circa 400 a trimestre. Nei primi tre mesi di quest'anno, la cifra è scesa a 250. E la stretta denunciata da Reichel e molti volontari, a tratti sta assumendo i contorni di un assedio. Un esempio clamoroso ce lo racconta un insegnante di Bamberga, Christian Witte, impegnato anche lui nell'assistenza dei richiedenti asilo.
"Tre settimane fa due eritrei che erano stati accolti dal convento di Plankstetten sono stati arrestati in mezzo alla strada. Il motivo è semplice: i due dormivano e lavoravano nei locali del convento, ma erano costretti ad attraversare una strada pubblica. È lì che la polizia li ha arrestati. Un vero e proprio agguato". E per uno di loro, in un giorno tragico. Quello in cui scadevano i 18 mesi di Dublino. Il giorno dopo, avrebbe potuto chiedere asilo in Germania.
di Adriana Pollice
Il Manifesto, 16 giugno 2019
La nave della ong tedesca bloccata a 15 miglia da Lampedusa. È la prima vittima del decreto sicurezza bis. Autorizzato lo sbarco di 10 persone malate. A bordo ne restano 46. La Ue: la Libia non è porto sicuro. Solo in dieci ieri pomeriggio hanno avuto l'autorizzazione a sbarcare a Lampedusa: tre minori, due uomini, tre donne (due incinte) e due accompagnatori sono stati portati a terra su una motovedetta della Guardia costiera perché avevano bisogno di cure mediche. Così hanno stabilito i sanitari inviati sulla Sea Watch 3, bloccata in acque internazionali, dal Centro di coordinamento di Roma. Il gruppo faceva parte dei 53 salvati mercoledì dai volontari della Ong tedesca. Per gli altri 43 (incluse 6 donne e 4 minori) il calvario prosegue. Eppure, replicano da bordo, "tutti hanno bisogno di avere la terra sotto i piedi".
Giovedì il centro di coordinamento libico aveva indicato alla nave il porto di Tripoli come Place of safety. Le agenzie Onu Unhcr e Oim, l'Ue e persino la Farnesina negano che gli scali libici possano essere considerati sicuri. "Negli ultimi dieci giorni - spiegano dalla Sea Watch - in Libia è stato bombardato un ospedale, l'aeroporto e distrutti diversi quartieri. Questo è il paese dove ci dicono di riportare le persone soccorse. Non lo faremo mai". La nave ha fatto rotta verso la Sicilia ma non può entrare nelle acque territoriali, da giovedì è ferma a 15 miglia da Lampedusa.
Matteo Salvini Foto LaPresse
Per il Ministro dell'Interno, Matteo Salvini, che, forte del suo decreto sicurezza bis appena inaugurato, "questa nave fuorilegge per me può stare lì per mesi, fino a Capodanno". E ancora: "Ci sono persone a bordo per scelta di questi delinquenti, sequestratori di esseri umani. Dovevano andare in Libia, potevano andare in Tunisia o a Malta. Sono arrivati in Italia. L'hanno chiesto loro il porto alla Libia, la Libia lo ha dato e loro hanno disobbedito".
Il Presidente Mattarella venerdì ha siglato il decreto Sicurezza bis, Salvini ha illustrato le conseguenze della sua entrata in vigore: "Ho appena firmato il divieto di ingresso, transito e sosta alla Sea Watch 3 nelle acque italiane. Ora il documento sarà alla firma dei colleghi ai Trasporti e alla Difesa. Stop ai complici di scafisti e trafficanti". Il leader leghista ha accusato l'Ong di "sequestrare, per motivi politici, i migranti" che (secondo il Viminale) avrebbero dovuto essere riportati nei centri di detenzione, nel mezzo della guerra civile.
In caso di violazione del divieto, potrebbero scattare per la prima volta le norme del decreto: multe da 10mila a 50mila euro per il comandante, l'armatore e il proprietario della nave; in caso di reiterazione del reato confisca della nave da parte del prefetto; la competenza su eventuali reati sottratta alla procura ordinaria e trasferita alla procura distrettuali antimafia.
L'ultima norma permetterà a Salvini di chiudere il conto con Agrigento, procura presa di mira per aver più volte dissequestrato la Sea Watch 3, non avendo riscontrato alcun reato. Lo stesso Salvini venerdì: "Mi domando come mai la procura non abbia confermato il sequestro, perché mi sembra che non rispettino la legge e nei fatti favoriscano i trafficanti". Mediterranea saving humans ieri ha replicato: "L'unico pericolo concreto per la democrazia e i diritti umani è l'uso illegale e illegittimo del potere che mira a trasformare lo stato di diritto in stato di polizia".
L'Ue è tornata a chiarire: "Tutte le navi con bandiera europea sono obbligate a rispettare il diritto internazionale e il diritto sulla ricerca e salvataggio in mare, che comporta la necessità di portare le persone in un posto sicuro. Queste condizioni non si ritrovano in Libia". Però sul tema continua a fare "melina" tanto che negli incontri tra stati la posizione viene elusa. L'Osservatore Romano ieri ha commentato gli esiti del vertice di venerdì a La Valletta tra Italia, Francia, Malta, Cipro, Spagna, Grecia, Portogallo: "I sette paesi dell'Europa meridionale concordano su diversi punti importanti ma non trovano vera sintonia in tema di migranti". Per poi concludere: "I leader hanno anche chiesto che 'tutte le barche nel Mediterraneo rispettino la legge internazionale e non impediscano l'intervento della Guardia costiera libica', e hanno ritenuto 'necessario contrastare di più il modello di business dei contrabbandieri'".
In Europa si continua in ordine sparso e Salvini quindi procede con le modifiche alla legislazione nazionale. Ieri è stato il presidente francese Emmanuel Macron a prendere ancora una volta le distanze dalle politiche gialloverdi nostrane: "Sulle questioni migratorie: rapida presa in carico, sbarchi nei punti più vicini, solidarietà europea nella ripartizione delle persone che necessitano di protezione. È questo spirito di responsabilità e umanità che tutti noi dobbiamo rendere perenne", ha scritto in un tweet dopo il vertice de La Valletta, dove ha anche avuto un incontro bilaterale con il premier italiano, Giuseppe Conte.
In Germania, la città di Rottenburg ha dato la sua disponibilità ad accogliere i rifugiati della Sea Watch. L'iniziativa dovrebbe comunque avere l'approvazione del ministero dell'Interno federale. Si era fatta avanti anche Berlino, i due centri fanno parte dell'alleanza "Città dei porti sicuri", fondata proprio dal sindaco di Rottenburg.
di Francesco Semprini
La Stampa, 16 giugno 2019
"Una grande conferenza nazionale aperta a tutti coloro che si riconoscono in maniera inequivocabile nello stato di diritto". È questo l'annuncio che il presidente libico Fayez al-Sarraj, è atteso fare tra poche ore nel corso di una conferenza stampa internazionale che si terrà a Tripoli. È quanto riferiscono fonti informate a La Stampa, secondo cui Sarraj punta a rafforzare il ruolo del Governo di accordo nazionale.
L'iniziativa, tuttavia, parte su iniziativa individuale del presidente e non dell'esecutivo libico appoggiato dalla comunità internazionale. Un tentativo da parte del presidente di rilanciare la sua immagine appannata da due mesi e mezzi di conflitto, iniziato il 4 aprile con la marcia su Tripoli delle forze fedeli a Khalifa Haftar.
La situazione militare in Libia è di fatto stazionaria sebbene riveli un vantaggio delle forze del governo. Il Gna è ottimista nel dire che costringerà il generale alla resa, questa però non è l'opinione degli osservatori secondo cui alla fine potrebbero essere così ma ci vorrà ancora del tempo, settimane se non mesi. Ecco allora il tentativo del numero uno del Consiglio presidenziale di rilanciare il dialogo politico all'interno della Libia laddove si era interrotto all'inizio di aprile a pochi giorni dalla Conferenza nazionale che si sarebbe dovuta tenere a Ghadames. Rimane l'interrogativo di Haftar: "in teoria l'iniziativa è aperta allo stesso generale se accettasse in maniera inequivocabile i principi dello stato di diritto e la soluzione pacifica delle controversie, questo vuol dire che dovrebbe accettare il ritiro incondizionato".
Ipotesi al momento difficile al punto tale che il generale ne rimarrebbe di fatto escluso. Su base internazionale, pertanto, sarà difficile per Sarraj ottenere l'appoggio dei Paesi sponsor dell'uomo forte della Cirenaica, dagli Emirati all'Egitto passando per l'Arabia saudita. Mentre rimane l'incognita della missione Unsmil, ovvero delle Nazioni Unite. Non è chiaro se l'iniziativa sia nata in coordinamento con l'inviato Onu Ghassan Salame o se quest'ultimo preferisca prendere tempo per capire se e come sostenere la nuova ipotesi di "loya jirga" in salsa libica.
di Maurizio Molinari
La Stampa, 16 giugno 2019
La decisione delle autorità di Hong Kong di sospendere la controversa legge sull'estradizione in Cina testimonia la vulnerabilità del potere di Pechino alle proteste di piazza. A trent'anni di distanza dalla repressione di Piazza Tienanmen, quando il regime comunista usò i tank per schiacciare nel sangue le speranze di una perestroijka cinese, la mobilitazione dei giovani di Hong Kong ha obbligato Pechino a fare marcia indietro.
Il consiglio di Hong Kong, guidato da Carrie Lam, voleva approvare il regolamento che rende possibile le estradizioni in Cina consentendo in questa maniera di avere uno strumento legale per trasferire nelle prigioni della Repubblica popolare qualsiasi tipo di "criminale", inclusi ovviamente quelli che in realtà sono degli oppositori politici.
Il punto è che nessun Paese democratico ha un trattato di estradizione con Pechino perché il suo sistema della giustizia si distingue per violazioni sistematiche dei diritti umani, gestione diretta da parte della polizia e un'agghiacciante sequenza di condanne a morte.
Per la Cina di Xi Jinping che ha l'ambizione di guidare la globalizzazione dei commerci, di sfidare gli Stati Uniti nella corsa all'intelligenza artificiale e di realizzare una spettacolare "Via della Seta" a cavallo dell'Eurasia, il sistema giudiziario è un tallone d'Achille che ricorda a qualsiasi Paese democratico i gravi rischi che vi incorrono i propri cittadini per il solo fatto di esprimere un'opinione non gradita o di visitare un sito web non permesso.
Sono queste le ragioni che hanno spinto i giovani di Hong Kong a scendere in piazza contro la norma sull'estrazione in Cina, riuscendo a paralizzare l'ex colonia britannica con una marea umana che ha superato il milione di anime.
Se cinque anni fa la "Rivolta degli ombrelli" aveva svelato al mondo che Hong Kong non accettava la repressione poliziesca, la marcia indietro di Carrie Lam nasce dalla capacità dei suoi abitanti di mettere a nudo la vulnerabilità del sistema cinese: troppo rigido per gestire qualsiasi tipo di crisi. Davanti alla scelta fra la repressione e la tregua, Pechino ha così ordinato a Carrie Lam di spegnere la miccia di un incendio dagli esiti imprevedibili. Se Hong Kong è diventato il ventre molle del gigante cinese è per due motivi convergenti: da un lato è protetta dalla formula istituzionale "Un Paese, due sistemi" coniata da Deng Xiaoping per consentire alla Cina comunista di assorbire nel 1997 l'ex colonia britannica divenuta una delle maggiori piazze finanziarie del Pianeta, e dall'altra vede la sua popolazione identificarsi in maniera crescente con la definizione di "hongkonghesi" mentre quella di "cinesi" è in drammatica diminuzione.
Ciò significa che gli imponenti sforzi economici, legali e infrastrutturali profusi da Pechino negli ultimi venti anni per integrare sempre più Hong Kong nel proprio territorio continentale non sono riusciti a creare le premesse per l'annessione culturale e politica. In altre parole, la formula "Un Paese, due sistemi" ha portato ad un rafforzamento - non ad un indebolimento - del modello di Hong Kong, trasformandosi in un boomerang per Pechino obbligato ora a fare i conti con un'autonomia talmente radicata da riuscire a respingere i diktat del partito comunista.
Il rischio maggiore per Xi è che le altre regioni autonome - a cominciare dal Tibet e dal Xinjiang - traggano forza da quanto sta avvenendo a Hong Kong, maturando la convinzione che il regime può essere sfidato. Saranno le prossime settimane a dirci come Carrie Lam - espressione diretta del potere cinese - gestirà un'opposizione che ora la incalza, arrivando a chiederle senza mezzi termini di azzerare del tutto la norma contestata, ma ciò che più conta è come Xi affronterà le conseguenze di un passo falso che incrina l'immagine globale di Pechino.
In attesa di conoscere le mosse del potere cinese c'è però una considerazione da fare sulle democrazie occidentali: troppo distratte dalle proprie crisi interne, hanno esitato ad esprimersi a sostegno della rivolta di Hong Kong. Dimenticando che la difesa dei diritti umani è ciò che più le distingue dalle dittature.
di Roberta Zunini
L'Espresso, 16 giugno 2019
Il medico specializzato in emergenze e disastri ha lavorato in Italia e Svezia. Voleva aiutare il suo Paese. Ed è stato a Teheran che lo hanno arrestato durante un convegno e condannato a morte. Con accuse-farsa.
Le autorità iraniane, sedicenti rappresentanti della millenaria cultura persiana, stanno impedendo a un medico gravemente malato, Ahmadreza Djalali, di essere curato. Forse perché ritengono uno spreco curare un detenuto condannato all'impiccagione, la pena comminatagli un anno e mezzo fa sulla base di accuse prefabbricate.
"O perché vogliono farlo morire di malattia prima di eseguire una sentenza che scatenerebbe inevitabilmente le proteste di molte cancellerie isolando ancora di più l'Iran", denuncia Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International, che definisce Djalali un ostaggio del regime iraniano. L'unica volta in cui i magistrati della teocrazia islamica hanno permesso al dottor Ahmadreza Djalali il trasferimento dal famigerato carcere di Evin - dove è tenuto in isolamento dall'inizio della carcerazione, 38 mesi fa - all'ospedale più vicino è stato perché doveva essere operato urgentemente per un'ernia inguinale.
Uno dei problemi di salute provocati con ogni probabilità dalle torture fisiche, oltre che psicologiche, subite. Durante tutta la degenza le caviglie di Djalali sono state incatenate al letto. Questo trattamento umiliante ha convinto il dottore, una volta tornato dietro le sbarre, a chiedere di essere curato all'interno dell'infermeria carceraria.
Ma la richiesta è stata respinta. La salute di Djalali sta peggiorando di giorno in giorno a causa di una diminuzione inarrestabile dei globuli bianchi che fa temere una leucemia, accelerata forse dal lungo sciopero della fame per ottenere una revisione del processo-farsa cui è stato sottoposto, negatagli, così come le cure. Prima del suo arresto avvenuto tre anni fa mentre si trovava nella capitale iraniana per un seminario, Djalali, 46 anni, godeva di ottima salute e svolgeva con successo le proprie ricerche a Stoccolma dove si era trasferito da anni con la moglie Vida Meluannia, chimica di professione, e i due figli, la sedicenne Amitis e Ariyo di 7 anni.
In Svezia il ricercatore specializzato in medicina di emergenza e dei disastri era andato per ottenere il dottorato, dopo che la sua richiesta era stata accettata per il suo eccellente curriculum dal Karolinska institute, una delle più importanti università al mondo di medicina. Grazie alla legge che prevede l'assegnazione del soggiorno permanente agli stranieri che abbiano lavorato legalmente per almeno cinque anni nel paese scandinavo, la famiglia Djalali è di fatto diventata anche svedese e pertanto sospettata automaticamente dal paranoico ministero dell'Interno iraniano di essere al servizio delle intelligence dei paesi considerati ostili o nemici. E infatti il ricercatore è stato condannato per spionaggio.
Dopo avergli impedito di farsi rappresentare al processo dal legale da lui scelto per smontare l'accusa "di collaborare con un governo ostile" e in assenza dell'avvocato assegnatogli d'ufficio, Djalali è stato condannato a morte da un tribunale rivoluzionario, a Teheran, nell'ottobre 2017. La sentenza, confermata dalla Corte Suprema, tuttavia non è stata ancora eseguita. Uno stillicidio che sta minando la salute mentale dei suoi familiari.
In una lettera aperta pubblicata il 9 dicembre 2018, 121 premi Nobel hanno chiesto al leader supremo dell'Iran Ali Khamenei che il ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali, riceva "la migliore assistenza medica possibile", "sia trattato umanamente e in modo equo" e gli sia permesso "di tornare a casa da sua moglie e dai suoi figli e continuare il suo lavoro accademico a beneficio dell'umanità".
Il ricercatore è stato accusato di fornire a Israele informazioni che sarebbero state usate per l'assassinio nel 2010 degli scienziati nucleari iraniani Ali-Mohammadi e Majid Shahriari. "Le accuse sul mio ruolo nel fornire informazioni sugli scienziati nucleari uccisi sono false e vili", ha scritto lo scienziato, "Le ho respinte con numerosi documenti che sono stati presentati alla corte".
La condanna a morte di Djalali è stata uno shock non solo per la moglie e la figlia - il piccolo Ariyo crede che il papà sia all'estero per lavoro - ma anche per i suoi colleghi, tra i quali i medici membri del centro sulla medicina dei disastri, il Crimedim dell'Università del Piemonte Orientale che ha sede a Novara. Ahmadreza Djalali prima di finire nella trappola fabbricata dagli ayatollah, aveva studiato e lavorato dal 2012 al 2015 anche nella cittadina piemontese nota a tutti gli studiosi di medicina dei disastri grazie all'autorevolezza conquistata sul campo dal Crimedim. È stato proprio il suo coordinatore scientifico, Luca Ragazzoni, a lanciare due anni fa la prima petizione rivolta alle autorità iraniane per chiedere la scarcerazione del collega con il quale ha stretto anche un solido rapporto di amicizia.
"Ahmad è una persona umile e determinata che si pone grandi obiettivi e lavora duramente per raggiungerli. Durante gli anni passati insieme ci ha sempre accomunato l'idea di voler far crescere il nostro centro di ricerca attraverso studi e progetti sempre più importanti ed ambiziosi con l'obiettivo di portare un reale beneficio a tutte le persone colpite da disastri ed emergenze umanitarie, per salvare più vite umane possibili, per alleviare le loro sofferenze", dice il medico novarese. Ragazzoni condivide le preoccupazioni dei colleghi svedesi, dei familiari, di Amnesty International, della Federazione italiana Diritti umani per la sorte del ricercatore iraniano che avrebbe voluto in futuro rientrare nel suo paese d'origine dove i terremoti purtroppo sono frequenti e devastanti ma mancano centri avanzati per curare al meglio i feriti.
"Sono sempre rimasto colpito dalla sua estrema generosità, dalla sua capacità di sacrificio per aiutare i colleghi in difficoltà, dai suoi modi sempre gentili e dalla sua integrità d'animo. Testardo e risoluto, Ahmad ha sempre rappresentato un valore aggiunto al nostro gruppo, la sua personalità ci ha fatto fare un salto di qualità a livello internazionale. Tutte queste sue innegabili qualità hanno trasformato il nostro rapporto lavorativo in un'amicizia sincera", conclude Ragazzoni sottolineando che l'amico gli manca molto. La moglie di Djalali, con i rappresentanti di Amnesty e il ricercatore dell'Università orientale del Piemonte, la settimana scorsa è stata ricevuta dal presidente della Camera Roberto Fico e dalla senatrice a vita, la scienziata Elena Cattaneo che dall'arresto di Djalali si è sempre prodigata per la sua liberazione.
"Per me resta pienamente attuale quanto scritto assieme ai senatori Manconi e Ferrara nell'interpellanza presentata a novembre 2017, poco dopo aver appreso che le autorità iraniane avevano deciso di comminare la pena capitale ad Ahmadreza Djalali", ribadisce la senatrice. Secondo Cattaneo, la condanna a morte di un ricercatore, di chi non coltiva altro che la conoscenza, deve essere vissuta dalla comunità internazionale come un attacco portato al cuore del nostro modello di convivenza. "Un ricercatore recluso e in predicato d'esecuzione è un fatto inaudito che deve essere vissuto dalla comunità degli Stati liberi al pari di un'aggressione al corpo diplomatico o a un soldato in servizio di peacekeeping", denuncia.
Il rapporto "Free to think" del network Scholars at Risk, che monitora ogni anno la situazione della libertà di ricerca nel mondo, riferisce di 294 casi di attacchi verificati contro la libertà accademica in 47 Paesi dal primo settembre 2017 a fine agosto 2018. "Il caso di Djalali ha molte analogie con quello di Giulio Regeni, uno studioso che ha continuato fino all'ultimo a rivendicare Io spazio incomprimibile della sua libertà di ricerca.
Mentre, però, siamo arrivati troppo tardi a conoscere la vicenda di Giulio, per salvare Ahmadreza abbiamo ancora un po' di tempo, benché, purtroppo, sempre meno. L'impegno delle Ong che hanno permesso di tenere alta l'attenzione sul caso dev'essere di stimolo per la politica, come pure iniziative come quella dell'Ordine dei Medici di Novara che, in occasione della presenza di Vida in Italia, resa possibile proprio da Amnesty, ha chiesto al sindaco della città di concedere la cittadinanza onoraria ad Ahmadreza", conclude Cattaneo.
Purtroppo la grande ricchezza intellettuale dell'Iran è inversamente proporzionale alla ipocrisia e brutalità degli ayatollah che lo governano dal 1979 in nome di Allah mandando a morte i tanti eroinomani disoccupati e ladri di polli senza il denaro sufficiente per pagarsi i legali vicini al regime, mentre gli avvocati con la schiena dritta se la vedono ridurre spesso a una poltiglia sanguinante a causa delle decine e decine di frustate inferte di prassi assieme a molti anni di carcere duro.
Di recente è salita agli onori della cronaca la tragica storia dell'avvocata Nasrin Sotoudeh, già vincitrice del premio Sakharov, paladina dei diritti umani, da anni in prima fila per difendere i diritti civili e per l'emancipazione delle donne, condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate, condanna poi ridotta a 12 anni che si aggiungono ai 5 di una precedente sentenza. Anche Nasrin è detenuta come Ahmadreza nel carcere alle porte di Teheran, noto per le atroci condizioni in cui versano i detenuti.